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giovedì 12 gennaio 2012

Oriana Fallaci. Incredibile come il dolore dell'anima non venga capito. Se ti becchi una pallottola o una scheggia si mettono subito a strillare, se ti rompi una gamba te la ingessano, se hai la gola infiammata ti danno le medicine. Se hai il cuore pezzi e sei così disperato che non ti riesce aprir bocca, invece, non se ne accorgono neanche. Eppure il dolore dell'anima è una malattia molto più grave della gamba rotta e della gola infiammata, le sue ferite sono assai più profonde e pericolose di quelle procurate da una pallottola o da una scheggia. Sono ferite che non guariscono, quelle, ferite che ad ogni pretesto ricominciano a sanguinare...



Un essere umano che si adegua, che subisce, che si fa comandare, non è un essere umano.
Vi sono momenti nella vita in cui tacere diventa una colpa e parlare diventa un obbligo.
Un dovere civile, una sfida morale, un imperativo categorico al quale non ci si può sottrarre.
Essere donna è così affascinante, è un’avventura che richiede tale coraggio,
una sfida che non finisce mai.
La libertà è un dovere, prima che un diritto è un dovere.
Oriana Fallaci, Remember


È un Paese così diviso, l'Italia. Così fazioso, così avvelenato dalle sue meschinerie tribali!
Si odiano anche all'interno dei partiti, in Italia. Non riescono a stare insieme nemmeno quando hanno lo stesso emblema, lo stesso distintivo. Gelosi, biliosi, vanitosi, piccini, non pensano che ai propri interessi personali. Non si preoccupano che per la propria carrieruccía, la propria gloriuccia, la propria popolarità di periferia e da periferia. Pei propri interessi personali si fanno i dispetti, si tradiscono. Si accusano, si sputtanano…
Oriana Fallaci, La Rabbia e l'Orgoglio



Cristo! Non vi rendete conto che gli Usama Bin Laden si ritengono autorizzati a uccidere voi e i vostri bambini perché bevete il vino o la birra, perché non portate la barba lunga o il chador, perché andate al teatro e al cinema, perché ascoltate la musica e cantate le canzonette, perché ballate nelle discoteche o a casa vostra, perché guardate la televisione, perché portate la minigonna o i calzoncini corti, perché al mare o in piscina state ignudi o quasi ignudi, perché scopate quando vi pare e dove vi pare e con chi vi pare?
Non v’importa neanche di questo, scemi?
Io sono atea, graziaddio.
E non ho alcuna intenzione di lasciarmi ammazzare perché lo sono.
Oriana Fallaci, La Rabbia e l'Orgoglio

Io sono atea, graziaddio.
Irrimediabilmente atea.
E non ho alcuna intenzione d’esser punita per questo da quei barbari che invece di lavorare e contribuire al miglioramento dell’umanità stanno sempre col sedere all’aria cioè a pregare cinque volte al giorno.
Oriana Fallaci, La Rabbia e l'Orgoglio


Perbacco, su questo pianeta nessuno difende la propria identità
e rifiuta d’integrarsi come i musulmani.
Nessuno. Perché Maometto la proibisce, l’integrazione.
La punisce. Se non lo sa, dia uno sguardo al Corano.
Si trascriva le sure che la proibiscono, che la puniscono.
Intanto gliene riporto un paio.
Questa, ad esempio:
Allah non permette ai suoi fedeli di fare amicizia con gli infedeli. 
L’amicizia produce affetto, attrazione spirituale. Inclina verso la morale e il modo di vivere degli infedeli, e le idee degli infedeli sono contrarie alla Sharia. Conducono alla perdita dell’indipendenza, dell’egemonia, mirano a sormontarci. E l’Islam sormonta. Non si fa sormontare”.
Oppure questa:
Non siate deboli con il nemico. Non invitatelo alla pace. 
Specialmente mentre avete il sopravvento. 
Uccidete gli infedeli ovunque si trovino. 
Assediateli, combatteteli con qualsiasi sorta di tranelli”.
In parole diverse, secondo il Corano dovremmo essere noi ad integrarci.
Noi ad accettare le loro leggi, le loro usanze, la loro dannata Sharia.
Oriana Fallaci, La forza della ragione


La morte della madre non è paragonabile alla morte dell’uomo che amavi:
è l’anticipo della tua morte.
Perché è la morte della creatura che ti ha concepito, portato dentro il ventre, regalato la vita.
E la tua carne è la sua carne, il tuo sangue è il suo sangue, il tuo corpo è un’estensione del suo corpo: nell’attimo in cui muore, muore fisicamente una parte di te o il principio di te, né serve che il cordone ombelicale sia stato tagliato per separarvi.
tratto da un brano letto dalla Fallaci nel 1980
di fronte agli studenti del Columbia College di Chicago
Oriana Fallaci, L'amore il dolore la scrittura: i miei tre inverni nel tunnel


Alekos, cosa significa essere un uomo?
“Significa avere coraggio, avere dignità.
Significa credere nell’umanità.
Significa amare senza permettere a un amore di diventare un’àncora.
Significa lottare.
E vincere.
Guarda, più o meno quel che dice Kipling in quella poesia intitolata Se.
E per te cos’è un uomo?”
Direi che un uomo è ciò che sei tu, Alekos.
Oriana Fallaci, Intervista con la storia



