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giovedì 16 febbraio 2012

Margherita Porete. Lo Specchio delle anime semplici annientate.


Nel quattrocento, monaci di tutt'Europa si passavano l'un l'altro un manoscritto da leggere in segreto. Esso custodiva la chiave mistica dei nove stati in cui porre l'anima per raggiungere Dio. La giovane autrice, una donna del Nord della Francia, lo aveva divulgato a prezzo della vita. Nel 1310 il grande inquisitore di Francia aveva acceso la pira dell'auto da fé e Margherita, questo il suo nome, (una beghina della Piccardia che col suo percorso di perfezione attraverso l'amore puro giunge al dissolvimento dell'io in Dio) morì sul rogo come eretica pertinace. Il "Miroir des simples âmes" di Margherita Porete, che avrebbe dovuto rimanere sepolto per sempre in quelle ceneri, divenne invece la "Bibbia" di quegli infervorati di fede che col nome di "Fratelli del Libero Spirito", costruirono comunità ribelli in luoghi reconditi dell'intero continente...

"Qui comincia lo specchio delle anime semplici....

L’Anima che sale
i Sette Gradi della divina grazia
può giungere alla perfezione
già durante la vita terrena.
Voi che udirete
come l’Anima possa fare questo,
per bene intendere, dovrete essere ciò che udirete:
L’Amore divino è come una donzella
che, innamorata d’un principe
per la sua eccelsa fama,
non poteva né vederlo né sentirlo,
e ne fece l’immagine con gli occhi della mente.
Allo stesso modo io Anima vi dico:
udii parlare d'un re
che per potenza può essere detto Alessandro;
era così lontano da me
che non potevo trovare consolazione.
Per confortarmi
egli mi donò il libro che narra
del suo modo d'amare
e della pace
in cui vivono coloro che gli sono vicini,
resi da lui principi puri e liberi." Margherita Porete - Lo Specchio delle anime semplici

pubblicata da kether 


di Iceblues


 La grande mistica nel 1310 fu bruciata con l'accusa di eresia in una piazza di Parigi alla presenza di una folla immensa e delle più alte cariche civili ed ecclesiastiche. Anche il suo libro era stato condannato alla distruzione, ma attraversò indenne i secoli e la sua dottrina illuminò tantissime anime.

Che dolce trasformazione venir mutata in ciò ch'io amo più di me. Sono a tal punto trasformata da aver perduto il nome mio per amare, io che so amare tanto poco; è in Amore che sono trasformata, perché io altro non amo che l'Amore
(da Lo Specchio delle anime semplici annientate, di Margherita Porete)

La trasformazione avviene quando l'anima è completamente libera di se stessa. Ritrova il suo essere essenziale ed originale, che è partecipazione di Dio. Questo è il grande tema dal Ritorno che Margherita rende con parole poetiche, vivide e profonde, al livello di altri grandi mistici del suo tempo, come Meister Eckhart.
(Questa è la storia di una donna mistica che visse nell'Alto Medioevo. Scrisse un libro che sorprese e spaventò le migliori teste teologiche ed ecclesiastiche dell'epoca: la donna finì sul rogo ed il suo libro fu bruciato con lei. Ma non tutte le copie del libro si ridussero in cenere. Alcuni manoscritti, redatti nelle più importanti lingue volgari, circolarono per i monasteri d'Europa superando le barriere geografiche, linguistiche e temporali. Le parole di Margherita Porete giunsero fino al Rinascimento ed oltre, influenzando teologi, filosofi, scrittori, uomini di Chiesa, i cui nomi si ricordano e si studiano più della per tanto tempo anonima e dimenticata autrice dello Specchio delle anime semplici annientate). 

Margherita Porete è tutta dentro il suo Libro. Lei e lo Specchio sono la stessa cosa. Lei è anche dentro gli atti dei processi che subì dall'Inquisizione. Fu condannata, ma molti teologi e sacerdoti che lessero il suo Libro e la conobbero diedero giudizi positivi sul suo pensiero.
 (Margherita di Valenciennes, nata intorno al 1250-60, fu beghina durante il regno di Filippo il Bello. Il vescovo di Cambrai, Guido II, già prima del 1306, aveva fatto bruciare pubblicamente nella piazza di Valenciennes lo Specchio ed interdetto Margherita minacciandola di scomunica. Anche il successore di Guido II, Filippo di Marigny, minacciò Margherita. La successiva accusa fu pronunciata dall'Inquisitore provinciale dell'Alta Lorena).
Cosa dice di così tremendo e rivoluzionario lo Specchio?
L'anima non deve desiderare più nulla per essere capace di volere esclusivamente il volere divino
. Deve compiere un cammino regale verso il paese del 
non voler nulla.
Madamigella Conoscenza, illuminata dalla grazia divina, insegna ai marris (desolati), come iniziare il cammino.
Ha scritto Marylin Doiron: "La vita marrie è una vita bloccata o ferma ai primi stadi, a causa dell'attaccamento ad una ricerca egocentrica di virtù. Anche se l'anima dei marris è bloccata ai primi stadi della conoscenza, tuttavia è possibile innalzarsi ed arrivare ad un più alto grado di perfezione"
E come si arriva a questo grado di perfezione? Si arriva grazie alla conoscenza di sé: l'anima comprende gli abissi di ogni povertà, e "vede sé al di sotto di tutte le creature, in un mare di peccato". L'anima si riduce a niente e a meno che niente, comprende che "solo Dio è, mentre lei non è". Così la volontà divina può operare "in lei senza di lei", ovvero senza l'intervento egocentrico dell'anima. Non si tratta di quietismo.
Scrive Margherita: "Tali persone governeranno un Paese se sarà necessario, ma tutto verrà fatto senza di loro".

(Margherita Porete rifiutò di comparire davanti al tribunale dell'Inquisizione. Il rifiuto si protrasse per un anno e mezzo. Trascorse questo periodo in prigione, a Parigi. Non ritrattò neanche di fronte alla minaccia del rogo. Fu quindi dichiarata eretica e relapsa - cioè recidiva - e consegnata, il 31 maggio del 1310 - com'era prassi, dopo la condanna ecclesiastica - al braccio secolare, perché eseguisse la condanna. Il primo giugno del 1310 Margherita fu arsa viva in place de Greve, alla presenza di una folla immensa e delle più alte cariche civili ed ecclesiastiche).

Nello Specchio, Margherita mette in scena un dialogo tra personaggi allegorici, com'è tradizione della letteratura cortese: Anima, Dama Amore, Cortesia, Intendimento d'Amore, si confrontano con Ragione, Intendimento di Ragione e con le Virtù. Il Fine Amour, l'amore idealizzato dei trovatori, conduce qui, nella sua trasposizione spirituale, a Dama Amore che rappresenta l'essenza di Dio.
L'Anima deve lasciar perdere le norme esteriori dell'obbedienza che prima aveva osservato in maniera scrupolosa. L'Anima è interamente passiva e dipende dalla volontà divina che opera in lei senza di lei, cioè senza che l'Anima prenda alcuna iniziativa.
Margherita, in largo anticipo sui tempi, intende che ci si salva con la fede senza le opere; questo è uno dei grandi temi della mistica renano-fiamminga, il tema del patire Dio.
Anima e Amore tentano di convincere Ragione. Ma Ragione, stupita e scioccata, non regge a quelli che considera paradossi, e muore. La morte della Ragione lascia spazio ad una più profonda comprensione di Dio. L'Anima intanto abbandona le Virtù, e si innalza al di sopra di esse nella "sovrana libertà dell'Amore".

(L'ultimo, decisivo processo a carico di Margherita Porete fu istituito dall'Inquisitore generale del Regno di Francia, il famigerato domenicano Maestro Guglielmo di Parigi che era anche il confessore di Filippo il Bello, ed aveva presieduto in modo sinistro il clamoroso processo per eresia contro i Templari).

Peter Dronke ha scritto sullo Specchio: "I passaggi lirici e quasi drammatici si integrano bene con l'insieme della composizione; una tensione drammatica spontanea può nascere dagli scambi e dai conflitti tra le proiezioni che Margherita fa delle forze interiori e delle forze celesti e tra questi è Dama Amore che dirige".
Il cavaliere, simbolo dell'anima affrancata, abbandona tutto per seguire Dama Amore. Non si aspetta nessuna ricompensa, soltanto quello che Dama Amore gli donerà spontaneamente, cioè l'amore cortese.

(Tre chierici coltissimi - forse sollecitati dalla stessa Margherita - diedero un giudizio favorevole sullo Specchio che contrastava con la condanna pronunciata dai teologi dell'Università di Parigi . Si trattava di Giovanni, un frate minore; Franco, un cistercense dell'abbazia di Villers in Brabante; il famoso teologo Goffredo de Fontaines, originario delle Fiandre, ex rettore dell'Università di Parigi.
E cioè: un rappresentante della tradizione monastica; un rappresentante dei movimenti spirituali più avanzati dell'epoca; un rappresentante della scuola teologica ufficiale e del clero secolare).
Il cistercense apprezzò il libro senza riserve; Goffredo ed il francese manifestarono profonda ammirazione, ma avvertirono che il libro doveva essere mostrato a persone preparate, in caso contrario poteva essere pericoloso).

Nella letteratura dei trovatori in lingua d'oc, Fin Amour è il frutto della fedeltà e del coraggio dimostrate dall'amante nelle prove che la Dama gli ha imposto: la sua caratteristica è la Gioia, entusiasmo conquistatore ed allo stesso tempo un sentimento legato al possesso completo dell'oggetto amato. Nello Specchio - ma non è l'unico esempio - c'è la versione spiritualizzata ed interiorizzata di questi temi.

(Un sacerdote si schierò dalla parte di Margherita. Guiard de Cressonessart, per aver aiutato e difeso Margherita, fu arrestato a Parigi nel 1308, per ordine dell'Inquisitore Guglielmo. Anche Guiard rifiutò, per un anno e mezzo - era il lasso di tempo legalmente accordato agli accusati affinché avessero modo di pentirsi e riflettere - di presentarsi davanti al tribunale ecclesiastico. Nel marzo del 1310, Guglielmo riunì un'assemblea di teologi e canonisti della facoltà di Parigi per deliberare sui due casi.
Margherita e Guiard furono dichiarati colpevoli di eresia, e - ammenoché non abiurassero - sarebbero stati consegnati presto al braccio secolare perché eseguisse la condanna. Guiard abiurò e fu condannato alla sola detenzione a vita, mentre Margherita non ne volle sapere.
L'Inquisitore Guglielmo riunì in Assemblea solenne i teologi più illustri dell'Università di Parigi. Lo Specchio e la sua autrice furono condannati).

Il non volere è la chiave del non avere e del non sapere, del non pensare nulla nel Lontano-Vicino. Al di sopra della conoscenza razionale come del desiderio egoista, bisogna compiere un cammino lunghissimo per arrivare dal Paese delle Virtù - dove restano i marris - a quello dei dimenticati, dei nudi, degli annientati o dei glorificati, che si trovano nello stadio più alto, là dove Dio non è "conosciuto, né amato, né lodato da queste creature se non per il fatto che non si può conoscerlo, né amarlo né lodarlo. Ciò è la somma di tutto il loro amore e l'ultima tappa del loro cammino"

(Le persecuzioni giudiziarie dell'Inquisizione non si placarono con la morte di Margherita. Lo Specchio si diffuse nell'Europa del XIV e XV secolo. Superò le barriere geografiche, linguistiche e temporali, come non era successo a nessun altro scritto mistico medievale in lingua volgare. Sono pervenute versioni dello Specchio in francese antico, inglese medio, perfino in latino - si tramanda che Margherita avesse tradotto la Bibbia in volgare, era coltissima e forse collaborò lei stessa alla traduzione in latino del suo libro.
A Vienne, nel Delfinato, nel 1311/12 si svolgerà il famoso concilio che condannerà la mistica nordica, specialmente quella di Meister Eckhart e dello Specchio: Margherita Porete e Meister Eckart saranno erroneamente indicati come appartenenti alla setta eretica del Libero Spirito).

Il concilio di Vienne darà allo Specchio la patente definitiva di opera eretica, regolarmente confiscata da tutte le Inquisizioni d'Europa, fino al Rinascimento. Questo non gli impedì di godere di un grande successo, ma allo stesso tempo fu esiguo il numero dei manoscritti che scamparono alle confische.
E' sicuro che fu un'opera di grande successo, che suscitò enorme scalpore, sia durante la vita dell'autrice, sia dopo - basti pensare all'impressionante spettacolarizzazione del suo processo, al quale parteciparono tutte le menti più eccelse della Sorbona. Notevoli furono gli sforzi dell'Inquisizione per fermare la circolazione del libro. Lo Specchio è il libro-fantasma le cui tracce si possono trovare in prestigiosi testi della letteratura spirituale successiva. Ma è nel Nord Italia, dove lo Specchio circolò nella versione latina ed in italiano, soprattutto nella prima metà del XV secolo, che creò maggiore scompiglio - questa però è un'altra storia).

Per raggiungere lo stadio di perfezione bisogna seguire la Ragione e la Virtù e nutrirle - "consiglia" Margherita - "fino ad ingozzarsi": solo dopo si potrà dire, insieme ad Agostino, "ama e fa ciò che vuoi".
Invita a superare il sapere dogmatico che lei conosceva benissimo - non a caso, in alcuni manoscritti, è chiamata "beghina sacerdotessa".

(San Bernardino da Siena si scaglia contro lo Specchio nei sermoni che tiene tra il 1417 e il 1437; a Padova, nel 1433 i benedettini bandiscono il libro dai loro conventi; i gesuiti di Venezia, accusati di aver fatto dello Specchio la loro lettura prediletta e di simpatizzare con l'eresia del Libero Spirito, sono dichiarati innocenti dai due inquirenti inviati nel 1437 da papa Eugenio IV, mentre l'Inquisizione agisce a Padova. La questione di Venezia in seguito si ritorce contro il papa che, deposto, viene accusato di essere favorevole allo Specchio.
Ad accusarlo è Maestro Giacomo, probabilmente l'inquisitore padovano che aveva scritto sullo Specchio "numerose esecrazioni e riprovazioni". Giacomo parlò al concilio di Basilea, nel 1439, dei trenta capitoli dello Specchio giudicati eretici dai padri del concilio e chiese il rogo per i 36 esemplari posseduti, secondo lui, dalla commissione che aveva esaminato il libro di Margherita. Non si sa se le 36 copie siano state davvero bruciate).


Bisogna passare attraverso tutte le Virtù prima di poterle superare.
L'Anima, quando si trova nello stadio di "cieca vita annientata", fatta di distacco, morte dello spirito, aspira ad una capacità di comprensione alla quale non possono arrivare né Ragione, né Filosofia e neppure la Teologia. Vi si arriva in un istante o moment d'heure, grazie al balenìo del Lontano-Vicino, uno degli stadi più alti di perfezione, quello di "vita annientata illuminata". Perciò non si può speculare sull'Essere, lo si sperimenta in un patire: il meno dell'Anima lascia spazio al più di Dio, cioè alla trascendenza dell'essere increato. A questo punto il pensiero non ha più nessun potere sull'Anima, il suo pellegrinaggio si è compiuto, così il suo potere le viene reso, dal momento che non ne farà più un uso egoistico. L'Anima è arrivata nel punto più alto, l'Anima si allieta di non poter mai affermare tutta la ricchezza del suo amante. E' questo il tema della beata ignoranza, uno dei grandi temi della mistica fiammingo-renana.


(Nel 1473 l'eresia dei "sostenitori dell'anima semplice" è denunciata dal francescano Pacifico di Novara. In Francia Jean de Gerson, cancelliere dell'università di Parigi dal 1395 al 1425, ebbe fra le mani un libro sull'Amore di Dio scritto da una certa Marie di Valenciennes. Valenciennes è la città di Margherita: qui il suo libro fu bruciato per la prima volta. La descrizione dell'opera fatta da Gerson ha indotto i critici a pensare che si trattasse dello Specchio; il nome Marie poteva essere un errore del copista. Gerson riconosce che si tratta di un libro di incredibile acume, e mette in guardia contro di esso. Ma un secolo più tardi il libro sarà difeso e ammirato da Margherita di Navarra, sorella di Francesco I, in rapporti di amicizia con il convento della Madeleine, di Orleans, da cui proviene la sola copia accessibile della versione originale dello Specchioin francese antico, che si trova attualmente a Chantilly. Margherita di Navarra, la regina poetessa, nelle sue Prigioni afferma che lo Specchio delle anime semplici è fra i libri più affini alla Sacra Bibbia: "Ma fra tutti uno (libro, ndr) ne vidi di una donna/ che cento anni scritto e ricolmo di fiamme/di carità sì tanto ardentemente/ che nient'altro che amore era il suo dire/inizio e fine di tutto il suo parlare.)


La verità spirituale che l'autrice dello Specchio vuole far conoscere, se verrà capita, aiuterà l'Anima a diventare semplice. Così, mostrando i vari stadi del cammino dell'Anima, si arriva alla comprensione del tema centrale del libro: l'affrancamento dell'anima, che si ottiene annientandosi in Dio attraverso l'amore, arrivando perfino a trasformarsi in Dio.