L’amore da una parte sola non basta, Giò, le tue sono fantasie da masochista.
Non si regala l’anima a chi non è disposto a regalare la sua.
Chi non fa regali, non apprezza regali.
Tu cerchi Dio in Terra, e sei disposta a qualsiasi menzogna pur di inventarlo.
Ma Dio non si inventa, e neppure l’amore.
L’amore è un dialogo, non un monologo
Oriana Fallaci, Penelope alla guerra


Chissà perché amiamo sempre chi non lo merita: 
quasi che questo fosse l’unico modo per ristabilire l’equilibrio perduto del mondo.
È la più antica forma di masochismo, quella di amare chi non sa amare: e la più stupida.
Oriana Fallaci, Penelope alla guerra


Ce ne sono milioni meglio di lui!
Ce ne sono milioni anche meglio di me.
Comunque io non conosco quelli meglio di lui 
e non posso consumar la mia vita ad aspettar di conoscerli.
E poi se dovessimo cercare la perfezione in un uomo, si amerebbero i santi.
I santi son morti e io non vado a letto col calendario.
Oriana Fallaci, Penelope alla guerra



Incredibile quanto la gente sia sorda al dolore non fisico.
Se hai male allo stomaco o ad un piede, tutti cercano di rendersi utili e ti portan rispetto.
Ma se hai male all’anima nessuno ti aiuta. Ti deridono, anzi: quasi che il dolore non fisico sia una cosa grottesca. Cammini, cammini e non sai a chi domandare soccorso. Non ti resta altro che rivolgerti a Dio: però ti sembra decente rivolgerti a Dio per un uomo che scappa?
Oriana Fallaci, Penelope alla guerra


Incredibile come il dolore dell’anima non venga capito.
Se ti becchi una pallottola o una scheggia si mettono subito a strillare presto-barellieri-il-plasma, se ti rompi una gamba te la ingessano, se hai la gola infiammata ti danno le medicine. Se hai il cuore pezzi e sei così disperato che non ti riesce aprir bocca, invece, non se ne accorgono neanche. Eppure il dolore dell’anima è una malattia molto più grave della gamba rotta e della gola infiammata, le sue ferite sono assai più profonde e pericolose di quelle procurate da una pallottola o da una scheggia. Sono ferite che non guariscono, quelle, ferite che ad ogni pretesto ricominciano a sanguinare.
Oriana Fallaci, Insciallah




Non so arrendermi al fatto che per vivere si debba morire, 
che vivere e morire siano due aspetti della medesima realtà, 
l’uno necessario all’altro, l’uno conseguenza dell’altro.
Non so piegarmi all’idea che la Vita sia un viaggio verso la Morte 
e nascere una condanna a morte. Eppure l’accetto.
Mi inchino al suo potere illimitato e accesa da un cupo interesse la studio, la analizzo, la stuzzico.
Spinta da un tetro rispetto la corteggio, la sfido, la canto, e nei momenti di troppo dolore la invoco.
Oriana Fallaci. Un cappello pieno di ciliege. 2008


Ciascuno di noi nasce dall’uovo nel quale si sono uniti i cromosomi del padre e della madre, 
a loro volta nati da uova nelle quali s’erano uniti i cromosomi dei loro genitori.
Se cambia il padre o la madre, dunque, cambia l’unione dei cromosomi e l’individuo che avrebbe potuto nascere non nasce più. Al suo posto ne nasce un altro e la progenie che ne deriva è diversa dalla progenie che avrebbe potuto essere.
Oriana Fallaci. Un cappello pieno di ciliege. 2008


Ora che il futuro s’era fatto corto e mi sfuggiva di mano con l’inesorabilità della sabbia che cola dentro una clessidra, mi capitava spesso di pensare al passato della mia esistenza: 
cercare lì le risposte con le quali sarebbe giusto morire.
Perché fossi nata, perché fossi vissuta, e chi o che cosa avesse plasmato il mosaico di persone che da un lontano giorno d’estate costituiva il mio Io.
Naturalmente sapevo bene che la domanda perché-sono-nato se l’eran già posta miliardi di esseri umani ed invano, che la sua risposta apparteneva all’enigma chiamato Vita, che per fingere di trovarla avrei dovuto ricorrere all’idea di Dio.
Espediente mai capito e mai accettato.
Oriana Fallaci. Un cappello pieno di ciliege. 2008



Nella sua perfidia il mal dolent (il cancro ndr) include qualcosa di positivo:
un’attesa di solito abbastanza lunga dell’inevitabile traguardo chiamato Morte.
Un’anticamera dell’aldilà, se vuoi.
Un intervallo o un limbo nel quale la Morte in arrivo cammina col rallentatore sicché,
spettandola e osservandola mentre viene a noi piano piano, si ha tutto il tempo di fare due cose.
Oriana Fallaci. Un cappello pieno di ciliege. 2008


Niente ferisce, avvelena, ammala, quanto la delusione.
Perché la delusione è un dolore che deriva sempre da una speranza svanita, 
una sconfitta che nasce sempre da una fiducia tradita 
cioè dal voltafaccia di qualcuno o qualcosa in cui credevamo.
E a subirla ti senti ingannato, beffato, umiliato.
La vittima d’una ingiustizia che non t’aspettavi, d’un fallimento che non meritavi.
Ti senti anche offeso, ridicolo, sicché a volte cerchi la vendetta.
Scelta che può dare un po’ di sollievo, ammettiamolo, 
ma che di rado s’accompagna alla gioia e che spesso costa più del perdono.
Oriana Fallaci. Un cappello pieno di ciliege. 2008


Apprezzare la vita cioè accorgersi che è bella anche quando è brutta, e riflettere bene sia su noi stessi che sugli altri: vagliare il presente, il passato, quel po’ di futuro che ci rimane.
Io lo so. E forse Maria Isabel Felipa non s’accorse che la vita è bella anche quando è brutta:
una tale ammissione richiede una sorta di gratitudine che lei non aveva.
La gratitudine per i nostri genitori e nonni e bisnonni e trisnonni e arcinonni, insomma per chi ci ha dato l’opportunità di vivere questa straordinaria e tremenda avventura che ha nome Esistenza.
Oriana Fallaci. Un cappello pieno di ciliege. 2008



«Dio che cosa schifosa è la guerra: lo lasci dire a me che sono un soldato.
Dev’esserci qualcosa di sbagliato nel cervello di quelli che si divertono a fare la guerra, che la trovano gloriosa o eccitante. Non è nulla di glorioso, nulla di eccitante, è solo una sporca tragedia sulla quale non puoi che piangere. Piangi su quello cui negasti una sigaretta e non è tornato con la pattuglia, piangi su quello che rimproverasti e ti si è disintegrato davanti, piangi su lui che ha ammazzato i tuoi amici».
Oriana Fallaci, Niente e così sia

Ma come facevo a non amare gli uomini, questi uomini sempre maltrattati,
sempre insultati, sempre crocifissi, ma come facevo a dire che è tutto inutile.
E a cosa serve nascere a cosa serve morire?
Serve ad essere uomini anziché alberi o pesci, serve a cercare il giusto, perché il giusto esiste, se non esiste bisogna farlo esistere, e allora l’importante non è morire, è morire dalla parte giusta, e io muoio dalla parte giusta.
Oriana Fallaci, Niente e così sia

Io sono qui per provare qualcosa in cui credo:
che la guerra è inutile e sciocca, la più bestiale prova di idiozia della razza terrestre.
Io sono qui per spiegare quanto è ipocrita il mondo che si esalta per un chirurgo che sostituisce un cuore con un altro cuore, e poi accetta che migliaia di creature giovani, col cuore a posto, vengano mandati a morire, come vacche al macello, per la bandiera.
Oriana Fallaci, Niente e così sia


«È la vita. A volte credi che due occhi ti guardino e invece non ti vedono neanche.
A volte credi d’aver trovato qualcuno che cercavi e invece non hai trovato nessuno.
Succede. E se non succede, è un miracolo. Ma i miracoli non durano mai».
Oriana Fallaci, Niente e così sia



Il linguaggio parlato è per sua natura sciatto e impreciso. Non dà tempo di riflettere, di usar le parole con eleganza e raziocinio, induce a giudizi avventati e non fa compagnia perché richiede la presenza di altri. Il linguaggio scritto, al contrario, dà tempo di riflettere e di scegliere le parole. Facilita l'esercizio della logica, costringe a giudizi ponderati, e fa compagnia perché lo si esercita in solitudine. Specialmente quando si scrive, la solitudine è una gran compagnia.
Oriana Fallaci


Non si fa il proprio dovere perché qualcuno ci dica grazie, lo si fa per principio, per se stessi, per la propria dignità
Oriana Fallaci


Il vero potere non ha bisogno di tracotanza, barba lunga, vocione che abbaia.
Il vero potere ti strozza con nastri di seta, garbo, intelligenza.
Oriana Fallaci

Vi sono momenti nella vita, in cui tacere diventa una colpa e parlare diventa un obbligo.
Un dovere morale, un imperativo categorico al quale non ci si può sottrarre.
Oriani Fallaci

"I vandalismi degli studenti borghesi che osano invocare Che Guevara e poi vivono in case con l'aria condizionata, che a scuola ci vanno col fuoristrada di papà e che al night club vanno con la camicia di seta".
Oriana Fallaci




Dire che il popolo è sempre vittima, sempre innocente, è un'ipocrisia e una menzogna e un insulto alla dignità di ogni uomo, di ogni donna, di ogni persona. Un popolo è fatto di uomini, donne, persone, ciascuna di queste persone ha il dovere di scegliere, di decidere per se stessa; e non si cessa di scegliere, di decidere, perché non si è né generali né ricchi né potenti.
Oriana Fallaci


La malinconia te la portavi addosso come un profumo e la tragedia era l’unica situazione umana che tu capissi veramente. Se una persona non era infelice, non ti interessava.
Oriana Fallaci da Lettere a Pier Paolo Pasolini


È la vita. A volte credi che due occhi ti guardino e invece non ti vedono neanche.
A volte credi d’aver trovato qualcuno che cercavi e invece non hai trovato nessuno.
Succede. E se non succede, è un miracolo. Ma i miracoli non durano mai... 
Oriana Fallaci


Non ha confini il coraggio che nasce dall’amore e per amore si realizza. 
Non tiene conto di alcun pericolo, non ascolta nessuna forma di raziocinio.
Pretende di muovere le montagne e spesso le muove.
Oriana Fallaci