(Margherita non ha contrastato il dogma. Spesso si muove nella tradizione dei Padri della Chiesa. Perché allora l'Inquisizione la condannò? Per la sua indifferenza nei confronti delle pratiche e degli avvenimenti esteriori - l'anima affrancata non desidera né rifugge messe e sermoni. Non si cura né del Paradiso né dell'Inferno, perché il Paradiso non è altro che "vedere Dio". La Chiesa avvertì un grande pericolo in Margherita e nella sua mistica: teorizzava e sperimentava - espressa per di più in lingua volgare - l'essenziale libertà dell'anima che abbandona le virtù e non è più al loro servizio, visto che l'anima non le pratica più. Ecco perché gli Inquisitori bruciarono Margherita ed il suo libro).


Nello Specchio Margherita distingue tra le anime interessate e quelle che chiedono Fine Amour. Disprezza le anime interessate; per lei sono asini, montoni, "cercatori di paradisi terrestri": "Se si salvano è in modo assai poco cortese"…


(Ma quelli che chiama villani di cuore, mercanti, piccoli spiriti, non hanno connotazione sociale. Villani possono essere il clero dell'Università di Parigi che la condannò, o gli ordini religiosi che la disconobbero e perfino le stesse beghine che non la compresero.
Perché Margherita Porete era anche un grande spirito polemico: "Coloro che non hanno nulla da nascondere non hanno nulla da mostrare". La sua coerenza fa coincidere la sua vita con i suoi scritti: ecco perché rifiuta di comparire davanti al tribunale ecclesiastico e di ritrattare per evitare il rogo. Questo scrupolo di coscienza l'ha portata anche a spiegare una contraddizione presente negli autori mistici: dicono che non si può dire e conoscere nulla di Dio, eppure scrivono a profusione sull'argomento. Margherita spiega semplicemente che scrisse il suo Specchio per una necessità provata prima della liberazione della sua anima, quando faceva ancora parte dei marris, quando "vivevo di latte e pappa ed ero sciocca").

Ci congediamo da Margherita Porete e dal suo Specchio con le parole del teologo Longchamp sul tema medievale dello specchio: "Lo specchio rinvia la sua immagine all'uomo che vi si guarda; lo specchio evoca anche la conoscenza di sé, con l'idea di una purificazione, di un'assimilazione a un ideale morale. D'altra parte, il latino speculum designa in senso lato ogni pittura o rappresentazione; significa quindi quadro, ritratto, se non addirittura descrizione. Lo specchio diventa così strumento di conoscenza, ed è latore di un insegnamento, sia di tipo puramente informativo sia normativo. Questo senso lato del termine ha dato luogo, durante il Medioevo ed oltre, ad un'abbondante serie diSpecula.

Margherita Porete - Specchio delle anime semplici annientate - ediz. San Paolo
Georgette Epiney - Burgard Emilie Zum Brunin :Le poetesse di Dio- L'esperienza mistica femminile nel Medioevo - ed Mursia
Georges Duby - Micelle Pierrot: Storia delle donne - Il Medioevo - ed Laterza




Pagine dedicate alla mistica


Presentazione

Quando, nel 1995, lessi lo Specchio delle anime semplici di Margherita Porete, eretica bruciata a Parigi nel 1310, quasi cadevo dalla sedia per la sorpresa: mi sembrava impossibile trovare in quell'antico testo, nato nell'ambiente indubitabilmente cattolico delle beghine del medioevo, temi così lontani (apparentemente?) dalla religione cattolica - e anche cristiana tout court - comunemente intesa, e tanto vicini a quelli che da tempo conoscevo tipici dell'Advaita Vedanta. Come poteva un'eretica del 1300, in pieno medioevo dominato dal cattolicesimo, fare affermazioni che sembravano uscite dalla bocca di Sankara? Affermazioni che conoscevo bene, per averle lette e rilette nelle Upanishad e, soprattutto, nelle parole di Nisargadatta Maharaj, che le aveva rese vive nei suoi dialoghi (infine tornati in libreria nel 2001 per i tipi della Ubaldini Editore). Fino allora avevo - da ignorante, evidentemente - considerato tali affermazioni relegate in oriente, tra persone che si riferivano ad una fonte comune e cui mancava un sano senso della realtà... Margherita mi ha costretto a confrontarmi con il fatto - stupefacente, forse - che una tale follia non potevo più relegarla in un lontano oriente, e mi era anche venuta a mancare una fonte comune cui far risalire tali affermazioni.
Da allora ho letto molti mistici occidentali, trovando soprattutto in Meister Eckhart tanti e tali temi in comune col 'mio' Maharaj che mi decisi a scrivere un 'ipertesto' pieno di riferimenti incrociati tra questi tre autori, lavoro che ora ho parzialmente portato in rete.

Quale mistica?

Nella mistica sia d'oriente che d'occidente si identificano con facilità due 'tipi' tanto differenti da meritarsi due appellativi distinti: unomistica del sentimento, l'altro mistica speculativa. In queste pagine verrà trattata esclusivamente quest'ultima, che ha le seguenti caratteristiche:
  • Nonostante le apparenze, ed il nome mistica, che rimanda a qualcosa di misterioso, tale esperienza non ha nulla di nascosto o di esoterico: tutti gli autori sono di una chiarezza estrema nel delineare le caratteristiche di conoscenza che caratterizza il loro approccio. Tale conoscenza è per tutti e sempre, in quanto si tratta di un sapere che è essere.
  • La conclusione principale cui giungono questi mistici è la rimozione dell'alterità di Dio. Dio non è un Altro da amare o da temere o da adorare. Dio è dentro di te, e non ci sono mediatori. Tale sapere giunge dopo aver completamente rimosso l'io psicologico, ed è in aperta opposizione con qualunque religione costituita, che si pone appunto come mediatore tra me e Dio; non è un caso che gli autori occidentali trattati siano considerati eretici dalla Chiesa.
  • Nonostante le enormi diversità di cultura, religione e nello stato sociale di questi autori, si sente un incredibile unisono risuonare nelle loro parole. Dicono tutti la stessa cosa.
Come detto, in queste pagine si parlerà solo di mistica speculativa, che ha appunto le caratteristiche ora accennate. È da osservare come il primo punto in particolare determini una stretta parentela tra questa mistica e la filosofia; si tratta di un tema molto interessante, che riprenderò in futuro; per ora vedi questa pagina su Hegel.
Non riprenderò invece il tema della mistica del sentimento, per cui non è fuori luogo qui spendere due parole su di essa.

Mistica del sentimento

Senza naturalmente neanche pensare di affrontare il problema della mistica del sentimento in poche parole, credo di poter indicare i seguenti i punti che la contraddistinguono, e che appaiono essere la negazione dei precedenti:
  • Tale esperienza mistica è donata ad anime eccezionali, molto comprese nella loro profonda umiltà e nel loro soffrire. L'io psicologico è tutt'altro che rimosso.
  • Un io non rimosso (e addirittura ingigantito dalle grandi prove superate per giungere all'esperienza mistica) non può che porsi di fronte a un Altro: tale dualismo è naturalmente bene accetto dalle religioni costituite che, forti dell'eccezionalità difficilmente emulabile del mistico, hanno facile gioco nel proporsi come mediatrici tra il fedele e Dio.
  • L'esperienza mistica si appoggia alle conoscenze religiose del soggetto: come il mistico cristiano vede e ripercorre la passione di Cristo, così l'indù vede Krisna.
Il motivo principale per cui in queste pagine verrà trattata unicamente la mistica speculativa è che, come appena detto, nella mistica del sentimento gioca un ruolo predominante la cultura religiosa del mistico; questo fatto toglie - a mio avviso - all'esperienza mistica del sentimento (o perlomeno alla sua descrizione) quel carattere di universalità che rende proficuo il confronto tra esperienze nate in ambienti, epoche e culture differenti.

Interessantissime a proposito della distinzione tra mistica speculativa e mistica del sentimento le pagine 13-16 del bellissimo testo di Marco Vannini Il volto del Dio nascosto, Mondadori 1999. Se siete interessati a queste mie pagine, siete senz'altro interessati a questo libro, che però si indirizza esclusivamente alla mistica occidentale. Eccovene alcune righe:
Non intendiamo dunque per "mistica" la cosiddetta "mistica del sentimento" (e/o anche "mistica nuziale"), che, distinta da quella chiamata "dell'essenza" (o "speculativa"), permette di inserire nel genere mistica tutto il repertorio devozionale, estatico, visionario della pietà religiosa - cattolica e non. [...]
È evidente che questa concezione della mistica è del tutto superstiziosa, ovvero si inserisce in unadeterminata teologia, funzionale a una dogmatica propria di una struttura di potere, che intende tenere sotto controllo il divino, nell'ambito di un rigoroso dualismo. [...]
È altrettanto evidente che tutto il repertorio delle presunte rivelazioni, visioni, ecc. appartiene alla sfera psicologica del soggetto che le riceve, il quale vede quel che è già determinato a vedere. [...]
Dunque, in quanto la cosiddetta "mistica del sentimento" è appunto del sentimento, essa non ha a che fare con lo spirito, e non va perciò considerata mistica. Essa può interessare la psicologia, soprattutto a motivo di certi suoi aspetti di eccezionalità che la rendono stuzzicante per i cultori dell'erotismo mal digerito (e questo spiega in effetti l'attuale fiorire di indagini sulle "mistiche dell'eccesso"), ma mescolarla con il divino è cosa di cattivo gusto, anzi davvero ripugnante. [...]
Si deve anzi sottolineare come la mistica, nel senso forte in cui usiamo questa parola, non cerchi affatto il particolare, ma l'universale: il suo obiettivo non è l'eccezionalità, ma la costante, serena esperienza dello spirito sempre presente, in quel continuo miracolo che è la vita quotidiana e che appare come tale appena l'io psicologico cede il campo allo spirito.

Come esempio di mistica del sentimento, si potrebbe leggere Il libro dell'esperienza di Angela da Foligno, edito da Adelphi nel 1992.

Nisargadatta Maharaj:
La vita
Maruti Kampli nasce nel 1897 a Bombay. Si sposa, cresce quattro figli e per vivere fa il tabaccaio. A 33 anni conosce un maestro che gli insegna a concentrarsi sul mantra Brahmasmi ("Sono il Supremo"). Poco dopo si realizza ed assume il nome di Nisargadatta Maharaj. Resta nella sua casa a dialogare con chiunque lo raggiunga fino al 1982, anno in cui muore.
Viene introdotto in Italia dalla professoressa Grazia Marchianò, che scrive anche una interessante introduzione ai dialoghi che compongono la raccolta Io sono Quello, pubblicata da Rizzoli nel 1981, 82. Nel 2001 la Ubaldini Editore li ripropone, con lo stesso titolo ma in un solo volume e con una nuova traduzione.

Il pensiero
Si può condensare tutto con il Mahavakya ("Gran Verdetto"): Tat tvam asi ("Quello tu sei"). Notiamo comunque il suo commento in proposito, fulminante come sempre: "Il Gran Verdetto è verace, ma le tue idee sono false, perché tutte le idee lo sono".

Meister Eckhart 
La vita

Grande figura di predicatore medioevale, domenicano, fu tanto considerato "maestro" dai contemporanei che tale qualifica è quasi diventata il suo nome proprio (che probabilmente era Johannes). Nasce verso il 1260 in Turingia, dove studia dai domenicani. Nel 1302 e nel 1311-13 a Parigi tiene la cattedra universitaria che fu di Tommaso d'Aquino e dal 1314 al 1322 opera, come vicario generale, a Strasburgo. Dal 1323 lavora a Colonia dove, nel 1326, l'arcivescovo Enrico di Virneburg apre un processo di Inquisizione a suo carico. Eckhart rivendica il diritto di essere giudicato direttamente dal papa, Giovanni XXII, allora ad Avignone. Lì Eckhart si reca nel 1327 dopo aver pubblicamente dichiarato la propria ortodossia e lì, probabilmente l'anno seguente, muore. Il 27 marzo 1329 il papa promulga la bolla In agro dominico dove alcune proposizioni di Eckhart vengono dichiarate eretiche. La bolla avrà un effetto negativo sulla diffusione del pensiero del maestro (il suo nome venne perfino cancellato dal catalogo degli scrittori dell'ordine), che però non venne mai dimenticato completamente. Inizialmente i suoi confratelli Enrico Suso e Giovanni Taulero, poi Niccolò Cusano, anche Lutero (che nel 1518 diede alle stampe la Teologia tedesca, opera di evidente ispirazione eckhartiana, oggi nota col nome originale di Libretto della vita perfetta) fino ad Angelus Silesius, con il suo Pellegrino cherubico (1674), Fichte, Hegel, Schopenhauer per finire con Heidegger, tutti conobbero il pensiero di Eckhart.

Il pensiero

Nel suo Scritto di difesa Eckhart cita come fondamentali due punti:

  1. Quando si tratta del divino, occorre lavorare solo con l'intelletto, non affidarsi alle immagini.
  2. È peccato mortale il non riportare tutto a noi stessi.
Circa il primo punto va osservato che le immagini sulle quali non si deve fare affidamento sono quelle di Dio ( "[a causa del] peccato Dio è un certo ente, determinato così e così, qui e là, determinato nel 'dove'", scrive nel suo Commento alla Genesi). Perfetto esempio di "immagine" da abbandonare è appunto il Dio biblico, "Altro" per eccellenza ("Perciò preghiamo Dio di diventare liberi da Dio", nel sermone Beati pauperes spiritu). Infine nessuno può conoscere Dio se prima non conosce se stesso, e qui ci colleghiamo al secondo punto che paradossalmente afferma l'assoluta relatività dell'"io". Riportare tutto a se stessi significa finalmente accorgersi di come tutto, assolutamente tutto, sia costretto ad essere (apparire?) così e così perché io sono (appaio?) così e così, e viceversa. Ora si vede come "lavorare con l'intelletto" e "riportare tutto a noi stessi": con il distacco. Potrebbe quella del distacco essere definita la "pratica" del pensiero di Eckhart, la sua logica conseguenza: distaccandosi da tutte le cose, da tutti i contenuti, da tutte le immagini si coglie il duplice senso di "io": da una parte l'"io" psicologico, quello limitato nel tempo e nello spazio, che nasce e che muore; dall'altro la nascita nel "fondo dell'anima" (termine spesso usato da Eckhart) del Figlio, di "quell'eterno essere che l'uomo è stato, e che ora è, e che sarà in eterno", come si legge nel sermone Beati pauperes spiritu.





Amore, nulla e distacco in Margherita Porete (Seminario di Gianfranco Bertagni)
http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/porete.doc



Amore, nulla e distacco in Margherita Porete Appunti per il seminario
(Gianfranco Bertagni)



Dalle fonti riguardo Margherita Porete e la sua vita sappiamo ben poco. Ci parlano invece con molta precisione del processo che la condusse alla sua morte nel 1310.
1 Giugno 1310: nella Place de Grève di Parigi fu arsa al rogo una donna, dichiarata eretica e relapsa, insieme al suo libro, contenente eresie ed errori. Non si dice né il nome della donna né il titolo del libro. Dai cronisti però apprendiamo che si trattava di una beghina – una ‘pseudomulier’, cioè una beghina irregolare -  di nome Margherita, detta Porete, della contea di Hainaut, presentata come persona colta, letterata e fine teologa; secondo la notizia di un cronista, addirittura traduttrice in volgare della Bibbia.
Il procedimento inquisitoriale era cominciato verso la metà del 1308 e durato per due anni. A condurlo, Fra Guglielmo Humbert da Parigi, il domenicano cappellano del Papa e confessore di Filippo il Bello, tristemente noto per essere stato (sempre in quegli anni) impegnato per conto del re nel processo infame contro i Templari.
Secondo gli atti il libro di Margherita sarebbe stato dichiarato erroneo una prima volta alcuni anni prima, a conclusione di un processo diocesano istituito dal vescovo di Cambrai Guido da Colmieu e da quest’ultimo fatto bruciare pubblicamente. In quell’occasione Porete era stata diffidata dal divulgare e leggere ulteriormente il suo libro ad altri, pena il deferimento alle autorità civili.
La Porete disobbedì all’ingiunzione, continuando a predicare le sue dottrine e diffondendo un testo simile a quello bruciato. Questa notizia, che ci parla di un testo ‘simile’ ci autorizza a supporre che il testo tramandatoci potrebbe essere la retractatio di un testo primitivo, andato perduto. Inoltre Margherita presentò la sua opera anche al vescovo Giovanni da Château-Villain.
Quest’ultimo informò del fatto il nuovo vescovo di Cambrai, Filippo da Marigny. Venne aperto così un secondo processo e Filippo spedì Margherita all’Inquisitore Provinciale dell’Alta Lorena. Egli, che a sua volta faceva capo al Grande Inquisitore di Francia, consegnò per competenza Margherita a Fra Guglielmo.
Siamo nella metà del 1308. Margherita viene arrestata e condotta al massimo tribunale ecclesiastico di Francia. Qui l’imputata doveva pronunciare il giuramento di lealtà, cosa che Margherita si ostinò a non fare, così come non rinnegò le proprie teorie ed eresie. La ritrattazione l’avrebbe salvata dalla morte, ma ella non si piegò. Quindi fu dichiarata eretica convinta e confessa e dunque scomunicata con la scomunica maggiore.
All’inizio del 1309 il suo libro venne posto sotto esame da alcuni Consultori, i quali estrassero dall’opera almeno 15 proposizioni “male sonantes”. Le carte del processo ne riportano solo due: la prima e la quindicesima.
Secondo la prima tesi, l’anima annichilita, l’anima innamorata totalmente di Dio, può prendere congedo dalle virtù, dopo essere stata per lungo tempo sotto il loro dominio. Essa recita testualmente così: “L’anima perduta nell’amore si congeda dalle virtù e non è più al loro servizio; non deve più esercitare le virtù, ma le virtù stesse sono al suo servizio”.
Secondo la quindicesima tesi, riferita negli atti del processo, tale anima non si cura delle consolazioni e dei doni di Dio per lei, per non impedire che la sua totale attenzione a Dio stesso venga meno: “Un’anima siffatta non si preoccupa più delle consolazioni di Dio nè dei suoi doni; essa non ha più e non può più preoccuparsene perchè tutta la sua attenzione è rivolta verso Dio stesso”.
Abbiamo poi notizia di una terza proposizione da una fonte esterna, da Guglielmo da Nangis. Egli era un benedettino e rimase impressionato da quella proposizione secondo la quale l’anima annichilita nell’Amore divino perda qualsiasi rimorso di coscienza per i suoi peccati, concedendo alla natura ciò che le viene dettato dal suo desiderio e dal suo appetito. Naturalmente questa proposizione, che come vedremo più avanti cambia di significato tolta dal suo contesto, doveva sembrare al nostro benedettino una sorta di premessa al libertinismo assoluto in campo morale.
L’11 aprile 1309 venne convocata una commissione di ventuno teologi, per giudicare dell’ortodossia o meno delle proposizioni estratte dai Consultori. I teologi decretarono, dopo avere visionato il libro della Porete ed ascoltato le proposizioni incriminate, che l’opera venisse distrutta, in quanto contenente errori ed eresie.
Margherita venne incarcerata e passò in carcere un anno: il regolamento concedeva all’imputato un anno per pentirsi. Il 31 maggio, dopo il rifiuto reiterato da parte di Margherita nel pentirsi e di collaborare con i giudici, una commissione di canonisti la giudicò relapsa e la abbandonò al braccio secolare: dovrà essere bruciata lei e il suo libro insieme; chiunque ne sia in possesso avrà tempo un mese per consegnarlo alle autorità, pena la scomunica.
La sentenza venne eseguita il giorno dopo, il 1 giugno 1310.