Perchè solo chi ha molto pianto sa ridere bene. 
Oriana Fallaci


Sarai un uomo o una donna? Vorrei che tu fossi una donna.
Vorrei che tu provassi un giorno ciò che provo io: non sono affatto d’accordo con la mia mamma la quale pensa che nascere donna sia una disgrazia. Lo so: il nostro è un mondo fabbricato dagli uomini per gli uomini, la loro dittatura è così antica che si estende perfino al linguaggio. Eppure, essere donna è così affascinante. E’ un’avventura che richiede un tale coraggio, una sfida che non annoia mai. Avrai tante cose da intraprendere se nascerai donna. Per incominciare, avrai da batterti per sostenere che se Dio esistesse potrebbe anche essere una vecchia coi capelli bianchi o una bella ragazza. Poi avrai da batterti per spiegare che il peccato non nacque il giorno in cui Eva colse una mela: quel giorno nacque una splendida virtù chiamata disubbidienza. Infine avrai da batterti per dimostrare che dentro il tuo corpo liscio e rotondo c’è un’intelligenza che urla d’essere ascoltata.
Essere mamma non è un mestiere. Non è nemmeno un dovere.
E’ solo un diritto fra tanti diritti. Faticherai tanto ad urlarlo.
E spesso, quasi sempre, perderai. Ma non dovrai scoraggiarti.
Battersi è molto più bello che vincere, viaggiare è molto più divertente che arrivare:
quando sei arrivato o hai vinto, avverti un gran vuoto.
E per superare quel vuoto devi metterti in viaggio di nuovo, crearti nuovi scopi. Sì, spero che tu sia una donna.
Oriana Fallaci,  Essere donna.


Eppure, o proprio per questo, essere un uomo sarà un’avventura altrettanto meravigliosa:
un’impresa che non ti deluderà mai. Almeno lo spero perché, se nascerai uomo, spero che tu diventi un uomo come io l’ho sempre sognato: dolce coi deboli, feroce coi prepotenti, generoso con chi ti vuol bene, spietato con chi ti comanda…
Infine, nemico di chiunque racconti che i Gesù sono figli del Padre e dello Spirito Santo: 
non della donna che li partorì.
Bambino, io sto cercando di spiegarti che essere un uomo non significa avere una coda davanti:
significa essere una persona.
E anzitutto, a me, interessa che tu sia una persona…
Il cuore e il cervello non hanno sesso.
Se sarai una persona di cuore e di cervello…
Oriana Fallaci, Lettera a un bambino mai nato, 1975



Molte donne si chiedono: metter al mondo un figlio, perché?
Perché abbia fame, perché abbia freddo, perché venga tradito ed offeso, perché muoia ammazzato alla guerra o da una malattia?
E negano la speranza che la sua fame sia saziata, che il suo freddo sia scaldato, che la fedeltà e il rispetto gli siano amici, che viva a lungo per tentar di cancellare le malattie e la guerra.
Oriana Fallaci, Lettera a un bambino mai nato, 1975


"Essere donna è così affascinante. È un'avventura che richiede tale coraggio, una sfida che non annoia mai. Avrai tante cose da intraprendere se nascerai donna. Per incominciare, avrai da batterti per sostenere che se Dio esiste potrebbe anche essere una vecchia coi capelli bianchi o una bella ragazza.
Poi avrai da batterti per spiegare che il peccato non nacque il giorno in cui Eva colse la mela: quel giorno nacque una splendida virtù chiamata disubbidienza. Infine avrai da batterti per dimostrare che dentro il tuo corpo liscio e rotondo c'è un'intelligenza che chiede d'essere ascoltata."
Oriana Fallaci, Lettera a un bambino mai nato, 1975


Mi son sempre posta l’atroce domanda: e se nascere non ti piacesse?
E se un giorno tu me lo rimproverassi gridando
“Chi ti ha chiesto di mettermi al mondo, perché mi ci hai messo, perché?”.
La vita è una tale fatica, bambino.
È una guerra che si ripete ogni giorno,
e i suoi momenti di gioia sono parentesi brevi che si pagano un prezzo crudele.
Come faccio a sapere che non sarebbe giusto buttarti via,
come faccio a intuire che non vuoi essere restituito al silenzio? Non puoi mica parlarmi.
La tua goccia di vita è soltanto un nodo di cellule appena iniziate.
Forse non è nemmeno vita ma possibilità di vita.
Eppure darei tanto perché tu potessi aiutarmi con un cenno, un indizio.
Oriana Fallaci, Lettera a un bambino mai nato, 1975


Però, anche quando sono infelice,
penso che mi dispiacerebbe non essere nata perché nulla è peggiore del nulla.
Io, te lo ripeto, non temo il dolore.
Esso nasce con noi, cresce con noi,
ad esso ci si abitua come al fatto d’avere due braccia e due gambe.
Io, in fondo, non temo neanche di morire:
perché se uno muore vuol dire che è nato, che è uscito dal niente.
Io temo il niente, il non esserci, il dover dire di non esserci stato,
sia pure per caso, sia pure per sbaglio, sia pure per l’altrui distrazione.
Oriana Fallaci, Lettera a un bambino mai nato, 1975


Il nostro è un mondo fabbricato dagli uomini per gli uomini,
la loro dittatura è così antica che si estende perfino al linguaggio.
Si dice uomo per dire uomo e donna,
si dice bambino per dire bambino e bambina,
si dice figlio per dire figlio e figlia,
si dice omicidio per indicar l’assassinio di un uomo e di una donna.
Oriana Fallaci, Lettera a un bambino mai nato, 1975


Neanche per un uomo la vita è facile, sai?
Poiché avrai muscoli più saldi, ti chiederanno di portare fardelli più pesanti,
ti imporranno arbitrarie responsabilità.
Poiché avrai la barba, rideranno se tu piangi e perfino se hai bisogno di tenerezza.
Eppure, o proprio per questo, essere un uomo sarà un’avventura meravigliosa:
un’impresa che non ti deluderà mai.
Essere un uomo significa essere una persona.
Oriana Fallaci, Lettera a un bambino mai nato, 1975



Coraggio, bambino.
Pensi che il seme di un albero non abbia bisogno di coraggio quando buca la terra e germoglia?
Basta un colpo di vento a staccarlo, la zampina di un topo a schiacciarlo.
Eppure lui germoglia e tiene duro e cresce gettando altri semi.
E diventa un bosco.
Se un giorno griderai “Perché mi hai messo al mondo, perché?”
io ti risponderò: “Ho fatto ciò che fanno e hanno fatto gli alberi,
per milioni e milioni di anni prima di me, e credevo di fare bene”.
Oriana Fallaci, Lettera a un bambino mai nato, 1975


La mia mamma, quando è molto infelice, sospira:
«Ah, se fossi nata uomo!».
Lo so: il nostro è un mondo fabbricato dagli uomini per gli uomini,
la loro dittatura è così antica che si estende perfino al linguaggio.
Si dice uomo per dire uomo e donna, si dice bambino per dire bambino e bambina,
si dice figlio per dire figlio e figlia, si dice omicidio
per indicar l’assassinio di un uomo e di una donna.
Nelle leggende che i maschi hanno inventato per spiegare la vita,
la prima creatura non è una donna: è un uomo chiamato Adamo.
Eva arriva dopo, per divertirlo e combinare guai.
Nei dipinti che adornano le loro chiese, Dio è un vecchio con la barba:
mai una vecchia coi capelli bianchi.
E tutti i loro eroi sono maschi:
da quel Prometeo che scoprì il fuoco a quell’Icaro che tentò di volare,
su fino a quel Gesù che dichiarano figlio del Padre e dello Spirito Santo:
quasi che la donna da cui fu partorito fosse un’incubatrice o una balia.
Eppure, o proprio per questo, essere donna è così affascinante.
È un’avventura che richiede un tale coraggio, una sfida che non annoia mai.
Oriana Fallaci, Lettera a un bambino mai nato, 1975


La mia mamma, vedi, non mi voleva.
Ero incominciata per sbaglio, in un attimo di altrui distrazione.
E perché non nascessi ogni sera scioglieva nell’acqua una medicina.
Poi la beveva, piangendo.
La bevve fino alla sera in cui mi mossi, dentro il suo ventre,
e le tirai un calcio per dirle di non buttarmi via.
Lei stava portando il bicchiere alle labbra.
Subito lo allontanò e ne rovesciò il contenuto per terra.
Qualche mese dopo mi rotolavo vittoriosa nel sole, e se ciò sia stato bene o male non so.
Quando sono felice penso sia stato bene, quando sono infelice penso sia stato male.
Però, anche quando sono infelice, penso che mi dispiacerebbe non essere nata
perché nulla è peggiore del nulla.
Io, te lo ripeto, non temo il dolore.
Esso nasce con noi, cresce con noi,
ad esso ci si abitua come al fatto d’avere due braccia e due gambe.
Io, in fondo, non temo neanche di morire:
perché se uno muore vuol dire che è nato, che è uscito dal niente.
Io temo il niente, il non esserci, il dover dire di non esserci stato,
sia pure per caso, sia pure per sbaglio, sia pure per l’altrui distrazione.
Molte donne si chiedono: mettere al mondo un figlio, perché? 
Perché abbia fame, perché abbia freddo, perché venga tradito ed offeso,
perché muoia ammazzato alla guerra o da una malattia?
E negano la speranza che la sua fame sia saziata,
che il suo freddo sia scaldato,
che la fedeltà e il rispetto gli siano amici,
che viva a lungo per tentar di cancellare le malattie e la guerra.
Forse hanno ragione.
Ma il niente è da preferirsi al soffrire?
Io perfino nelle pause in cui piango sui miei fallimenti, le mie delusioni, i miei strazi,
concludo che soffrire sia da preferirsi al niente.
Oriana Fallaci, Lettera a un bambino mai nato, 1975




La crudeltà della natura contiene una logica e una saggezza…
hai scoperto che pensare significa soffrire, che essere intelligenti significa essere infelici…
solo chi si strazia nelle domande per trovare risposte va avanti…
per contraddirsi di nuovo, smentirsi di nuovo, regalarsi di nuovo al dolore…
Oriana Fallaci, Lettera a un bambino mai nato, 1975



Amore..
Onestamente non ho ancora capito di cosa tratti.
Il mio sospetto è che si tratti di un imbroglio,
gigantesco, inventato per tener buona la gente e distrarla.
Di amore parlano i preti, i cartelloni pubblicitari, i letterati, i politici,
coloro che fanno all’amore, e parlando d’amore,
presentandolo come toccasana di ogni tragedia..
Oriana Fallaci, Lettera a un bambino mai nato, 1975