Come abbiamo già detto, Margherita ci viene presentata dai cronisti come donna colta, letterata e teologa. La sua cultura innegabile è evidente dalla sua opera di cui cominceremo a parlare fra poco. Quindi possiamo immaginarcela appartenente se non proprio ad una classe sociale particolarmente alta, almeno al patriziato cittadino o comunque ad una classe di ceto e censo dominante. Poi abbiamo visto che era, sempre a dire dei cronisti, una beghina. Qui c’è un piccolo problema. Nel capitolo 122 dell’opera di Margherita, ella fa riferimento esplicito alle beghine. Troviamo scritto: “Che diranno le beghine, e la gente di religione, quando udranno l’eccellenza della nostra divina canzone? Le beghine dicono che erro, e preti, chierici e predicatori, agostiniani, carmelitani e frati minori, per ciò che scrivo dello stato dell’amore nobilitato”. Ben strano per una beghina affermare cose del genere sulle sue consorelle. Allora alcuni studiosi avanzano l’ipotesi che i cronisti sbagliassero nell’indicare Porete come beghina. Altri ne deducono invece che vi fosse un conflitto interno all’ordine delle beghine tra la parte più devota, più ortodossa, conforme ai voleri del potere ecclesiastico e la parte invece più eterodossa e più radicale nella sua scelta di povertà evangelica. Potrebbe essere che Margherita avesse fatto parte di un beghinaggio regolare nel periodo (quanto lungo?) della sua gioventù, oppure che avesse fatto parte, anche in età più avanzata, a questo ramo più estremo delle beghine, che vivevano mendicando in nome di Dio, predicando e vagando, con forte spirito missionario, in conflitto con una società rigidamente gerarchica, e in conflitto anche con quegli Ordini mendicanti ormai inseriti nella logica ecclesiastica e dimentichi delle loro origini di ritorno allo spirito evangelico e rivoluzionarie (a modo loro).

Dunque chi sono queste beghine?
È un movimento composto soprattutto da donne, ma anche, in parte molto più esigua, da uomini (i beghini o begardi, in Italia chiamati anche pinzocheri o bizocchi), che si diffuse in varie parti dell’Europa, cominciando dal Belgio, e poi nella Francia, nei Paesi Bassi, nella Germania e in Italia, a partire del XIII secolo.
Il nome di beghine era originariamente un’accusa, dato che beghine erano le donne appartenenti all’eresia dei catari della Francia meridionale. Ma poi, con il tempo, questa connotazione sparì, almeno nell’autoconsapevolezza delle beghine stesse. Erano donne che vivevano sole o in comunità, conducendo un’esistenza povera e casta. Precedentemente accolte nei monasteri femminili dei Premonstratensi e dei Cistercensi, con il tempo i monasteri stessi non furono più in grado o si rifiutarono di accogliere il movimento religioso femminile, che andava sempre più estendendosi; in più il clero secolare non vedeva affatto di buon occhio qualsiasi forma di pietà evangelica al di fuori degli Ordini religiosi, considerandola un pericolo di eresia; si creò dunque questa forma di intolleranza per il movimento delle beghine, il quale si sviluppò come una nuova forma di vita religiosa, cercando comunque la protezione della Curia. 
Le fonti ci dicono che donne di tutti i ceti e di tutte le età entravano a far parte delle beghine, soprattutto della nobiltà e della buona borghesia. Molte rifiutavano la ricchezza dei propri genitori e il matrimonio con nobili signori, per vivere in povertà, con il lavoro delle proprie mani, mangiando e vestendo poveramente. C’è un rifiuto totale della ricchezza, dei beni della famiglia, spesso considerati come beni guadagnati ingiustamente. Spesso si donano i propri averi ai poveri, vivendo di piccoli lavori di artigianato, soprattutto il cucito, l’uncinetto, tessendo e filando (così come i catari) o dandosi ad attività ospedaliere, ecc. 
Non c’era una protesta evidente contro un certo tipo di nobiltà e ricchezza del tempo, ma certamente un rinuncia a certi privilegi, per un ideale religioso evangelico. La polemica all’inizio fu contro il malcostume ecclesiastico, cioè contro la contraddizione tra il modo di vivere del clero e gli insegnamenti evangelici; per poi passare in un secondo tempo all’impostazione economica della società tutta.
Con il tempo si formarono dei beghinaggi, diretti da una maestra (gran dama), cioè serie di abitazioni una a fianco all’altra, tutte abitate da beghine, nelle quali si osservava una certa regola, anche se non si trattava di un Ordine in senso stretto. La giornata era dedicata alla partecipazione alla Messa, alla recitazione dell’ufficio divino, al rosario, alle preghiere, ai sacramenti, all’osservazione dei numerosi digiuni, alla confessione pubblica delle proprie colpe, all’osservazione della castità e della povertà.
A parte questi elementi, tutti come sappiamo tutti condivisi da praticamente tutti gli ordini medievali ortodossi, altri elementi ‘teologici’ in senso stretto, da potersi considerare eretici, sono difficilmente rintracciabili tra le beghine.
Tuttavia nel 1311 a Vienne si celebra un Concilio che si occupa anche di beghinismo, nel quale vengono portate gravi accuse da parte dei prelati tedeschi. In realtà però vengono presi di mira i begardi più che le beghine. Il ramo maschile del beghinismo, con il suo tentativo di realizzare un ideale di purità, di povertà e di autonomia, rifiuta il matrimonio, condanna il diritto a possedere beni privati, si fa insofferente a qualsiasi gerarchia, ritenendo la guida dello Spirito Santo bastevole per sé. Tutto questo infastidisce il clero e la ‘classe dirigente’ tedesca e dunque Clemente V pubblica due decreti per cancellare il beghinismo. Tuttavia non è una bocciatura assoluta, perché all’inizio del primo decreto si fa un distinguo, concedendo cioè a certe donne fedeli, che abbiano abbiano abbracciato o meno il voto di castità, di vivere insieme nei loro ospizi, dedicandosi alla penitenza. Di questa apertura ne beneficeranno anche i begardi, organizzandosi in un modo analogo.
Nel secondo decreto invece viene fatta una lista di opinioni, che in Germania erano attribuite ai begardi e alle beghine, opinioni che vengono condannate come eretiche. Tra queste ve ne sono otto, che riprendono tesi fatte proprie dal Movimento del Libero Spirito, di cui parleremo più avanti. Le enumeriamo: 
1) L’uomo in questa vita può diventare impeccabile e quindi non può più progredire.
2) A questo grado di perfezione, non ha più bisogno di fare penitenza e di pregare, permettendosi invece di fare tutto.
3) Non è tenuto ad obbedire ad alcuno, neppure alla Chiesa, perché là dove c’è il Signore, c’è la libertà.
4) Egli gode in questa vita la stessa beatitudine di quella futura.
5) Ogni natura razionale è beata di per se stessa e non ha bisogno del lumen gloriae per elevarsi alla contemplazione di Dio.
6) L’anima perfetta non è tenuta alla pratica delle virtù.
7) Far l’amore senza affetto è peccato, ma con affetto non è peccato.
8) All’elevazione dell’ostia a Messa, i perfetti non devono inchinarsi, perché sarebbe come scendere dalle altezze della contemplazione per pensare al mistero eucaristico. 
L’idea di fondo è che al perfetto tutto è concesso, perché non può peccare.
I begardi effettivamente erano meno ortodossi delle beghine; begardo divenne con il tempo sinonimo di eretico, comprendendo anche altri movimenti come appunto il movimento del libero spirito, gli apostolici, i fraticelli.


Sempre nel XIII secolo, a Parigi si sviluppò un movimento ereticale le cui dottrine hanno così tanti punti di contatto con quelle che si propagarono tra le Beghine, che sembra difficile che le due realtà non abbiano avuto qualche nesso da un punto di vista storico. Tuttavia non si è saputo dimostrare se effettivamente i due movimenti si siano mai incontrati. Allo stato dei fatti quindi possiamo parlare solo di un’ampia coincidenza nelle dottrine ereticali.
Riguardo all’eresia di Parigi del 1210 (1210 perché questa è la data del sinodo in  cui si condannò questa eresia), si sa dalle fonti che gli eretici che ne facevano parte erano in stretti rapporti con il movimento religioso femminile; le fonti ci dicono anche che le dottrine ereticali parigine, allora già condannate, continuassero ad esistere, diffondendosi tra le religiose, soprattutto tra le beghine tedesche.
Appartenevano all’eresia per la maggior parte sacerdoti e chierici, ma anche laici e donne. Donne, magari vedove, spesso sprovvedute culturalmente, che venivano visitate nella propria casa dagli eretici, che riuscivano a convincerle attraverso le loro false interpretazioni della Sacra Scrittura. Il popolo li chiamava ‘Papelardi’. Con il tempo, questo termine, secondo una fonte, venne usato anche per indicare le beghine del Belgio e delle Fiandre, le Umiliate della Lombardia, le Pinzochere italiane. Quindi si possono ipotizzare seguaci degli eretici parigini all’interno di questi ambienti femminili.
Nelle interrogazioni dei chierici ritenuti colpevoli di questa eresia, si scoprì che, oltre ad essere tutti assai dotti e alcuni addirittura con il grado di magister, erano tutti stati discepoli del filosofo e teologo Amalrico di Bena, morto alcuni anni prima. Le sue dottrine erano già state contestate nella facoltà di teologia di Parigi, perché ritenute non ortodosse e lui aveva dovuto ritrattarle. Di quali dottrine si trattasse è difficile dirlo. Un cronista ci informa che Amalrico sostenne strenuamente la tesi che l’appartenenza di ogni cristiano al corpo di Cristo era un principio fondamentale del cristianesimo. Ma evidentemente la dottrina amalriciana si spingeva più in là, di questo semplice assunto, che incontriamo anche in San Paolo e che non poteva da solo costituire materia di un’accusa di eterodossia. Altri punti della sua dottrina sono noti solo approssimativamente. Sappiamo per esempio che Amalrico rinnovò l’opera filosofica di Giovanni Scoto Eriugena, di cui subì l’influenza neoplatonica. Ma non sappiamo molto altro su di lui.
I suoi discepoli vennero chiamati dal sinodo di Parigi del 1210 a rendere conto delle loro dottrine. Essi, oltre a condividere la dottrina dell’appartenenza al corpo di Cristo, teorizzavano un panteismo, cioè un’identità tra Dio e tutti gli esseri, l’essenza e la natura di tutte le cose, che doveva provenire con tutta probabilità dalla filosofia di Scoto Eriugena, rinnovata da Amalrico. 
Ma nelle teorie degli eretici parigini non influì solo la teologia di Amalrico, bensì anche una certa concezione storica di stampo rivoluzionario. Si credeva di vivere gli inizi di una nuova epoca di sviluppo religioso, considerata come era dello Spirito Santo, seguente all’era dell’Antico Testamento del Padre e quella del Nuovo Testamento del Figlio. Questa particolare teologia della storia ovviamente si rifà agli insegnamenti dell’abate Gioacchino da Fiore (morto nel 1202).
Quindi questo tipo di consapevolezza (l’essere cioè giunti ad una svolta dei tempi, in cui avrebbe perduto credito tutto ciò che prima era ritenuto vero), insieme alla particolare teologia abbracciata dagli eretici di Parigi, fecero da propulsore per una spinta missionaria universale, con l’intenzione di portare quella riformata religione a tutti gli uomini.
Quali erano precisamente le loro teorie lo sappiamo solo dai loro oppositori. Quanto le affermazioni di questi ultimi siano veritiere ovviamente non ci è dato sapere; tuttavia sono questi i documenti di cui disponiamo. 
Per prima cosa viene data assoluta importanza alla dimensione del sapere, della conoscenza. Non la fede o la speranza danno la salvezza, ma la conoscenza: essa è l’unico fine perseguibile. Un sapere non puramente intellettuale, culturale, bensì quella conoscenza che ognuno ha individualmente in sé, ritenuta rivelazione dello Spirito Santo, incarnatosi nell’uomo. Il vero paradiso è la realizzazione di questo sapere: non c’è altro paradiso. Inferno vuol dire semplicemente non-sapere. Anche per Eriugena, paradiso e inferno non erano spazi, ma stati di coscienza. Con questa teoria gli eretici parigini oppongono la conoscenza al dogma vivente: c’è una opposizione radicale cioè alla Chiesa, secondo la quale scopo ultimo della vita è l’al di là e secondo la quale la conoscenza raggiunta dalla mente umana è impropria, provvisoria e imperfetta. La conoscenza invece, per gli eretici parigini, realizza, determina l’era dello Spirito Santo, sostituendo l’era precedente, del Figlio, caratterizzata dal dominio della Chiesa intesa come istituzione. La fede nella conoscenza svaluta tutto il resto: il culto dei santi, delle reliquie, delle immagini, ma anche il battesimo, la confessione e gli altri sacramenti. Soprattutto l’eucarestia perde significato: Dio è tutto, nel pane come in tutte le cose, il Corpo di Cristo è appartenuto da ogni cristiano, e quindi l’eucarestia non assolve più ad alcuna funzione. 
L’importanza del Cristo, in quanto essere umano, passa in secondo piano: tutti sono membri del corpo di Cristo, ognuno è parte del tutto, cioè di Dio. In quanto uomini dell’era dello Spirito Santo, gli eretici parigini ritenevano di essere Dio incarnato, così come una volta lo era stato Cristo.
In quanto tutto è Dio, il male e il peccato non trovano spazio nella loro teologia. Il peccato non esiste e quindi nessuno può essere punito da Dio, quindi non può seguire nessuna condanna al peccato. Tutto ciò che accade è operato da Dio, anche ciò che fanno gli uomini, nel bene e nel male. Quindi nessuno dovrà pentirsi o espiare. La vera conoscenza porta all’eliminazione della necessità della penitenza, perché l’uomo non fa nulla di propria volontà, discendendo tutto da Dio.
Quindi una nuova etica, che abolisce tra l’altro le leggi della morale sessuale, e che probabilmente non rimase nei limiti della pura riflessione teologica. Conseguente fu dunque lo sdegno dei contemporanei che vedevano in questa forma eretica una vera e propria apologia del peccato.
 Naturalmente il processo di Parigi si concluse con la condanna dei colpevoli della diffusione di questa forma ereticale: chi andò al rogo, chi in carcere a vita. Qualche anno dopo, nel concilio lateranense del 1215, si ribadì la condanna dell’eretico Amalrico e dei suoi seguaci. Da allora più nessun documento, nessuna fonte ci informa dell’esistenza di seguaci di Amalrico, di qualche loro attività, ecc. Quindi la setta sembrò annientata.
Ma alcuni decenni dopo emersero eresie che avevano molti punti di contatto con le idee condannate dal sinodo di Parigi. Idee che anche questa volta attecchirono soprattutto in ambienti femminili. Queste teorie insomma sopravvissero in qualche forma che non ci è dato conoscere, per poi riaffiorare più tardi ed estendersi nell’eresia del Libero Spirito, la quale appare negli ultimi anni del XIII secolo. Una qualche setta amalriciana, con una precisa dottrina ed una organizzazione, non è sicuramente esistita segretamente dopo il 1215. È vero però che le loro idee probabilmente si propagarono in quegli ambienti nei quali gli amalriciani stessi si mossero: soprattutto quelle donne (ma non solo) isolate e non, cui facevano assistenza spirituale. Quindi questo tipo di religiosità, spesso seguito da particolari forme di vita religiosa, dalle quali fin dall’inizio del XIII secolo si era sviluppata la sensibilità per le idee panteistiche, mistiche e spiritualistiche, continuò a sopravvivere nei tempi successivi, soprattutto presso gruppi femminili, diffondendosi ulteriormente.
Questi gruppi non formarono delle sette vere e proprie, così come non costituirono un Ordine; le loro particolari forme di vita, sorte spontaneamente, non erano riconosciute dalla Chiesa, ma neppure erano state condannate e proibite. Non c’era neppure un termine per indicare queste sotterranea e multiforme religiosità; nei vari luoghi erano differentemente indicati, in base alle loro caratteristiche più appariscenti. Alcuni ne parlavano bene, altri con astio, perché ancora dalla gerarchia ecclesiastica non era stato emesso nessun giudizio su di loro. Abbiamo già detto che venivano chiamati da alcuni Papelardi e che in Francia lo stesso termine indicava gli Amalriciani e i loro seguaci, ma anche le religiose altrove chiamate beghine. In più abbiamo un cronista di Colonia che intorno al 1220 chiamò Beghini gli eretici scoperti a Parigi. Capite quanta confusione. A volte non si capisce dove finisca il beghinismo e dove inizi l’amalricianesimo e il Libero Spirito. In ogni caso questa confusione degli osservatori contemporanei ci fa capire che gli eretici parigini e i gruppi di Beghine erano considerati vicini e dello stesso tipo, tanto da poterli nominare a volte con lo stesso nome.