Vigliacco. Ipocrita vigliacco.
Tu che le telefonavi soltanto perché lo buttasse via.
Tu che per due mesi sei rimasto nascosto come un disertore.
Tu che sei andato da lei solo perché ti ho pregato.
Fate sempre così, vero?
Vi spaventate e ci lasciate sole e al massimo tornate da noi in nome della paternità.
Tanto che vi costa la paternità?
Un ventre sfasciato da un ingrossamento ridicolo?
La pena del parto, la tortura dell’allattamento?
Il frutto della paternità vi viene scodellato dinanzi come una minestra già cotta,
posato sul letto come una camicia stirata.
Non avete che da dargli un cognome se siete sposati, neanche quello se siete fuggiti.
Ogni responsabilità è della donna, ogni sofferenza, ogni insulto.
Puttana, le dite se ha fatto l’amore con voi.
La parola puttano non esiste nel dizionario: usarla è un errore di glottologia.
Sono millenni che ci imponete i vostri vocaboli, i vostri precetti, i vostri abusi.
Sono millenni che usate il nostro corpo senza rimetterci nulla.
Sono millenni che ci imponete il silenzio e ci relegate al compito di mamme.
In qualsiasi donna cercate una mamma.
A qualsiasi donna chiedete di farvi da madre: perfino se è vostra figlia.
Dite che non abbiamo i vostri muscoli e poi sfruttate la nostra fatica
anche per farvi lucidare le scarpe.
Dite che non abbiamo il vostro cervello
e poi sfruttate la nostra intelligenza anche per farvi amministrare il salario.
Eterni bambini, fino alla vecchiaia, restate bambini da imboccare,
pulire, servire, consigliare, consolare, proteggere nelle vostre debolezze e nelle vostre pigrizie.
Io vi disprezzo.
E disprezzo me stessa per non saper fare a meno di voi,
per non gridarvi più spesso: siamo stanche d’esservi mamme.
Siamo stanche di questa parola che avete santificata per il vostro interesse, il vostro egoismo.
Oriana Fallaci, Lettera a un bambino mai nato





Lettera a un bambino mai nato è un libro scritto da Oriana Fallaci nel 1975. 
Il libro tratta temi quali l'aborto, la famiglia e l'amore.
Il libro fu scritto per l'allora direttore dell'Europeo Tommaso Giglio, che commissionò alla Fallaci un'inchiesta sull'aborto. Le diede tempo quattro mesi dandole carta bianca sui contenuti. Anziché con l'inchiesta, dopo sei mesi la giornalista tornò con un fascio di fogli contenenti il libro. Nel 1993 la stessa Fallaci ha dichiarato che il direttore non le perdonò mai questa "disobbedienza" e che per quindici giorni non le rivolse la parola.
Sempre nel 1993 è uscito l'audiolibro del romanzo, intitolato Oriana Fallaci legge "Lettera a un bambino mai nato", poi masterizzato e pubblicato su CD nel 2008. (Isabella)





Un libro, questo di Oriana Fallaci, di straordinaria potenza. Una penna, la sua guidata dall'amore infinito che nutri per Panagulis e dal quale avrebbe potuto avere un figlio se la violenza e i calci di lui non le avessero provocato l'aborto. Da qui nacque il suo libro tenerissimo e terribile, Lettera ad un bambino mai nato.





L'abitudine è la più infame delle malattie, perché ci fa accettare qualsiasi disgrazia, qualsiasi dolore, qualsiasi morte. Per abitudine si vive accanto a persone odiose, si impara a portare le catene a subire ingiustizie, a soffrire, ci si rassegna al dolore, alla solitudine, a tutto. L'abitudine è il più spietato dei veleni perché entra in noi lentamente, silenziosamente e cresce a poco a poco nutrendosi della nostra inconsapevolezza, e quando scopriamo d'averla addosso ogni gesto s'è condizionato, non esiste più medicina che possa guarirci.
Oriana Fallaci


Un uomo, un fratello se n’era andato; altri uomini altri fratelli se ne sarebbero andati, tagliati di colpo come il tronco di un albero su cui si abbatte l’accetta; io stessa me ne sarei andata, chissà dove, chissà quando il colpo di accetta avrebbe tagliato anche me, me che voglio vivere, vivere, vivere:
ma il mondo restava una lunga promessa e il cielo donava tante case accese, papà.
E se la Terra muore, e se il Sole muore, noi vivremo lassù.
Costi quel che costi.
Un albero, mille alberi, tutti gli alberi che la vita ci ha dato.
Oriana Fallaci, Se il sole muore



Non mi riusciva di dirlo papà.
Non mi riusciva di dire che per un minuto, uno stupendo minuto,
avevo fatto la pace con gli uomini: m’ero accorta che gli uomini erano davvero grandi, papà.
Sono grandi anche quando sostituiscono l’erba con l’erba di plastica, sono grandi anche quando trasformano l’urina in acqua da bere, sono grandi anche quando adoperano le ruote anziché le gambe, sono grandi anche quando dimenticano il verde e l’azzurro, sono grandi anche quando trasformano il paradiso in inferno, sono grandi anche quando ammazzano le creature cui hanno donato la vita.
Ed io ero fiera d’esser nata tra gli uomini anziché tra gli alberi o i pesci: ero fiera perché…
“…perché vedi, Jack: per un minuto, per uno stupendo minuto,
m’è sembrato di vedere gli uomini che giocavano a carte con Dio.”
Oriana Fallaci, Se il sole muore


Nessuno di noi è preparato. Né lo saremo mai. Ma questo è ugualmente il nostro destino:
cambiare. Stiamo già cambiando: fisicamente, psicologicamente, religiosamente…
Si cambia con lentezza, la stessa lentezza che muta la primavera in estate, l’estate in autunno, l’autunno in inverno. Non ci si accorge mai in quale momento la primavera diventa estate:
una mattina ci alziamo e fa caldo; l’estate è giunta mentre dormivamo.
Oriana Fallaci, Se il sole muore


Un uomo, un fratello se n’era andato; altri uomini altri fratelli se ne sarebbero andati, tagliati di colpo come il tronco di un albero su cui si abbatte l’accetta; io stessa me ne sarei andata, chissà dove, chissà quando il colpo di accetta avrebbe tagliato anche me, me che voglio vivere, vivere, vivere: ma il mondo restava una lunga promessa e il cielo donava tante case accese, papà.
E se la Terra muore, e se il Sole muore, noi vivremo lassù.
Costi quel che costi.
Un albero, mille alberi, tutti gli alberi che la vita ci ha dato.
Oriana Fallaci, Se il sole muore


E allora capii che non era indifferenza, la loro, non era freddezza.
Non era neanche pudore: era un accettare la vita.
Perché solo accettando la vita si accetta la morte e la morte bisogna accettarla,
comunque essa venga, in qualsiasi momento essa venga, la morte fa parte della vita,
la morte é il prezzo con cui si paga la vita, e piangerci sopra è da bimbi.
È da deboli.
È da irrazionali.
È da vecchi.
È da buoni, se preferisci, ma il futuro non ha bisogno di buoni
che comprano un albero perché non venga tagliato:
«Ricordi la quercia sopra la sorgente,
quella grande con le radici scoperte
dove ti arrampicavi quando eri bambina».
Il futuro ha bisogno di uomini forti, razionali, giovani, cattivi se preferisci:
perché il mondo é pieno di querce e per ogni quercia tagliata ce n’é un’altra che nasce
o è già nata o nascerà.
Un albero solo non conta.
Mettiti in testa che un albero solo non conta
e comprenderai che la morte non esiste, papa’.
Oriana Fallaci, Se il sole muore



Io mi diverto ad avere trent’anni, io me li bevo come un liquore i trent’anni:
non li appassisco in una precoce vecchiaia ciclostilata su carta carbone.
Ascoltami, Cernam, White, Bean, Armstrong, Gordon, Chaffee:
sono stupendi i trent’anni, ed anche i trentuno, i trentadue, i trentatré, i trentaquattro, i trentacinque!
Sono stupendi perché sono liberi, ribelli, fuorilegge, perchè è finita l’angoscia dell’attesa,
non è incominciata la malinconia del declino, perché siamo lucidi, finalmente, a trent’anni!
Se siamo religiosi, siamo religiosi convinti.
Se siamo atei, siamo atei convinti.
Se siamo dubbiosi, siamo dubbiosi senza vergogna.
E non temiamo le beffe dei ragazzi perché anche noi siamo giovani,
non temiamo i rimproveri degli adulti perchè anche noi siamo adulti.
Non temiamo il peccato perché abbiamo capito che il peccato è un punto di vista,
non temiamo la disubbidienza perché abbiamo scoperto che la disubbidienza è nobile.
Non temiamo la punizione perché abbiamo concluso che non c’è nulla di male ad amarci se ci incontriamo, ad abbandonarci se ci perdiamo: i conti non dobbiamo più farli con la maestra di scuola e non dobbiamo ancora farli col prete dell’olio santo.
Li facciamo con noi stessi e basta, col nostro dolore da grandi.
Siamo un campo di grano maturo, a trent’anni, non più acerbi e non ancora secchi:
la linfa scorre in noi con la pressione giusta, gonfia di vita.
È viva ogni nostra gioia, è viva ogni nostra pena, si ride e si piange come non ci riuscirà mai più,
si pensa e si capisce come non ci riuscirà mai più.
Abbiamo raggiunto la cima della montagna e tutto è chiaro là in cima:
la strada per cui siamo saliti, la strada per cui scenderemo.
Un po’ ansimanti e tuttavia freschi, non succederà più di sederci nel mezzo
a guardare indietro e in avanti, a meditare sulla nostra fortuna:
e allora com’è che in voi non è così?
Com’è che sembrate i miei padri schiacciati di paure, di tedio, di calvizie?
Ma cosa v’hanno fatto, cosa vi siete fatti?
A quale prezzo pagate la Luna?
La Luna costa cara, lo so.
Costa cara a ciascuno di noi: ma nessun prezzo vale quel campo di grano,
nessun prezzo vale quella cima di monte.
Se lo valesse, sarebbe inutile andar sulla Luna: tanto varrebbe restarcene qui.
Svegliatevi dunque, smettetela d’essere così razionali, ubbidienti, rugosi!
Smettetela di perder capelli, di intristire nella vostra uguaglianza!
Stracciatela la carta carbone.
Ridete, piangete, sbagliate.
Prendetelo a pugni quel Burocrate che guarda il cronometro.
Ve lo dico con umilità, con affetto, perché vi stimo,
perché vi vedo migliori di me e vorrei che foste molto migliori di me.
Molto: non così poco.
O è ormai troppo tardi?
O il Sistema vi ha già piegato, inghiottito?
Sì, dev’esser così.
Oriana Fallaci, Se il sole muore




Tu ritorni col cervello ed il cuore sbranati da una ferita gravissima, ma gli altri lo ignorano perché, nelle apparenze, tu sei come prima. Lasciali in questa illusione, non raccontare che sei cambiata… non raccontare la guerra che ti ha fatto cambiare».
Oriana Fallaci.