Ma l’elemento eretico, dirompente rispetto alla teologia ortodossa, che venne coltivato dal movimento religioso femminile fu quello del credere che lo spirito proprio e quello altrui fossero lo spirito stesso di Dio. Da questa premessa all’abbracciare atteggiamenti immoderati il passo era breve, soprattutto nel periodo in cui ancora i vari gruppi non erano guidati da una severa disciplina e da una regola di tipo monastico. Da qui derivò quello spirito di libertà che si palesò per la prima volta in quelle comunità femminili della Germania meridionale e che poi proruppe nell’eresia del Ries svevo, nata dopo il 1260.
Dalle testimonianze che abbiamo, cioè dagli interrogatori fatti a quelle persone appartenenti all’eresia del Ries svevo, sappiamo che la maggior parte erano donne. Anzi, dal tipo di testimonianze, non possiamo dire con certezza che vi fossero degli uomini. Inoltre il rapporto con Dio era caratterizzato da una sensualità molto forte: la percezione dell’amore divino si trasfigurava in metafore dichiaratamente sessuali, intrise di carezze, baci, accoppiamenti, allattamenti, ecc. Queste esperienze, tipiche di un certo tipo di mistica femminile dell’amore, alcuni dicevano che non si fermavano alla sfera spirituale. Accuse? Non lo sappiamo. Ma il centro di tutto ciò sta nel fatto che questi simboli erotici si basano sulla consapevolezza della divinizzazione dell’uomo. L’anima può diventare divina nell’unione con Dio, un’unione con Dio così reale, così totalizzante, così piena da essere descritta in termini anche sessuali. Un’unione che avveniva non per grazia, secondo le eretiche, così come invece avviene secondo la teologia cattolica, ma naturaliter, cioè senza un intervento eccezionale da parte di Dio. Nell’esperienza della divinizzazione natura e grazia non si distinguono più. Vedete la vicinanza tra eresia del Ries, mistica femminile del XIII secolo, eresia del libero spirito, le tesi del beghinismo di cui si parla nel decreto del Concilio di Vienne.
Ritornano dunque le tesi panteistiche dell’identità di Dio con tutte le creature e dell’identità della sostanza divina con l’anima. Con il fatto che l’uomo perfetto è Dio, il significato storico, eccezionale del Cristo anche qui perde di importanza in quanto unico essere simile a Dio. Perde importanza anche l’eucarestia perché il sangue del Cristo non merita più onori di quello dell’uomo buono. L’eucarestia non viene rifiutata, ma viene negata la sua unicità di mezzo salvifico.
Perde d’importanza la meditazione sulla passione del Cristo, soffermandosi invece sull’imitazione del Cristo stesso come ideale di vita; perdono d’importanza l’adorazione dei santi, l’obbligo di venerare la Madonna, dato che l’uomo buono può unirsi completamente a Dio senza i loro aiuti.
Così come non sono più necessari confessioni, digiuni, preghiere, perché superflui. Anzi di impedimento al raggiungimento di Dio.
In più gli eretici del Ries diffidavano e rifiutavano la guida spirituale dei teologi, perché questi non avevano comprensione delle loro esperienze religiose; respingevano la vita monastica, perché ritenevano la loro pietà non legata ad una regola precisa, ma infinitamente più valida. E ritenevano quindi gli ordinamenti della Chiesa privi di significato.
L’attività manuale viene svalutata, così come vi è una indifferenza verso le opere virtuose, considerate insignificanti per la vita religiosa. Tutto viene abbandonato, i propri desideri e voleri, alla volontà di Dio e ci si rassegna passivamente a quello che accade, in quanto appunto determinato dalla Sua volontà. Siamo molto vicini alle tesi della mistica speculativa, soprattutto a Meister Eckhart.
Così come per i Catari, per gli eretici del Ries Cristo non avrebbe sofferto durante la passione e non sarebbe stato ferito; altri punti in comune con la teologia catara è la non credenza all’inferno e al purgatorio, il ritenere che gli angeli e i demoni siano la personificazione delle virtù e dei vizi umani, oltre ad alcuni tesi riguardo la resurrezione che qui non ci interessano.
Ricordiamo poi che non vi è notizia di un’organizzazione vera e propria, non si può cioè parlare di setta per gli eretici del Ries.


L’opera di Margherita Porete ha una sua importanza nella letteratura francese: è la prima opera mistica scritta in francese.
Il libro si presenta come rivelato da Amore, personificazione evidentemente di Dio, ma anche personificazione di quello stato dell’anima – l’amore appunto – che è il solo a permettere di comprendere i temi stessi dell’opera.
Margherita sarebbe dunque una specie di segretaria che registra ciò che il vero autore le trasmette. Altre volte sembra che sia Anima a far scrivere il libro, figura di Porete, ma anche di quell’anima nobile presente in ogni uomo completamente indiato, divinizzato, annichilito. Altre volte ancora Margherita parla di sé in maniera indiretta, usando la terza persona, tipo ‘questa creatura’.
Quest’Anima è investita di un’autorità particolare: parla di cose che nessun teologo, nessun chierico può capire, se non sarà integralmente umile, superando il livello di Ragione. Gli insegnamenti di Anima superano anche le Scritture: essi infatti si rifanno direttamente a ‘Divine Amour’, senza alcuna intermediazione, e superiore ad ogni intelletto. Tra parentesi Divine Amour è un personaggio femminile nell’opera, in quanto Amour nel francese del 200 è di genere femminile: ovviamente la traduzione italiana non può trasmettere questo aspetto, ma ricordiamoci sempre che il dialogo tra Anima e Amore è un dialogo tra generi femminili.
Naturalmente la mistica è piena di pretesi nuovi insegnamenti di Dio concessi al mistico o alla mistica di turno. Ma ciò che costituisce abbastanza un’eccezione nell’opera di Margherita Porete – un’eccezione soprattutto rispetto alla mistica femminile – è che non si fa riferimento a nessuna visione estatica particolare. Certo, le affermazioni più ardite escono tutte dalla bocca di Amore – che è Dio – ma della loro esattezza e verità si fa garante Margherita stessa, cercando di accompagnarle con un contorno che si avvicina più alla dimostrazione filosofica che non alla rivelazione profetica dall’alto.
Il titolo del libro appare nel capitolo 13. Libro che noi chiamiamo – dice Amore – “Specchio delle anime semplici, che dimorano in volontà e desiderio”. Il genere letterario è dunque quello dello Specchio, genere tipicamente medievale. Specchi sono trattati sulle materie più diverse, con un taglio eminentemente didattico, scolastico. C’erano Specchi della natura, della storia, della morale, in cui il lettore vedeva ‘riflessi’ aspetti della realtà. Ma in questo caso Specchio anche come conoscenza di sé, specchio come ritratto. Di chi? Delle anime semplici. Quindi specchio come via di trasformazione verso la perfezione spirituale.
Il libro è indirizzato a coloro i quali, spinti da un forte senso religioso, sono però ancora schiavi della loro volontà e della legge: viene indicata quindi la via per la perfetta libertà, sotto la guida di Dio-Amore. Un itinerario che condurrà all’eliminazione della propria volontà (cioè del libero arbitrio) e al proprio annullamento in Dio.
Il libro si presenta dunque come un dialogo/dibattito tra Anima e Amore (Dio e Margherita), che a loro volta configgono con il terzo protagonista di questo dialogo: Ragione. Ragione ci fa una pessima figura: viene umiliata, ridicoleggiata, disorientata rispetto alla sua fragile sicurezza: gli assurdi consigli che sente dare Amore all’Anima le appaiono contrari a tutto ciò che è insegnato dalla Chiesa per la salvezza. È il dibattito tra la teologia e la mistica, tra l’intelletto e l’amore, un conflitto che tra il XIII e il XIV secolo era particolarmente sentito. Il primato per Margherita spetta, come abbiamo ben capito, ad Amore. Ma la Ragione, nello Specchio, è soprattutto rapportata alle virtù, è il simbolo del comune buon senso, della morale vigente, del pensiero dei più. Essa usa gli argomenti della piccolezza spirituale, appunto delle virtù e della categoria canonica della santità, propri di Santa Chiesa la Piccola. Cosa vuol dire Santa Chiesa la Piccola? La Chiesa è una, ma c’è una specie di divisione al suo interno: alla Grande appartengono in pochi, cioè coloro i quali conoscono il contatto con Dio senza mediazione alcuna, invece la Piccola è quella dei più, coloro i quali sono ancora diretti da Ragione.
Vi sono poi anche altre personificazioni, altri personaggi secondari, come ad es. Intelletto, Fede, Tentazione, Carità, Santa Chiesa, le Virtù, Santa Trinità, ecc. Interviene anche Cortesia, come difensore di Anima e Amore: è un aspetto certamente caratteristico di quella nobiltà di modi e di spirito propria del mondo letterario cavalleresco, del quale si sentono spesso gli echi nell’estetica letteraria di quest’opera. Una cortesia però che diventa – spiritualmente – condizione necessaria e presupposto del cammino dell’anima verso la perfezione. Santa Trinità è l’ultima a parlare e a consigliare all’Anima di non svelare ad altri i segreti che è venuta a conoscere nel suo itinerario, perché questi sono ancora governati da Ragione, da Desiderio, da Volontà, e quindi si dannerebbero invece che salvarsi. Poi, nell’ultimo capitolo, il 122, Anima fa una lunga canzone in cui ripercorre velocemente la sua vicenda che l’ha condotta alla libertà totale e a una gioia indicibile. 
L’opera però prosegue con altri capitoli, probabilmente aggiunti in un secondo tempo. Si tratta di considerazioni fatte dall’anima annichilita per – come è indicato dal titolo di questa parte – “quelli che sono nello stato di smarriti, e domandano la strada per il paese della libertà”. Si tratta di una specie di sintesi, di un ritorno ai temi trattati precedentemente, sintesi però nella quale è solo Anima a parlare, essendo sparite tutte le personificazioni che avevamo incontrato nel resto dell’opera, fatta eccezione di Amore che torna nel capitolo 134.
Che si tratti di un’altra opera aggiunta allo Specchio in un secondo tempo? O una parte aggiunta ex-novo? Non lo sappiamo.
In ultimo abbiamo nelle versioni inglese, latina e italiana il testo di tre approbationes, che però manca nella versione francese. Si potrebbe trattare di una lettera di Margherita contenente appunto l’attestato di tre chierici ‘che udirono questo libro’ – come viene scritto. Uno di questi, un Frate Minore di nome Giovanni, disse – ci riferisce Porete – che questo libro è fatto dallo Spirito Santo e che se venisse capito da tutti i chierici del mondo, essi non avrebbero niente da obiettare. Poi, un monaco cistercense di nome dom Franco dell’abbazia di Villers dava assicurazione che tutto quanto fosse scritto nel libro costituiva verità. In ultimo un maestro di teologia, Goffredo da Fontaines. Anch’egli non disse nulla di male riguardo al libro, ma consigliò che non l’avessero in molti, perché avrebbero potuto cambiare la loro vita ed abbacciare una vita cui non sarebbero stati all’altezza. Aggiungeva poi che tutti gli altri modi di praticare la vita interiore erano inferiori a quello descritto in questo libro, in quanto umani: questo solo è divino.
Tra le ultime righe di questa approbatio, troviamo scritto: “Questo attestato di approvazione è stato fatto per la pace degli uditori”.
Spesso Margherita fa appello agli uditori o ascoltatori del suo libro. Probabilmente lei stessa leggeva brani della sua opera tra gruppi di persone; del resto nella sua epoca si dava molta importanza alla lettura ad alta voce; a volte il dibattito tra Amore, Ragione e Anima si fa così vivo che ci sembra di essere all’interno di una serie di battute teatrali, più che in un libro da leggersi mentalmente. Ma questa caratteristica pian piano sfuma. Dal capitolo 107 il genere letterario passa ad essere più didattico, meno dialettico. Già da prima l’alternarsi delle battute aveva perso un po’ della sua vivacità. Anche qui è da leggersi una sorta di ascesi: prima la Ragione è piena di sé, delle sue tesi; poi, con il progressivo squadernarsi dei temi invincibili presentati da Amore, Ragione si ritira, subisce i colpi, fino a morirne.
Riguardo invece ai singoli capitoli che compongono l’opera (140: cioè 139 più il capitolo contenente le tre approvazioni), la maggior parte costituiscono delle piccole trattazioni su singole questioni concernenti il cammino spirituale. Lo si capisce anche dai loro titoli, i quali per la maggior parte iniziano con la parola Comment (come): “Come l’Anima dice che da sé non può niente”, “Come l’Anima è libera, e fuori dalla soggezione di Ragione”, “Come quest’Anima è simile alla Divinità”, ecc. Si tratta insomma di capitoli che trattano di un singolo tema e che possono anche essere letti – in certo modo – indipendentemente. Probabilmente anche questa caratteristica facilitava l’eventuale lettura pubblica dello Specchio, nella quale magari si leggeva uno o un gruppo di capitoli senza perdere troppo del loro significato non avendo letto i precedenti o i successivi.

Ora, per cominciare a vedere da più vicino Lo specchio, iniziamo ritornando a quelle 3 proposizioni di cui ci è rimasta notizia, tra quelle che sono state incriminate nel processo inquisitorio. Ricordiamo che due le ricaviamo dagli atti del processo (la prima e la quindicesima) e una terza da una notizia in una cronaca di Guglielmo da Nangis. Dunque, come a volte accade nelle proposizioni ritenute eretiche, queste frasi non le incontriamo precisamente tali e quali nell’opera sotto giudizio. Spesso si tratta invece di frasi che riassumono un concetto che è ritenuto non ortodosso teologicamente. Per quanto riguarda la prima proposizione, quella cioè che ci parla di come l’anima annichilata non sia più sotto il dominio delle virtù, ma da esse libera, questa riassume alcuni capitoli del Lo Specchio, precisamente i capitoli: 6, 8, 21. Allora: qui si parla appunto dell’anima che prende congedo dalle virtù. Dunque, l’anima è stata per lungo tempo sotto la loro giurisdizione, al loro servizio; ma l’Amore l’ha liberata. Non che l’anima sia d’ora in poi meno virtuosa, ma si libera del senso d’obbligo in cui si sente costretta l’anima non ancora nobile, non ancora annichilita completamente, la quale è virtuosa perché sa che deve essere tale, compie opere virtuose con fatica, con sforzo, e pretende – da questo suo esercizio morale – una ricompensa spirituale in quanto anima meritevole. 
Dunque liberarsi dal dominio delle virtù non vuol dire darsi all’amoralità o ancora peggio all’immoralità. Margherita scrive, nel cap. 8, che senza le virtù nessuno si può salvare, che nessuno può giungere alla perfezione. Dice che l’anima nobile possiede le virtù meglio che tutte le altre creature, ma non ne è più asservita, essendone invece affrancata.
L’asservimento alle virtù, tappa necessaria, è proprio di quel tempo in cui l’anima ora nobile viveva in obbedienza ai dettati della Ragione: ma paradossalmente, il servaggio a ragione e virtù, le ha rese libere. Quasi come se la pratica delle virtù, più si fa intensa e più libera dalle virtù medesime, intese come obblighi. Quand’è che l’anima diventa libera? Margherita risponde: quando le virtù servono senza opposizione alcuna, senza fatica da parte dell’anima stessa. Dimorare nell’Amore ed essere sotto l’obbedienza delle Virtù procura all’anima un gran tormento. Perché? Perché essere sotto il dominio delle virtù vuol dire essere partecipe del loro sottile ricatto, il quale recita: se tu sarai giusto, allora sarai salvato. Allora l’anima entra in uno stato di disperazione, per cui è pronta ad accettare tutto, fino all’inferno, pur di risultare alla fine salvata. L’anima liberata – l’anima che ha portato al loro estremo le virtù - invece non fa più niente in obbedienza alle virtù: il rapporto è invertito e sono le virtù a divenire strumenti dell’anima nobile.
Prima maestra dell’anima, insieme alle virtù, era Ragione; ma poi Anima ha appreso tutto quello che avevano da insegnarle le virtù e molto altro ancora. In sé ora Anima ha il maestro stesso delle virtù, il Divino Amore, il quale l’ha trasfigurata completamente in se stesso, facendo sì che non appartenesse più né a se stessa né alle virtù.
Riguardo invece alla quindicesima tesi incriminata, ricordiamo che essa si riferisce al fatto che l’anima perfetta non si cura più delle consolazioni e dei doni di Dio per lei, essendo tutta rivolta a Dio medesimo e intendendo queste consolazioni come un impedimento al suo raccoglimento tutto interiore. In questo caso, i capitoli che possiamo prendere a riferimento sono il 9, il 13 e il 16.
Il fatto di volere, di desiderare qualcosa, anche nobile spiritualmente come ad esempio il paradiso vorrebbe dire ricadere nell’ostacolo della volontà. Le anime libere invece abbandonano tutte se stesse a Dio, cioè a chi sa cosa è bene per loro e dunque del resto non si preoccupano. Abbandonano tutto e dunque non fanno considerazioni nemmeno su loro stesse: sono buone? Sono cattive? Non lo sanno, non si sanno giudicare, non conoscono nulla di sé. In questo stato esse non hanno nulla da desiderare e nulla da disprezzare: tribolazioni, digiuni, orazioni. Alla natura viene dato tutto quanto le abbisogna, senza rimorso di coscienza; queste parole, che si trovano nel cap. 9, avevamo detto in una lezione precedente che sono a volte interpretate, e forse lo furono dai censori, come un inno al libertinismo. Ma subito dopo troviamo scritto: “Ma tale natura è così bene ordinata in sé per mezzo della trasformazione d’unità d’Amore, al quale la volontà di quest’Anima è congiunta, che la natura non domanda cosa che sia proibita”. Anche qui ovviamente l’indicazione di Amore è contraria a quella di Ragione: quest’ultima infatti, al cap. 13, dice che consigliabile sarebbe desiderare la povertà, le messe, i sermoni, il paradiso, ecc., e odiare ciò che è il loro contrario. Ma Amore ribatte che le anime libere fanno lo stesso conto di ricchezza e povertà, di tormento e di conforto, di paradiso e di inferno. Le anime che desiderano ancora tutto ciò di cui parla Ragione, sono in uno stato di mendicanti: desiderano cioè qualcosa fuori di sé. Ma Dio è bene dovunque, sia con sermoni, orazioni, tribolazioni, ecc., sia senza di essi. C’è insomma un tentativo di uscire da qualsiasi approccio dualistico, separatorio, manicheo. L’unica cosa cara all’anima nobile è volere la volontà di Dio, soffrendone in pace le sue disposizioni. Attenzione, qui la parola soffrire significa un atteggiamento non di dolore, ma di accettazione passiva, di accoglienza di tutto ciò che accade in quanto voluto da Dio. In questo atteggiamento, l’anima ha niente e ha tutto, non sa niente eppure sa tutto.


Veniamo ora alla terza tesi incriminata, quella di cui abbiamo notizia attraverso il Chronicon di Guglielmo da Nangis. Si dice in questa tesi che l’anima annichilata vive senza rimorso alcuno e dà alla natura ciò che essa desidera.
Riguardo a questo ultimo punto (quello sulla natura) lo abbiamo già visto la scorsa volta parlando della seconda tesi discussa (quella che compare come quindicesima). Come si dice al capitolo 16, l’anima nobile non prova disagio per i peccati commessi, come neppure per l’eventuale sofferenza procurata a Dio per colpa sua, o ancora per i peccati fatti dal prossimo. L’anima nobile risiede all’interno della Trinità e quindi il suo pensiero è sempre pacificato, non può essere toccato da tristezza alcuna. I pensieri di questa anima sono così divini che non si soffermano certo in cose passate. L’anima può essere toccata dal dispiacere, ma questo non penetra nel suo fondo, non la tocca nel suo centro. Al cap. 37 si dice che in Paradiso i peccati saranno conosciuti da tutti, e quindi sarà nota a tutti la misericordia e la cortesia di Dio che ha accettato l’anima che peccando gli ha dato tanto cruccio. E questa cortesia di Dio dà la pace all’anima, qualunque cosa essa faccia, nel momento nel quale essa vuole perfettamente la volontà di Dio. Volere la volontà di Dio vuole dire avere perfetta carità. Chi avrà sempre perfetta carità nella propria volontà, non avrà mai rimorso di coscienza. Il rimorso è proprio di chi manca di carità. Nel cap. 111 si fa una netta distinzione tra da una parte la pace data dalla congiunzione d’amore con Dio e dall’altra la guerra data dal rimprovero, propria di chi permane nella propria volontà. La pace è di chi permane invece nel niente volere.
Essendo morta a qualsiasi tipo di sentimento, l’anima nobile non può provare alcun dolore per i suoi peccati, viene detto al cap. 41. Non fa più niente da se stessa, né per se stessa né per Dio. Non opera più né interiormente né esteriormente: essa è totalmente trasferita in ciò che ella ama. E per questo vive senza rimproveri della coscienza, non facendo nulla dentro di sé. Chi fa invece qualcosa per motivo suo proprio non è ancora senza se stesso. Nel cap. 76 vengono fatti gli esempi di san Pietro, di san Giovanni evangelista e soprattutto di Maria di Magdala: San Pietro aveva rinnegato tre volte Gesù, san Giovanni era scappato nel momento della cattura di Gesù, i peccati di Maria Maddalena furono risaputi dal popolo. Eppure nessuno ne ebbe vergogna: erano così svuotati e catturati da Gesù Cristo che non provavano né vegogna, né onore, né volontà alcuna. Non importava loro nemmeno ciò che Dio faceva per mezzo loro. Di Maria Maddalena viene detto che non ebbe vergogna “poiché era sorpresa, presa e accesa; e per questo non c’era persona di cui le importasse se non di lui”. 
In più, nel cap. 109, viene detto che se Dio avesse voluto usar giustizia contro anche uno solo dei peccati dell’anima, ella avrebbe sofferto infiniti tormenti. Ma dato che in Dio c’è giustizia, ma c’è anche Indulgenza e Misericordia, queste staranno dalla parte dell’anima per tutti i suoi debiti, e nel sapere questo l’anima ha pace. In questo stato, tutto diventa uno: che si debba o meno pagare i propri debiti, si è comunque al di là della gioia e della inquietudine. Dio è al di là della giustizia e della misericordia, cioè Dio – nella sua più intima essenza – è senza alcun attributo, al di là di qualsiasi qualità; dunque anche l’anima dovrà farsi così uno, semplice. Tutto per l’anima è una sola cosa, in quanto viene da colui che è uno; e così è uno anche lei.

 L’anima si fa uno con Dio anche nel senso di una totale immedesimazione con l’oggetto del suo amore, oggetto che ovviamente perde il suo statuto stesso di oggetto, non essendoci cioè più la separazione e la divisione tra oggetto e soggetto, ma essendo tutto diventato uno. Per esempio, nel cap. 82 si dice che l’anima perde il suo proprio nome, liquefandosi, disciogliendosi completamente in Dio. Si fa l’esempio del fiume che rientra nel mare e che perde dunque il nome proprio. L’anima è – si dice – perfettamente trasformata nel suo amato e l’amato trasforma la sua sposa tutta in se stesso. Nel capitolo seguente, l’83, si fa l’esempio del fuoco che fa di sé e della materia una cosa sola: non due, ma una – si dice. Stessa cosa per ciò che viene attratto da Amore. Amore e le anime sono una cosa sola, non due. Se fossero due cose allora ci sarebbe discordia; diventando una cosa sola, c’è concordia. Anche nel cap. 113 c’è un interessante riferimento a questa idea. Si fa il solito discorso della nullificazione della volontà, per cui la Divinità compie in noi ma senza di noi le sue opere divine. Egli è colui che è, mentre noi siamo niente. Egli è amante, amato, amore: ecco, qui c’è la completa identificazione e annullamento in Dio. Anzi l’annullamento, ovviamente in primis l’annullamento della propria volontà, conduce all’identificazione con Dio; o meglio: è la stessa identificazione. Mentre prima c’era un soggetto amante (l’anima), un oggetto amato (Dio), è una comunicazione tra i due – cioè l’amore stesso -, ora Dio è diventato tutto: amante, amato e amore, proprio perché l’anima si è fatta nulla. L’anima in un certo senso è già nulla; è nulla perché non ha nulla che non sia dato da Dio. Ma soprattutto è nulla in quanto originariamente era nulla: cioè prima della creazione, l’anima preesisteva in Dio; dato che ciò che è in Dio, è Dio, allora l’anima era nuda come Dio stesso, cioè senza determinazioni alcune. Tutto ciò che si è aggiunto all’anima, si è aggiunto attraverso la vita terrena, la sua volontà propria, che ha determinato tutta quella serie di attributi in più, di determinazioni – appunto -, di allontanamenti da Dio in ultima istanza, che l’hanno fatta deviare dal suo stato di puro nulla. Dunque il suo lavoro sarà quello di tornare ad essere quello che era prima di essere creata, di recuperare il suo essere originario.

Per raggiungere questo stato, l’anima deve morire tre volte, come è detto nei capp. 54 e 60. C’è la morte al peccato, la morte alla natura e la morte dell’anima stessa. La prima è la morte al peccato: dopo questa morte nell’anima non dovrà permanere più nulla che sia contrario alla Legge di Dio. Alle persone che sono morte di questa morte basta guardarsi da ciò che Dio vieta e fare quello che Egli comanda. Al cap. 62 si parla di chi è morto al peccato e si dice che sono persone che non hanno alcun rimorso di coscienza, vivono di grazia, in quanto si attengono a quello che Dio comanda. Chi è morto al peccato mortale sta in guardia dal cadere in stati interiori di vanagloria, d’impazienza. Ma non è ancora completamente svuotato: è ancora attratto dalla ricchezza, è attratto dagli onori, è ancora succube dei giudizi degli altri, per cui se viene disprezzato ne resta smarrito. Questo tipo di persone si sono fatte piccole in terra, ma sono ancora piccole per il cielo: si salvano, ma non nel modo più nobile. Essi considerano Gesù Cristo come qualcuno che fece qualcosa per loro: cioè assumono una imitatio christi intesa come la si intende comunemente e cioè come una serie di comportamenti da assumere per salvarsi; ma non capiscono – dice Porete - che egli fece tutto quello che la natura umana può sopportare, sino alla morte. Non che questo sia un gradino da saltare: ci si deve passare, ma anche superare. Su questo è molto chiaro il cap. 113. Leggiamolo [pag. 409]. Cioè la via è quella che passa attraverso la seconda morte, quella appunto della natura (umana). Questa gente è chiamata, nel cap. 63, villana: sono dei mercanti. [Sono quelli che si mortificano il proprio corpo – viene detto nel 55 – per compiere le opere di carità, sono quelle anime che non vedono stato migliore di quello delle opere di virtù e della morte nel martirio, sono quelle che si riempiono di preghiere e di buona volontà (che è buona, ma è sempre volontà!). In questo trovano la loro felicità, il loro appagamento. Ma in realtà sono ancora servi, mercanti:)] Mercanteggiano mettendo da una parte della bilancia le loro virtù e dall’altra la salvezza. Invece un gentiluomo non si impiccia di mercanzie.
Infinitamente superiori sono dunque quelli che muoiono della morte alla natura. Ma chi è morto alla propria natura ancora non ha concluso il suo percorso. In che senso? Nel senso che morire alla propria natura, vivere cioè di vita puramente spirituale, conduce ad un godimento e quindi ad una ricerca dei piaceri squisitamente spirituali. Certo, piaceri infinitamente superiori ai piaceri materiali, ai piaceri della carne, dei sensi, ma comunque sempre piaceri: cioè l’anima rimane in un certo modo ancora legata e schiava di questa logica; una logica della ricerca, del perseguimento di qualche stato spirituale. Non è quindi ancora un’anima completamente unificata, svuotata. Dovrà allora morire della terza morte: la morte allo spirito, la morte dell’anima stessa. Le anime morte a se stesse sono prive anche di desideri relativi a sensazioni divine, come è detto nel cap. 64. Le anime morte della terza morte sono coloro le quali – si dice nel cap. 65 – vivono senza vergogna, senza onore, senza timore di alcunché possa loro accadere. L’anima nobile è così sulla montagna, al di sopra dei venti e delle piogge. È in uno stato di sicurezza, indisturbato, neppure dalle opere di carità. Questa anima è integralmente vestita di vita divina, vestito incomparabilmente superiore a quello proprio dello spirito. Quindi, riassumendo (inizio cap. 59): si passa dalla morte al peccato (che fa accedere alla vita di grazia) alla morte della natura (che fa accedere alla vita dello spirito) alla morte dello spirito (o dell’anima), che fa accedere alla vita divina. Le anime che sono passate attraverso le prime due morti hanno ancora a che fare con Ragione e il suo nutrimento; le anime invece che sono morte della terza morte, risultano incomprensibili a Ragione, nessun vivente le capisce se non chi è come loro.
Detto questo, bisogna inserire tale itinerario che passa attraverso le tre morti all’interno in un percorso più complesso, di cui parla Porete, nel quale vi sono sette tappe. Appena iniziata l’opera, al primo capitolo, Margherita fa riferimento a questi sette stati. Leggiamo le prime righe del capitolo. [pag. 129]. Ci ritorna poi alla fine dello stesso capitolo, quando parla di sette modi di essere nobile, passando attraverso i quali l’anima giunge allo stato perfetto. Poi di questa divisione in sette tappe non se ne parla più fino al cap. 58. In questo capitolo si parla delle anime che sono al quinto stato, le quali a volte vengono rapite al sesto, ma che in esso stanno per una breve durata, per tornare subito dopo al quinto. Finchè si rimarrà in questa vita terrena, l’anima potrà accedere al sesto stato solo temporaneamente; nella vita celeste invece si giungerà al settimo stato, che non è altro che il sesto stato reso stabile. Il quinto stato è quello di cui parla questo libro, si dice in questo capitolo: cioè Lo Specchio ci parla di quello stato in cui la volontà è morta, motivo che viene ripetuto praticamente in ogni pagina. Anche se a dire il vero, Lo Specchio ci parla sia del quinto stato che del sesto. Comunque il quinto stato è caratteristico in quanto è quello nel quale la volontà è morta, mentre nel quarto stato la volontà ancora permane, esiste.
Poi al cap. 61 si ritorna ai sette stati dell’anima. Si dice: nei primi 4 stati l’anima vive ancora in condizione di servitù; ma nel quinto si realizza la libertà di carità, perché l’anima non ha più alcun impedimento. Il sesto è invece quello stato in cui Dio rende manifesta all’anima, anche se per brevi momenti, quella gloria che non le mancherà mai nella sua vita dopo la morte del corpo e che costituirà il settimo stato. Del sesto stato si parla in modo più esteso nel cap. 91. Il sesto stato è quello nel quale l’anima è così abbandonata a Dio, che non vede più né se stessa né Dio stesso. In questo modo Dio si vede, cioè vede se stesso, nella sua totalità, nella sua infinità bontà. Come dire quasi che finchè l’anima non è completamente annichilita, la comunicazione dell’amore di Dio non torna a Dio stesso con la stessa purezza con la quale è partita. Addirittura viene detto che Dio non può riprendersi senza il beneplacito dell’anima. A questo punto è solo Dio che ama, solo lui è. Si ama da solo, si vede da solo, si conosce da solo, si loda da solo. Questo è il sesto stato, il più nobile ce si possa avere quaggiù.


Ma è il cap. 118 il capitolo nel quale vengono analizzati tutti i singoli 7 modi d’essere dell’anima, descrivendoli uno ad uno. Il primo modo è caratterizzato dall’impossibilità di peccare: corrisponde quindi alla prima delle tre morti, quella appunto al peccato. In questo stato si vogliono osservare i comandamenti di Dio, quindi l’anima si sente in obbligo di amare Dio, di amare il prossimo e tutto questo è per lei fatica, sentendosi completamente impegnata in questo sforzo di attenersi alla legge divina e di osservare tutti i comandamenti. Nel secondo stato l’anima non stima solamente ciò che Dio richiede agli uomini, ma anche quello che consiglia ai suoi amici speciali: dunque l’anima si abbandona, si dà ad opere di mortificazione della natura, disprezza le ricchezze, gli onori, cercando di vivere in tutto e per tutto ciò che viene indicato nel Vangelo. Nel terzo stato l’anima considera con amore il suo percorso di perfezione e questo la induce a desiderare di moltiplicare le sue opere: consapevole che il suo amato ama solo ciò che è degno di lui, ella non sa che offrirgli quella che egli ama. La sua volontà ama solo le opere di bontà. Queste ultime costituiscono la sua delizia, il suo unico piacere; la vita della sua volontà dipende da esse. E dunque si costringe a non operare, a non volere; cerca di ‘macinare’ se stessa, di ‘dissodarsi’, di ‘frantumarsi’, per fare spazio nel quale Amore entrerà. Il quarto stato è quello nel quale l’anima non è più affaticata da alcunché di esteriore; [è lo stato dunque della seconda morte, quella della natura;] in questo stato ella non sopporta che nessuno la avvicini, tranne che il suo diletto. Questa sovrabbondanza d’amore la rende orgogliosa. Amore la sazia completamente e allora lei ritiene che non ci sia stato superiore a quello nel quale ella è attualmente. Ella è ebbra dell’amore di Dio, così ebbra che non tende ad altro che a Dio stesso, essendo diventata cieca a tutto il resto. 
Poi arriviamo al quinto stato, naturalmente quello maggiormente trattato. È lo stato corrispondente alla terza morte, quella dello spirito. È lo stato nel quale l’anima si riconosce come non essere, di fronte a Dio, colui che è. Lui è totale bontà e lei è totale malizia. Sente questo movimento proveniente da Dio verso l’anima stessa, per muoverla dalla situazione nella quale è a quello che dovrebbe essere il suo luogo di destinazione, nonché originario, il luogo dal quale proviene e dove deve essere. Capisce allora, tramite questo movimento di luce divina, che da sé non riesce a fare nulla, se non si separa dalla sua volontà. La sua natura è maligna e quindi di per sé non può giungere a nulla di buono: deve abbandonare allora il suo volere. L’anima capisce anche – sempre attraverso questa luce – che il suo volere deve volere solo il volere divino, che solo per questo le è stato donato. Si potrebbe dire: Dio ha donato la volontà all’anima perché lei la abbandonasse; è un paradosso, ma è così. Cioè solo avendo la volontà io posso abbandonarla, un abbandono che all’inizio non potrà che passare attraverso un atto della volontà stessa. E quindi l’anima abbandona la volontà per tornare a Dio, dove era all’inizio, senza tenere per sé nulla di proprio. Così l’anima viene trasformata nella natura stessa d’Amore. Quest’anima è in pace, perché fu in guerra solo a causa del proprio volere, fuori dal suo vero essere. L’anima è così diventata nulla. In questa nullificazione, che è prodotto ed effetto di una profonda umiltà, sparisce ogni orgoglio. Viene detto: vede se stessa e insieme non si vede. Cosa vuol dire? Vede se stessa nel senso che è solo in questo stadio che capisce la sua vera natura, quella originaria appunto. Ma non si vede, perché è in uno stato di nullificazione tale per cui cosa c’è da vedere? E poi ha così trasferito la sua volontà in Dio, che non c’è più nulla in sé che la spinga a vedersi dentro – un atto quest’ultimo che potrebbe celare ancora un certo orgoglio, un certo crogiolarsi, pur spirituale, del proprio stato di perfezione. Sono quindi un vedere e un conoscere particolari. L’anima si è assisa nel suo fondo, ed essendo là, nessuno le può impedire di vedere direttamente la sua fonte; c’è questo duplice movimento: più l’anima scende dentro di sé, nel suo fondo, più va ‘giù’ e più va ‘su’, cioè più il contatto con Dio risulta senza intermediazione alcuna. E la bontà divina che lei contempla, la trasforma in se stessa. Ella è tutto e nulla, Dio l’ha unificata, l’ha fatta una; ella stessa vede Dio come uno; gli attributi divini di Misericordia e di Giustizia – dice Margherita – hanno fatto la pace nella bontà divina. Il volere se ne è andato via completamente; ciò che prima la rendeva fiera, orgogliosa, ecc, ora non c’è più. Essa conosce la bontà divina, e questa conoscenza le fa vedere anche se stessa, e questi due vedere (la bontà e se stessa) le tolgono la volontà, il desiderio e le opere di bontà; accede ad uno stato di riposo e di libertà e di nobiltà che permangono in lei sempre.
Il sesto stato è quello nel quale l’anima non vede più né se stessa né Dio. Ma poco dopo si dice che l’anima non vede nulla se non Dio. E poi si dice anche che non vede nulla se non se stessa. Sembrano contraddizioni. Ma ricordiamoci che siamo giunti ad uno stato tale per cui Dio e Anima sono completamente uniti, la separazione soggetto-oggetto è cessata. Quindi quando si dice che l’anima non vede più né se stessa né Dio, si vuole dire che non c’è più una dualità: appunto, da una parte l’anima e dall’altra Dio; quando si dice che l’anima non vede nulla tranne che Dio, si vuole dire che essendo lei completamente annichilita, con il suo volere, il suo desiderio, il suo conoscere, in questa situazione solo Uno può essere detto veramente essere, solo Uno è: Dio appunto. E quando – in ultimo – si dice che l’anima vede solo se stessa, significa che essendo l’anima completamente divinizzata, dire che l’anima vede se stessa o dire che l’anima vede Dio, non cambia nulla. Dunque l’anima non vede che Dio in questo stato; ma si potrebbe dire: ma se l’anima vede Dio c’è ancora qualcosa in lei; ma Margherita aggiunge dopo poco che è Dio che si vede in lei. Dio vede se stesso, ama se stesso. La bontà donata all’anima è Dio stesso: Dio si vede nell’anima in virtù della bontà che si espande e ritorna in lui.
In ultimo il settimo stato, quello paradisiaco, di cui nessuno può parlare, dice Margherita: è quello che l’anima avrà nella gloria eterna.

Riguardo al quinto stato e soprattutto al sesto stato, anche l’amore viene a mancare. Questo aspetto è evidente nel cap. 131. In questo capitolo, a un certo punto l’anima come si comporterebbe se sapesse che il suo Amato preferirebbe che lei amasse un altro anziché lui; la domanda suona talmente incredibile che l’anima perde il senno, non sapendo cosa rispondere. Dio la incalza – ella si immagina – chiedendole come reagirebbe nel sapere che lui ami altri più di lei: anche qui le manca il senno e non sa rispondere. E in ultimo l’anima si chiede come vivrebbe il sapere che lui potesse volere che l’amasse un altro più di lui. Ancora qui manca di senno e non sa rispondere.
Questi risultano agli occhi dell’anima tre veri e propri paradossi, avendo lei realizzato che: destino del suo amore è Dio; non c’è amore più grande di quello di Dio nei suoi confronti. Ora però l’anima si vede nella condizione, a suo modo penosa, di dover sottostare alla volontà di Dio anche qualora essa sembri andare contro tutto ciò che l’anima stessa ha appreso riguardo Dio e il suo rapporto. Dice l’anima allora: se io fossi certa che questa è la vostra volontà, allora lo vorrei anche io, senza mai più niente volere. Dunque qui la volontà dell’anima trova la sua fine, anche cioè quell’ultimo residuo di volontà che era rivolta a Dio e che da lui cercava la sua soddisfazione. Il volere e l’amore dell’anima si fanno martiri, commenta l’anima stessa. Prima c’era la speranza, il sogno di vivere sempre in uno stato d’amore, nato dalla buona volontà dell’anima; ora tutto ha fine, perché l’anima è uscita dalla sua infanzia – come si dice a conclusione del capitolo. Perché infanzia? Perché tutto quello che viveva prima l’anima era ancora – come abbiamo già detto – volontà e desiderio: volontà di permanere in questa unione speciale con Dio, desiderio di ricevere da lui un amore incommensurabile. Fine dell’amore quindi è il distacco (fine nel doppio senso di conclusione del suo percorso e termine); se l’amore celava sempre in sé una condizione di dipendenza, con il distacco l’anima accede alla libertà.


Chiudiamo ora questo capitolo e ne apriamo uno nuovo, dedicato alle influenze teologiche e filosofiche (alcune probabili, altre certe) che sembrano avere contato una certa importanza sulla formazione di Margherita e soprattutto sulla formazione del suo Specchio. Ricordiamo che dal testo che abbiamo e dalle notizie dei cronisti coevi, possiamo essere certi di avere di fronte una donna colta, forse appartenente ad una classe sociale abbastanza alta e con una raffinata formazione teologico-spirituale. Citeremo solo alcune fonti, le più significative.
I primi riferimenti che dobbiamo fare sono legati naturalmente al movimento delle beghine. Soprattutto nelle persone di tre beghine: Beatrice di Nazareth (che nasce nel 1200), Hadewijch d’Anversa (morta verso il 1240) e Matilde di Magdeburgo (nata all’inizio del 1200 e morta nell’82). Tutte e tre le mistiche sono da inserirsi nella cosiddetta minne mystik, quella mistica dell’amore di cui Margherita è, come sappiamo, pienamente partecipe. Beatrice di Nazareth scrisse, oltre ad una autobiografia, anche un trattato sui Sette modi dell’amore. Nella sua vita vi sono elementi che la avvicinano alla tipica mistica femminile: numerosi slanci di affetto verso Gesù, pratiche ascetiche estreme, frequenti visioni, meditazioni intorno alla passione di Gesù, al simbolo del suo cuore, ecc. Tutto questo naturalmente ha ben poco a che vedere con Margherita Porete. Ma ci sono altri elementi di vicinanza: ad esempio i sette modi d’amore, cioè i sette modi in cui l’amore – diciamo così – si incarna, possono essere accostati ai sette modi dell’anima di cui parla Margherita. Poi, ad esempio, nel secondo modo, l’anima vuole amare Dio ‘senza perché’. Questo ‘senza perché’ è un’espressione tipica di Beatrice di Nazareth e avrà un suo successo nei mistici renani, in primis in Meister Eckhart, su cui torneremo dopo. E ‘senza perché’ è più volte ripetuto da Margherita, per significare l’aspetto totalmente gratuito dell’amore, che non accattona più per un suo tornaconto personale. E anche in Beatrice c’è questo aspetto: si ama Dio non più spronati da dovere o timore. Nel sesto stato poi l’anima è così immersa nell’amore di Dio, che tutto le sembra facile, sia operare che stare quieta: anche qui una certa rassomiglianza con alcuni brani dello Specchio, in cui si dice che l’anima svuotata di tutto, ha tutto, non sente più alcun peso. Inoltre, sia Beatrice che Margherita desiderano che l’anima ritorni ad una purezza tale che possa servire l’amore con libera coscienza, cioè senza l’impaccio del ricordo dei peccati commessi.
Per quanto riguarda invece Hadewijch d’Anversa, un aspetto che l’avvicina molto a Margherita è il linguaggio usato: anche qui abbiamo a che fare con un linguaggio tipicamente cavalleresco, proprio della lirica cortese (anche qui abbiamo la personificazione di Amore); e tutto questo abbiamo visto essere massicciamente presente nello Specchio. Inoltre Hadewijch, nelle sue Visioni, Lettere e Poesie, indica una via di spogliazione come necessaria per salire alla contemplazione di Dio. Questo tema della spogliazione (essenzialmente della volontà) è fortissimamente presente – come abbiamo visto - in Margherita. Anche in questa mistica, come in Margherita, amore conduce l’anima ad uno stato di unità tale, per cui alla fine, totalmente trasformata, essa confluisce nella semplicità divina: non più due, ma uno. Questa esperienza dell’unione in Dio è anche qui transitoria (come il sesto stato de Lo Specchio), ma in essa si realizza l’identità tra uomo e Dio. Un altro elemento di vicinanza è il tema del ritorno a Dio. Anche per Hadewijch d’Anversa l’anima è inserita all’interno di un movimento che ha la sua origine e la sua fine in Dio. Altro tema che lega Hadewijch e Porete è il carattere essenzialmente esoterico del loro insegnamento: Hadewijch d’Anversa distingue spesso e volentieri i ‘nuovi’ e gli ‘estranei’; i primi possono capire, gli altri no. E anche Porete - abbiamo visto – distingue la Santa Chiesa la Piccola e la Santa Chiesa la Grande. Inoltre spesso nello Specchio possiamo leggere che l’insegnamento che Amore dà all’Anima è incomprensibile ai più; è meglio tenerlo per sé, non parlarne troppo agli altri. Insomma: un segreto. Ma è soprattutto lo sviluppo del tema dell’amore, veramente centrale in Hadewijch, che avrà una eco ampia in tutto Lo Specchio, in cui appunto Amore la fa da padrone. Inoltre, in ultimo, leggiamo una poesia di Hadewijch (Mengeldicht XXVI) che presenta il tema della povertà in modo molto affine a ciò che possiamo leggere nello Specchio: “Liberi da qualsiasi modo / stranieri a qualsiasi immagine / tale vita conduce così a fondo / i poveri di spirito. / E’ del tutto esiliata, / non mendica il suo pane ed il resto: / i poveri di spirito devono essere senza idee / nella vasta semplicità, / che non ha né fine né inizio, / né forma, né modo, né ragione, né senso, / né opinione, né pensiero, né intenzione, né scienza: / chi è senza sfera e senza limite. / È questa semplicità deserta e selvaggia / che abitano nell'unità i poveri di spirito: / non vi trovano nulla, tranne che il silenzio libero / che risponde sempre all'eternità”.
Anche Matilde di Magdeburgo descrive, nella sua opera La luce fluente della Divinità, un cammino diviso in sette tappe, la settima essendo l’unione sostanziale dell’anima a Dio. Quest’ultimo aspetto è l’elemento più vicino a Margherita, cioè una mistica dell’essenza in cui l’anima dovrà giungere ad essere così unita a Dio, da non avere nulla che si interponga tra i due. C’è anche però, nell’opera di Matilde di Magdeburgo, un aspetto affettivo verso la persona di Gesù, raffigurato come un bel giovane che invita l’anima e anche di imitazione della passione di Gesù da parte dell’anima, che in Margherita non sono presenti, se non in maniera del tutto marginale. Anzi questo è l’elemento che distingue più Matilde da Margherita: l’una cristocentrica (che ha sempre davanti l’umanità di Gesù), l’altra anti-cristocentrica (nella quale l’umanità di Gesù va superata per accedere ad un Amore completamente spogliato di qualsiasi attributo).

Un altro autore da considerare è Bernardo di Chiaravalle, che vive nella prima metà del 1100. Questa fonte dello Specchio è certa, perché nell’opera di Margherita abbiamo diverse citazioni testuali dell’opera di Bernardo. Tra l’altro molte beghine finirono per gravitare attorno all’Ordine cistercense, ordine la cui espansione, come sappiamo, fu promossa da Bernardo, la cui spiritualità fu dunque largamente diffusa nell’ambiente beghinale. I riferimenti all’opera di Bernardo da parte di Margherita sono quelli tipici della mistica medievale: soprattutto il motivo di amare Dio senza alcun motivo che non sia Dio stesso (tra l’altro anche Bernardo, come Margherita, chiama ‘schiavi’ quelli che amano cercando un utile nell’amore); il motivo secondo cui l’amore per Dio (e l’amore di Dio) è un amore senza misura – come scrive Bernardo nel suo De diligendo Deo; il motivo dell’amore che basta a se stesso, che è ricompensa a se stesso, come viene detto nel Commento al Cantico dei Cantici di Bernardo stesso. Per non parlare poi del tema dell’umiltà, ampiamente sviluppato da Bernardo nella sua opera ‘Sui gradi dell’umiltà e dell’orgoglio’, dove l’umiltà è la virtù delle virtù, è colei che conduce alla visione e alla quiete, in cui la volontà dorme, mentre il cuore rimane sveglio, e la quale umiltà giunge ad essere non più virtù dell’uomo, ma di Dio stesso. Tutti temi che Margherita riprende e elabora nel suo testo (tra cui anche la metafora dell’umiltà come valle e la montagna come vetta della contemplazione). Un altro tema che Margherita riprende da Bernardo è l’idea per la quale l’anima si trasforma in ciò che ama: se ama Dio, si trasforma in Dio; questo lo aveva scritto Bernardo ed era uno di quei concetti che avranno una vasta fortuna nella medievale. Anche la metafora del fuoco che brucia quel che ad esso si accosta immedesimandolo in sé, che abbiamo visto essere presente ne Lo Specchio, è ripreso da un brano del De diligendo Deo di Bernardo.
Un’altra fonte che dobbiamo appaiare a Bernardo è Guglielmo di St-Thierry, monaco cistercense tra la fine del 1000 e il 1100. Diciamo che è da appaiare perché diverse opere sue, un tempo erano attribuite a Bernardo stesso; quindi per Margherita lettrice delle opere di Guglielmo, era in realtà come leggere opere di Bernardo. E poi Bernardo e Guglielmo sono i massimi maestri di teologia dell’amore nel XII secolo. Estremamente importante è la sua Epistula aurea, quella Lettera d’oro o Lettera ai Fratelli di Mont Dieu, che è l’apice – da un punto di vista mistico – della sua intera opera. Alcuni punti di contatto tra Lo Specchio e Guglielmo di St-Thierry: ad esempio il fatto che l’anima partecipi della natura divina per un comune amore, e la differenza di partecipazione ad amore da parte di Dio e dell’anima: Dio è tutto amore per natura, l’anima lo è per grazia. Leggiamo ad esempio di passi dalla Lettera: “263. Questa unità di spirito è detta tale non perché è lo Spirito santo che la realizza o che fa aderire a essa lo spirito dell’uomo, ma perché essa è lo stesso Spirito santo, il Dio-Carità. Questo si verifica quando colui che è l’amore del Padre e del Figlio, la loro unità e soavità, il loro bene e il loro bacio, il loro abbraccio e tutto ciò che essi possono avere in comune in quella somma unità di verità e verità di unità, diviene per l’uomo, a suo modo, nei confronti di Dio la stessa cosa che nell’unità consustanziale esso è per il Figlio nei confronti del Padre e per il Padre nei confronti del Figlio. Quando cioè nell’abbraccio e nel bacio del Padre e del Figlio la coscienza si ritrova in certo modo nel mezzo, quando, in modo ineffabile e inimmaginabile, l’uomo di Dio merita di diventare non Dio, ma tuttavia ciò che Dio è: l’uomo diventa per grazia ciò che Dio è per natura”. E: “286. Una volta dunque conformatasi alla sapienza, la ragione si forma una coscienza e dispone in ordine la propria vita: essa adatta a sé, per ciò che attiene alla scienza inferiore, la condizione servile e le capacità della natura; al livello delle cose razionali e a cui essa può accedere, l’ordine della vita; nell’acquisizione delle virtù, la forma della coscienza. E allora, sospinta verso l’alto dalle regioni inferiori, soccorsa da quelle superiori, perseverando nel proprio cammino verso ciò che è retto, essa si affretta a slanciarsi con il giudizio della ragione, l’assenso della volontà, il sentimento della mente e l’effetto della propria opera verso la libertà dello spirito e l’unità; affinché, come già più volte abbiamo detto, l’uomo fedele sia reso un unico spirito con Dio”.
Inoltre Guglielmo distingue due tipi di Intelletti: Intelletto di Ragione e Intelletto d’Amore. Anche Margherita, tra le varie personificazioni che fa intervenire ne Lo Specchio, inserisce Intelletto di Ragione, che appunto si contrappone con quella intelligenza completamente immersa nell’amore divino. Inoltre Margherita paragona l’improvviso e temporaneo accedere dell’anima al sesto stato al balenare di un lampo: anche questa metafora è usata da Guglielmo nella sua Lettera d’oro per descrivere l’esperienza brevissima della rivelazione della Gloria di Dio. Leggiamo un altro passo dalla Lettera: “268. A colui che è eletto e amato da Dio, infatti, appare talvolta una certa luce del volto di Dio, come una luce chiusa fra le mani che appare e scompare secondo la libera decisione di colui che la possiede, affinché, a motivo di ciò che gli è permesso vedere come di passaggio e a sprazzi, l’animo si infiammi di ardore per il possesso pieno della luce eterna e per l’eredità della piena visione di Dio”.
In ultimo, come già detto, c’è il tema dell’amore che domina in tutta l’opera di Guglielmo (come di Bernardo): l’amore è la sola possibilità da parte dell’uomo di unirsi a Dio, attraverso un retto uso della volontà. Sappiamo quanto amore e volontà siano i topoi dell’opera di Margherita. Gli ultimi due passi che leggiamo dalla Lettera: “257. È così, infatti, che Dio va amato. Poiché l’amore è una grande volontà tesa verso Dio; la dilezione è l’adesione e l’unione; la carità è la fruizione. Quanto poi all’unità dello spirito con Dio, per l’uomo che ha levato in alto il proprio cuore è la perfezione della volontà di colui che avanza verso Dio, ma in modo tale che egli non solo ne è rapito, ma è reso perfetto in questo rapimento d’amore, così da non poter volere nient’altro se non ciò che Dio vuole. 258. Volere ciò che Dio vuole: questo è ormai essere simili a Dio; non poter volere se non ciò che Dio vuole: questo è ormai essere ciò che Dio è, lui, per il quale il volere e l’essere sono un’identica cosa. Per cui si dice bene che solo allora lo vedremo così com’è, quando cioè saremo simili a lui, quando saremo ciò che egli è. A coloro cui è stato dato il potere di diventare figli di Dio, infatti, è stato dato il potere non certo di essere Dio, ma di essere tuttavia ciò che Dio è, di essere santi, di essere in futuro pienamente beati, poiché Dio. E qui non si avrà mai un santo, né là vi saranno dei beati, se non da Dio, che è la loro santità e beatitudine”.


Un'altra fonte è Agostino. Naturalmente Agostino è un’auctoritas così presente nella teologia del tempo, così usata nei diversi testi di teologia, filosofia, mistica, spiritualità, che è veramente difficile capire se e quando Margherita si rifaccia ad Agostino in modo diretto oppure tramite altri, testi, altri autori. Ma certamente Lo Specchio è debitore per larga parte dell’agostinismo. Un riferimento praticamente testuale che incontriamo ne Lo Specchio è al cap. 13, là dove Amore dice all’Anima: Amica, amate e fate quello che volete. Questa è una famosa frase che compare nel Commento alla Prima Lettera di Giovanni di Agostino. Altri riferimenti più o meno evidenti all’opera di Agostino compaiono nello Specchio quando si dice che Dio è più intimo all’anima di se stessa (un brano presente nel III libro delle Confessioni) e quando si dice che se l’anima conosce se stessa, allora conosce Dio (dal II libro dei Soliloqui). Anche riguardo alla divisione in 7 gradi, spesso ripresa nel medioevo – come abbiamo detto, essa risale al De vera religione (XXVI, 49) di Agostino. Deriva in ultima analisi da Agostino anche l’itinerario dell’anima inteso come progressivo spogliarsi dalle immagini esteriori, fino al giungere al fondo dell’anima, inteso come sua vera essenza: spogliarsi della propria immagine ed essere trasformato in Dio corrisponde al sesto grado del De vera religione, cioè il fare vuoto in se stessi, il togliere tutto ciò che è determinato. Ma Margherita andrà più in là di Agostino stesso: come abbiamo visto, la sua anima si spoglia anche delle immagini religiose. Un altro tema tipicamente agostiniano (che incontriamo nel De Trinitate, IX, 12, 18) e usato da Margherita è quello dell’identità tra l’amore, l’amato e l’amante (e anche tra la conoscenza, il conosciuto e il conoscente). Dice Agostino che l’amante (l’anima) non genera da sé l’amore, ma è lo Spirito il principio d’amore: dunque l’anima, come dice Margherita, è inserita in questo dinamismo amoroso per cui si identifica con l’oggetto del proprio amore e lo ama di un amore che non è più il suo ma dell’oggetto, dove appunto amore, soggetto amante e oggetto amato sono un tutt’uno. L’anima, insomma, si scopre essere quello che ama, cioè Dio.

Parliamo ora di un autore che è per certi aspetti vicino ai temi di Margherita, o meglio, potremmo dire, è vicino alla mistica del movimento del libero spirito. È interessante trattarne perché di solito certi elementi presenti nella sua opera che convergono appunto con questo tipo di nuova spiritualità, non sono presi in considerazione dagli studiosi. Mi riferisco a Jacopone da Todi. È inutile presentarlo, perché lo conosciamo tutti. Diciamo solo alcune cose. Prima di tutto è contemporaneo a Margherita, essendo nato circa nel 1230 e morto nel 1306. Egli si forma, oltre che su una cultura laica, anche su una cultura teologico-spirituale contrassegnata da autori come Bernardo di Chiaravalle, Guglielmo di Saint Thierry, dalla mistica dei vittorini: tutti elementi, questi, che confluiscono nella cultura francescana dell’Italia centrale del suo tempo. Sicuramente risente anche dell’esperienza del movimento religioso femminile che proprio in quei decenni era al suo picco. Inoltre ricordiamo che fu a causa della morte della moglie Vanna di Bernardino di Guidone della famiglia dei Conti di Coldimezzo (nel 1268) e della scoperta della sua vita spirituale segreta, che Jacopone si convertì. Sulla vita spirituale segreta della moglie non abbiamo nulla di certo, ma qualcuno ha ipotizzato potesse essere una beghina. Anche lui poi si appropria della tematica profana dell’amore per trasfigurarla nelle sue laudi in lirica religiosa-spirituale, così come Margherita o Hadewijch, anche se in queste ultimu rimane uno stile letterario tipicamente cavalleresco – come abbiamo già detto – che in Jacopone è assente. L’amore comunque resta il suo motivo conduttore, in tutte le laudi, così come nelle nostre mistiche. 
Segnaliamo alcune affinità, cominciando con la lauda O amor de povertate. Alcune strofe: “Quatro vènti movo el mare, / che la mente fo turbare; / lo temere e lo sperare, / el dolere e 'l gaudiate. / Queste quatro espogliature / plu ca le prime tre so' dure; / s'e' llo dico pare errore / a chi non n'a capacitate. / De l'onferno non temere / néd en cel spen non n'avere / e de nullo ben gaudire / e non doler d'aversitate. / La vertù non n'è 'mproquene / cà 'l proquene è for de téne”. Affermazione che ci ricorda l’addio di Porete alle virtù, e infatti più avanti Jacopone incalza: “Da onne ben sì tt'à spogliato / et de vertut'espropiato”. Per concludere la lauda dicendo: “Povertat'è null'avere / e nulla cosa poi volere / e onne cosa possedere / en spirito de libertate”.
Ancora più eterodosse sono le affermazioni contenute in un’altra lauda, Sopr’omne lengua Amore, nella quale l’unione con Dio è uno stato ineffabile in cui la virtù cessa di esistere, e alla quale si perviene attraverso la quiete. Si dice che l’uomo che vi è giunto non può più peccare e che l’annullamento in Dio è lo stato di perfezione. Limitiamoci a citare alcuni versi: “Vertute perde l'atto, / da po' che iogne a pporto, […] Ama tranquillitate / sopre atto e sentemento, / retrovar, 'n perdemento / de te, d'Isso [= di Dio] valore. […] De te ià non volere / se non quel ne vòle Isso; / perdir tutto te stesso / en Isso trasformato; […] per ciò ch'en questo stato, / che onne vertute passa, / Cristo, chi c'è, non lassa / cadere mai en fetore”. 
Il che equivale alla raggiunta impeccabilità; infatti: “Da po' che tu non ami / te, ma quella Bontate, / cert'ài per vegetate / c'una cosa si fatto; / […]
Quel Ben che t'è donato, / en Sé te commutando, / lassàra sSé, lassando / en culpa t'e<n>cascare? / Donqua, co' Sé lassare / ià non pò quella Luce / sì te, lo qual conduce / per sì unito amore”. Inoltre: è proprio lo stato di quiete che, realizzandosi in Dio, non perde la sua purezza a contatto con il peccato: “Dolce tranquillitate / de tanta maiuria, / cosa nulla che sia / pò variar tuo stato, / per ciò ch'ell'è locato / en luce de fermezza; / passando per ladezza, / non perde suo candore”. 
L’anima che possiede questa tranquillità, non è offesa da colpa, perché questa non può avervi luogo: “Monda sempre permane / mente che Te possede; / per colpa non se lede, / cà non ce pò salire; / en tanta altezza stane / et en pace resede, / mondo cun vicio vede / sotto sé tutto gire”. Neppure la virtù può provare una condizione così alta, neppure la carità ne ottiene l’onore, che è riservato alla sola quiete: “Vertù no n'à ssentire /en carità fervente! / De stato sì possente / ià non possede onore. / La guerra è termenata, / de le vertù bataglia, / de la mente travaglia. / Cosa nulla contende. / La mente è renovata, / […] 'n puritate passato, / terzo celo à trovato / ardor de sarafino; / lume tanto divino / non se pò maculare / per colpa né arbassare, / né 'n sé sentir fetore. / Onne fede se cessa, / ché lli è dato vedere; / speranza, per tenere / Cului che procaciava; / dessider non ci apressa, / né forza de volere, / […] e ià non pò errare, / cadere en tenebria, / […] perde tutto so atto, / voluntat'è passata”.
Quando l’anima abbia superato lo stato del desiderio e della volontà (ricordiamo il titolo per intero de Lo Specchio: Lo Specchio delle anime semplici che dimorano in volontà e desiderio), Dio l’assimila totalmente a sé, annichilandola; sicchè Jacopone conclude: “Non gir chidendo en mare / vino, se 'l ce mittissi, / che trovar lo potissi, / ch'el mar l'à receputo. / E chi 'l pò sì provare, / non pensar che restesse / et en sé rimanesse / (par che non fuss'essuto); / l'Amor sì l'à bevuto, / la Veretà mutato, / lo suo è sbarattato, / de sé non n'à vigore. / Volendo ià non vòle, / ché non n'à so volere”. Abbiamo già visto, a questo proposito, che l’immagine del fiume che si perde nel mare ritorna anche in Margherita.
Non è l’amore e neppure la virtù che introduce ad uno stato così alto, ma solo l’alta nichilitate, come dice Jacopone: uno stato fondato ‘en nichil’, superiore al peccato, nel quale chi c’è non deve abbassarsi a considerare la colpa; tutto trasferito in Dio, egli ‘nullo senti dolore’. “Questa sì summa altezza / en nichil è fundata, / nichilità enformata, / messa en lo suo Signore. / Alta nichilitate, / tuo atto è tanto forte, / che <o>pre tutte porte / et entr'êllo 'nfinito. […] / Placere e ddesplacere / for de te l'ài iectato; / en Deo si collocato, / placer ciò c'a lLui place; / volere e non volere / en te sì è anegato, / disiderio armortato, / per ciò c'ài sempre pace”.
Tutte tesi che ritroviamo nello Specchio, scritto appunto in quegli stessi anni.
Come per Margherita, anche per Jacopone questo è un dono senza ritorno: “Possedi posseduta / en tanta unione, / non c'è devisione, / che te da Lui retraga; / tu bivi et èi bevuta / en trasformazione; / de tal perfezione / non n'è chi te destraga; / onde sua man contraga, / non volenno plu dare, / ià non se pò trovare; / tu èi donna e signore”.
Anche un’altra lauda ritorna in modo molto preciso sul tema dell’annullamento in Dio, componimento che tra l’altro illustra anche il ritorno allo stato adamitico dell’uomo perfetto e senza peccato. Si tratta della lauda La fede e la speranza, in cui troviamo scritto: “Formati senza forma, / mozze tutte le faccie per amore, / però che so' tornati en prima norma; / e questa è la cagione: / chi sta êllo terzo stato / 'ndel novo Adam plasmato, / non vòl pensar peccato / né operare”.


Ora cominciamo a parlare di un altro autore che ha diversi rapporti con il testo di Margherita e che potrebbe essere venuto a contatto con esso. Mi riferisco al più grande mistico speculativo e cioè Meister Eckhart. Prima di inoltrarci nell’indagine di alcuni punti della sua opera molto vicini ai temi dello Specchio, ricordiamo alcuni momenti della sua vita, che ci servono per capire che un rapporto di vicinanza tra Eckhart e Margherita Porete, anche se non disponiamo di prove certe, possiamo dire essere abbastanza probabile.
Per prima cosa diciamo che non è facile datare l’opera di Eckhart: gli studiosi spesso non si trovano d’accordo. Rimane comunque abbastanza chiaro che solo dopo la sua dimora a Parigi nel 1311 – dove nel 1310, dopo un processo direi clamoroso, era stata bruciata Margherita – Eckhart, tornato nel 1314 a Strasburgo, iniziasse la sua predicazione più ardita. Non sappiamo quali fossero i rapporti che lo legavano al vescovo Giovanni da Dürbheim, il quale di lì a poco – nel 1317 – lancerà la prima accusa in terra tedesca contro le dottrine del Libero Spirito. Ma resta indubbio che Eckhart non potè ignorare nè il processo di Parigi, nè la condanna di Vienne, nè l’accusa del vescovo. Per non dire dei teologi che furono impegnati nel processo a Margherita prima e nella condanna di Vienne pochi anni dopo, i quali insegnavano dalle stesse cattedre universitarie in cui insegnava Eckhart. Ricordiamo poi che Eckhart già prima del 1280 inizia a Colonia lo studio della teologia e frequenta Alberto Magno. E Alberto Magno era stato impegnato, fra il 1260 e il 1280, a redigere ad uso dell’inquisizione una Determinatio de novo spiritu relativa alla nuova eresia spiritualistica, diffusasi nell’Europa centrale nel corso del XIII secolo: appunto quell’eresia del Ries svevo di cui parlammo nella seconda lezione. Inoltre: nel biennio del 1302-1303 Eckhart è a Parigi, con il titolo di ‘magister actu regens’. Dal 1296 vi era reggente Goffredo da Fontaines, il quale – come sappiamo dal testo delle approbationes a conclusione dello Specchio, avrebbe dato appunto la propria approvazione all’opera di Margherita. Non è improbabile dunque, visti gli interessi di Eckhart e l’approvazione di Goffredo al testo, che il vecchio professore abbia discusso con il giovane collega dell’opera di questa beghina. E già allora Eckhart aveva redatto quelle Reden der Unterscheidung (Discorsi del discernimento, in Italia tradotto di solito con ‘Istruzioni spirituali’), nelle quali si ravvisano ormai quasi tutte le linee ardite della sua mistica. Ma nessuno ancora evidentemente se ne era accorto. Il primo testo che destò allarme fu invece Lo Specchio di Margherita. Meister Eckhart torna a Parigi nel 1311, per starci fino al 1313 ancora come ‘magister actu regens’ (cosa, questa, veramente eccezionale: prima di lui solo Tommaso d’Aquino era stato chiamato una seconda volta a Parigi a ricoprire questo incarico: questo per sottolineare il prestigio che al tempo aveva Meister Eckhart) a Saint-Jacques, dove risiedeva allora l’inquisitore generale di Francia, quel Guglielmo Humbert da Parigi di cui abbiamo parlato nella prima lezione, il quale portò sul rogo Margherita nel 1310. Dati gli interessi di Eckhart, data la predicazione più ardita che si preparava ad iniziare, date le incolpazioni future che gli saranno intentate, è difficile crederlo ignaro o indifferente agli echi del processo a Margherita o alla condanna dei begardi fatta al Concilio di Vienne del 1311. In ultimo ricordiamo che tra il 1314 e il 1324 Eckhart viene inviato a Strasburgo come incaricato della cura dell’anima dei conventi femminili del suo Ordine, nella Germania meridionale: ambienti – questi – che non erano certo insensibili ai movimenti religiosi femminili dell’epoca.
Tra l’altro, il fatto che un trattato attribuito ad Eckhart, Dar was swester Katrei, non sia in realtà suo, bensì uno di quei pochi testi che gli storici sono concordi nell’attribuire al Movimento del Libero Spirito, può essere del tutto casuale?

Consideriamo ora due prediche di Eckhart, in cui ci sono elementi di vicinanza con i temi di Margherita. Soprattutto per quanto riguarda la prima predica di cui parliamo, quella dedicata ai ‘poveri in spirito’. In questa predica appunto Eckhart commenta l’affermazione evangelica ‘Beati sono i poveri di spirito, chè loro è il regno dei cieli’.
Cosa dice Meister Eckhart? Ci sono due tipi di povertà. C’è quella esteriore, per cui l’uomo povero di beni propri per Dio è da lodare. Ma c’è anche un altro tipo di povertà: la povertà interiore, quella della quali si parla in questa frase di Gesù (la povertà di spirito). Prima di iniziare la sua spiegazione dice: chi non si rende uguale alla verità di cui parlerò non la capirà. Abbiamo visto ce lo stesso elemento torna più volte nell’opera di Margherita: non basta la cultura teologica, certe cose bisogna realizzarle in sé per comprenderle. Allora: chi è povero interiormente? Chi è povero in triplice modo: non vuole niente, non sa niente, non ha niente.
Primo: non vuole niente. Ci sono persone che si danno alla penitenza, alle opere (‘l’esercizio esteriore’), e in questo si tengono ben aggrappate al loro io, ritenendolo tanto importante. Agli occhi dei più sono persone sante, ma in realtà sono ‘asini’ (ricordiamo che anche la Porete chiama asini quelli che non riescono ad arrivare alle vette del suo discorso). Queste persone, gli asini, ritengono che la loro vita debba essere tesa allo sforzo di compiere la volontà di Dio. Questi individui sono buoni, sono lodevoli, raggiungeranno il regno dei cieli, ma non sono ancora realmente poveri, Finchè nell’uomo vi è la volontà, anche quella di voler compiere la volontà di Dio, quest’uomo non è povero. L’uomo deve essere vuoto della sua volontà, così come lo era prima della sua creazione. Sono questi due elementi tipicamente poretiani: quello dello spogliarsi anche del voler fare la volontà di Dio e quello di tornare nello stato di pre-esistenza dell’anima in Dio, prima della creazione. Poi dice Eckhart: è vero povero chi niente vuole e niente desidera. Ricordiamoci il titolo dello Specchio: ... delle anime semplici che dimorano in desiderio e volontà. Quando l’anima era in Dio, prima della creazione, non voleva nulla, non desiderava nulla, non aveva neppur nessun Dio. Cosa vuol dire quest’ultimo punto? L’anima era in Dio, era Dio, perchè ciò che è in Dio, è Dio: quindi non aveva nessun Dio davanti a se, bensì era in lui. Non c’era dualismo: non c’era un’anima da una parte e Dio dall’altra. L’anima ha un Dio quando esce da quella situazione originaria; prima delle creature Dio non era Dio, nel senso che era in se stesso, non era cioè quel dio oggettivato dalle creature. Per questo Eckhart dice una frase che è una delle affermazioni di Eckhart stesso più note: prego Dio di diventare libero di Dio. Questo vuol dire: prego Dio di tornare a quell’origine in Dio, quando Dio non era ancora quel dio che è per noi (con i suoi attributi, con le sue volontà, i suoi comandamenti, ecc.), in quell’origine in cui non c’è differenza tra le creature, in cui l’angelo, la mosca e l’anima hanno la stessa dignità.
Secondo: l’uomo povero non sa niente. L’uomo povero non deve sapere nulla, non deve sentire nulla del suo Dio. Dio vive in lui, ma lui non lo deve sapere. Anzi: è proprio grazie a questo non sapere, che Dio vive in lui. Anche all’origine, prima della creazione, l’uomo non sapeva nulla di nulla: Dio va lasciato operare nella sua libertà, all’uomo spettando di starsene semplicemente vuoto. La beatitudine proviene da un fondo dell’anima che è privo di tutto, anche del sapere che Dio opera in esso. L’uomo povero non deve sapere niente: nè di Dio, nè delle creature e neppure di se stesso. Altro elemento poretiano: ricordiamo come la Porete dica che l’anima semplice non sa nulla di se stessa, non sa se sia sulla buona strada, se sia in peccato, ...: è completamente dimentica di tutto.
Terzo punto: l’uomo povero non ha niente. Non nel senso materiale, ovviamente. Eckhart dice: se l’uomo è libero di tutto: delle creature, di Dio, di se stesso, ma ha ancora un luogo in lui per far sì che Dio possa operare, allora ancora non è completamente povero. Quella di cui parla qui Eckhart è la povertà estrema. Dio non cerca nell’uomo un posto dove operare. Il vero povero in spirito è così privo di tutto, che Dio, volendo operare in lui, deve essere Lui stesso il luogo in cui operare. Finchè l’uomo fa vuoto volendo con questo creare uno spazio per accogliere Dio, rimane ancora all’interno della volontà di proprietà: c’è questo spazio ancora suo, seppur vuoto. Bisogna dunque eliminare anche questo spazio.
Solo grazie a questa povertà, l’uomo dal suo essere creatura, cioè fuoriuscito da Dio, torna a ciò che fu in eterno. Qui Dio è uno con lo spirito: anche qui la teoria della deificazione dell’anima, dell’unità Dio-anima.
In un altro sermone di cui diciamo qualcosa, Eckhart commenta la frase evangelica “Era morto e ritornò alla vita, era perduto e fu ritrovato”. In questa predica, di una certa difficoltà, Eckhart tratta la seguente questione: perchè un’opera si dice santa, buona? Egli si pone contro – lo dice esplicitamente – l’insegnamento dei vari teologi, i quali sostengono che un’opera santa e buona lo è intrinsecamente: cioè la bontà di quest’opera è in se stessa. Lui invece dice che ‘santa’, ‘buona’ sono aggettivi accidentali, che non ineriscono propriamente all’opera stessa. Un’opera, che sia buona o cattiva, ha il suo tempo e la sua morte. Una volta compiuta, l’opera non c’è più: non c’è una bontà inerente all’opera medesima che sussita misteriosamente. Quando lo spirito che ha compiuto l’opera, l’ha terminata, essa muore. In cosa consiste allora la bontà di un’opera? Nel fatto che libera l’uomo. Dice Eckhart: lo spirito dl quale l’opera proviene, si libera dell’immagine. Ecco: la funzione dell’opera è quella dello svuotamento: lo svuotarsi dalle immagini interiori. Più avanti Meister Eckhart dice: “Se avviene un’opera buona attraverso un uomo, l’uomo si libera con questa opera, e grazie a tale liberazion egli diviene più vicino e più simile al suo principio” È in questo che consiste la santità dell’opera, la sua bontà, e in null’altro. 
Quindi hanno valore anche quelle opere buone compiute in stato di peccato mortale. La bontà dell’opera si realizza nel far sì che colui che è in peccato mortale si liberi progressivamente delle sue immagini: non conseguirà certo il regno dei cieli, come chi si trova in grazia: ma fa comunque incamminare verso l’abbandono di se stesso, e quindi opera un avvicinamento a Dio, che è per definizione libero in sè.
La conclusione è che “lo spirito viene reso libero attraverso il comportamento tenuto nelle opere”. È questa quella che Eckhart chiama la potenza dell’opera. Come possiamo capire, tutto questo è molto vicino all’impostazione di Margherita Porete. Tutto deve essere abbandonato, anche l’attaccamento al virtuosismo morale, anche alle opere buone, di carità, ecc. Ma non attraverso un’immoralità o un’amoralità. Per le opere bisogna passare, bisogna pagare il proprio debito anceh alle virtù, all’idea classica e assai ragionevole di virtù così spesso criticata nello Specchio. Ma è iter che va al di là, che intende la pratica delle virtù, delle opere buone, per il loro superamento, per lo svuotamento interiore. È un passare per un esercizio della volontà, della buona volontà, per giungere alla sua morte. Bisogna – diciamo così – gonfiare il palloncino fino all’estremo, per farlo esplodere.


Nel secolo scorso lo Specchio era praticamente perduto, dimenticato. Unica eccezione fu la segnalazione su una rivista specializzata nel 1911, da parte di una studiosa di mistica (Evelyn Underhill) di una versione inglese trecentesca del testo francese. Una quindicina di anni dopo viene pubblicata la traduzione in inglese moderno di questa versione – versione di un traduttore anonimo -  edita con l’imprimatur da Clare Kirchberger nel 1927, all’interno di una collezione di testi dei benedettini inglesi. L’opera fu attribuita dalla Kirchberger a un ecclesiastico francese sconosciuto, sulla scorta delle stesse indicazioni date dal traduttore antico. Il testo infatti fu pubblicato con il titolo: The mirror of Simple Souls by an Unknown French Mystic of the thirteenth Century. Translated into English by M.N. Now first edited from the mss by Clare Kirchberger.
Ma di quella pubblicazione non si interessò praticamente nessuno. La piccola cerchia di lettori di quella traduzione (devoti benedettini e pochi altri evidentemente) lo leggevano quindi come opera di devozione, magari oscura qua e là, trovando in essa poco altro. L’unica eccezione fu quella di Simone Weil, filosofa e mistica francese, vissuta nella prima metà del ‘900 (muore proprio in Inghilterra nel ’43). La Weil potè visionare questa traduzione in inglese moderno dello Specchio nel ’42, quando si trovava a New York, e infatti abbiamo una nota nei suoi Quaderni americani in cui viene menzionato il titolo dello Specchio, con scritto: di un mistico francese del XIV secolo (Quaderni, IV, p. 100). Proprio come recitava la traduzione edita dalla Kirchberger. Subito dopo cita un brano da una lauda di Jacopone – guarda caso: proprio ‘O amor de povertate’, proprio là dove si dice di non temere l’inferno, di non avere speranza per il paradiso, di non godere di nulla, ecc. Poi cita un passo di un’altra laude, ‘Sopr’omne lengua Amore’, laude che abbiamo visto essere vicina ai nostri temi. Insomma la Weil si era accorta del carattere mistico-speculativo dello Specchio, al di là di una lettura puramente devozionale. Qualche pagina dopo, sempre nei Quaderni americani, troviamo un riferimento che ci ricorda lo Specchio. Leggiamolo: “Il grande ostacolo alla perdita della personalità è il senso di colpa. Bisogna sopprimerlo. Il fine è perdere la personalità. Poichè essa è inseparabilmente legata al senso di colpa, il vero valore della virtù è l’abolizione di questo sentimento. Non si combatte il senso di colpa se non con la pratica della virtù. La natura umana è fatta in modo tale da non consentire altra via per uscire dal senso di colpa che, nel suo centro, è identico al sentimento dell’io”. (Quaderni, vol. 4, pp.106-7).
Quando poi la Weil tornerà a Londra nel ’43 – anno della sua morte -, nelle sue note ne citerà un paio di brani e li commenterà. Dal tipo di riferimento allo Specchio capiamo anche il motivo dell’interesse della Weil nei confronti di questa opera allora misconosciuta. Fa un riferimento alla metafora del fuoco: anche Simone Weil era molto sensibile al discorso relativo alla divinizzazione dell’anima, anche nell’opera di Simone Weil c’è questo filo rosso costantemente presente dell’annichilimento di se stessa direttamente proporzionale all’accoglimento interiore di Dio. E quindi possiamo capire come la metafora del fuoco della Porete, insieme ovviamente a tante altre pagine della sua opera potessero suonare familiari alla filosofa francese. Una piccola parentesi: i riferimenti del numero dei capitoli che la Weil fa si riferiscono ovviamente all’edizione inglese della Kirchberger: non coincidono con l’edizione attuale. Poi fa un riferimento all’esaurimento delle facoltà umane, rimandando ad un altro passo dello Specchio (Quaderni, IV, pp. 395-396). Anche questo è un tema molto caro alla Weil e del resto in estrema vicinanza con il tema precedente, quello della divinizzazione. C’è una parola che la Weil usa spesso nei suoi quaderni: la decreazione. Cioè l’idea è che tutto quello che costituisce l’uomo è del tutto contingente: uno nasce in una certa famiglia, in un certo contesto sociale, culturale, ha un certo tipo di formazione, ha certe opinioni, certe amicizie, un certo lavoro, ecc. Ma tutto questo – dice Simone Weil – è qualcosa che è così, ma poteva essere anche diversamente: insomma, tutto ciò non costituisce la vera essenza dell’uomo. Allora l’essere umano deve decrearsi, cioè eliminare in sè tutto ciò che è in più e che lui ritiene – sbagliando – essere la sua vera natura. Allora in ultima istanza anche l’intelligenza, la volontà, il libero arbitrio, ecc., si devono annullare. Ripeto: l’annichilimento di cui dicevamo prima. Più mi svuoto – dice Simone Weil – e più Dio entra in mè; se non creo questo vuoto interiore, Dio non troverà posto in cui entrare. Quindi capite come tutto questo sia in piena sintonia con il pensiero di Margherita. Poi Simone Weil ricopia l’unico brano che appunto scrive di suo pugno nei suoi quaderni. È un brano che riprende dal cap. XIII, 1 dell’edizione inglese, ma che in realtà si trova al cap. 100. Nella traduzione che usa la Weil la frase è volta a domanda, ma nel testo originario la domanda non esiste. Leggiamolo nell’originale: (si sta parlando dell’affermazione evangelica, secondo la quale il più piccolo sarà il più grande nel regno dei cieli) “Nessuno lo crede se non è questa cosa stessa. Colui che è quel che crede, crede veramente; ma chi crede quel che egli non è, non vive quel che crede. Egli non crede veramente, poichè la verità del credere consiste nell’essere quel che si crede. E chi crede questo, è colui che è questo”. Ovviamente anche questo brano è da ricollegare alla teoria della divinizzazione dell’anima: nel momento nel quale la credenza arriva a realizzare interiormente l’oggetto del credere stesso, allora l’anima è fatta uno con Dio, superando quindi la dimensione ancora dualistica della fede, del bisogno di Dio. E infatti subito dopo, Margherita scrive: “Non deve curarsi più nè di se stesso, nè d’altri, nè di Dio stesso, nè più nè meno che se non fosse”. Ormai cioè Dio non si crede più ma lo si è realizzato. A chi ha realizzato, a chi sa non serve più il credere, la fede: egli è. Alla conclusione del capitolo Margherita ribadisce: “Tale dama [l’anima] non cerca più Dio, non ne ha motivo, non sa che farsi di lui. Non ne ha bisogno [...]. Chi cerca, è «con» sè, e perciò ha se stesso, e quindi gli manca qualcosa, visto che si mette a cercare”.
Questo aspetto del non farsene più niente di Dio non fa parte del pensiero di Simone Weil, ma certamente quello del fare vuoto internamente è ripetuto molto spesso nei suoi testi. Si rifaceva, tra l’altro, anche a elementi propri del buddhismo, dello zen, del taoismo, alla ricerca appunto di questo concetto di vuoto: ciò che posso fare, dice la Weil, è operare questa decreazione, questo vuoto e rimanere dunque in uno stato di attesa. Anche la parola ‘attesa’ è uno dei concetti centrali della filosofia weiliana: l’attesa è ovviamente attesa di Dio.
Il testo della Porete dunque non godette, a parte il caso eccezionale della Weil, di particolare fortuna nello scorso secolo. Solo nel 1944, Romana Guarnieri scoprì la vera autrice dello Specchio, Margherita Porete, ne ricostruì la storia dei manoscritti, ne fece l’edizione critica, e lo sottopose quindi all’attenzione degli studiosi. E solo da allora, e soprattutto in questi ultimi decenni, Lo Specchio è riuscito a imporsi come uno dei testi medievali mistico-speculativi più raffinati, con elementi di novità rispetto alla mistica medievale più canonica che lo fanno essere un’opera di estremo interesse sia nel campo storico-mistico che in quello storico-filosofico.




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