La storia dell’Uomo è anzitutto e soprattutto una storia di coraggio:
la prova che senza il coraggio non fai nulla, che se non hai coraggio nemmeno l’intelligenza ti serve.
E il coraggio ha molti volti: il volto della generosità, della vanità, della curiosità, della necessità, dell’orgoglio, dell’innocenza, dell’incoscienza, dell’odio, dell’allegria, della disperazione, della rabbia, e perfino della paura cui rimane spesso legato da un vincolo quasi filiale.
Oriana Fallaci, Insciallah


Amava trasferire i suoi pensieri sulla carta,
per la pagina elaborata aveva un culto maniacale,
e un foglio appeso alle sue spalle diceva:
“Il linguaggio parlato è per sua natura sciatto e impreciso.
Non dà tempo di riflettere, di usar le parole con eleganza e raziocinio,
induce a giudizi avventati e non fa compagnia perché richiede la presenza di altri.
Il linguaggio scritto, al contrario, dà tempo di riflettere e di scegliere le parole.
Facilita l’esercizio della logica, costringe a giudizi ponderati,
e fa compagnia perché lo si esercita in solitudine.
Specialmente quando si scrive,
la solitudine è una gran compagnia.”
Oriana Fallaci, Insciallah



Incredibile quanto la gente sia sorda al dolore non fisico.
Se hai male allo stomaco o ad un piede, tutti cercano di rendersi utili e ti portan rispetto.
Ma se hai male all’anima nessuno ti aiuta. Ti deridono, anzi: quasi che il dolore non fisico sia una cosa grottesca. Cammini, cammini e non sai a chi domandare soccorso. Non ti resta altro che rivolgerti a Dio: però ti sembra decente rivolgerti a Dio per un uomo che scappa?
Oriana Fallaci, Penelope alla guerra


Incredibile come il dolore dell’anima non venga capito.
Se ti becchi una pallottola o una scheggia si mettono subito a strillare presto-barellieri-il-plasma, se ti rompi una gamba te la ingessano, se hai la gola infiammata ti danno le medicine. Se hai il cuore pezzi e sei così disperato che non ti riesce aprir bocca, invece, non se ne accorgono neanche. Eppure il dolore dell’anima è una malattia molto più grave della gamba rotta e della gola infiammata, le sue ferite sono assai più profonde e pericolose di quelle procurate da una pallottola o da una scheggia. Sono ferite che non guariscono, quelle, ferite che ad ogni pretesto ricominciano a sanguinare.
Oriana Fallaci, Insciallah


Vi sono due tipi di malnutrizione, Bilal: quella del corpo cioè quella che viene a non mangiare, e quella dell’anima cioè quella che viene a non sapere. E siccome entrambe impediscono di crescere, oltre a mangiare bisogna sapere. Hai mai letto un libro, Bilal?
Oriana Fallaci, Insciallah


È la molla della vita, il coraggio.
Accendemmo il fuoco perché avemmo il coraggio.
Uscimmo dalle caverne e piantammo il primo seme perché avemmo coraggio.
Ci gettammo in acqua e poi in cielo perché avemmo coraggio.
Inventammo le parole e i numeri, affrontammo le fatiche del pensiero,
perché avemmo coraggio. La storia dell’Uomo è anzitutto e soprattutto una storia di coraggio:
la prova che senza il coraggio non fai nulla, che se non hai coraggio nemmeno l’intelligenza ti serve.
Però esiste un coraggio che non ha niente a che fare con quei tipo di coraggio: il coraggio cieco e sordo e illimitato, suicida, che nasce dall’amore. Non ha confini il coraggio che nasce dall’amore e per amore si realizza. Non tiene conto di alcun pericolo, non ascolta nessuna forma di raziocinio. Pretende di muovere le montagne e spesso le muove.
Oriana Fallaci, da Inshallah


La morte di un amore è come la morte di una persona amata.
Lascia lo stesso strazio, lo stesso vuoto, lo stesso rifiuto di rassegnarti a quel vuoto.
Perfino se l’hai attesa, causata, voluta per autodifesa o buonsenso o bisogno di libertà, quando arriva ti senti invalido. Mutilato. Ti sembra di essere rimasto con un occhio solo, un orecchio solo, un polmone solo, un braccio solo, una gamba sola, il cervello dimezzato, e non fai che invocare la metà perduta di te stesso: colui o colei con cui ti sentivi intero. Nel farlo non ricordi nemmeno le sue colpe, i tormenti che ti inflisse, le sofferenze che ti impose. Il rimpianto ti consegna la memoria d’una persona pregevole anzi straordinaria, d’un tesoro unico al mondo. Né serve a nulla dirsi che ciò è un offesa alla logica: un insulto all’intelligenza, un masochismo (in amore la logica non serve, l’intelligenza non giova, e il masochismo raggiunge vette da psichiatria). Poi un po’ per volta ti passa. Magari senza che tu ne sia consapevole lo strazio si smorza, si dissolve, il vuoto diminuisce, e il rifiuto di rassegnarti ad esso scompare. Ti rendi finalmente conto che l’oggetto del tuo amore morto non era né una persona pregevole anzi straordinaria, né un tesoro unico al mondo, lo sostituisci con un’altra metà o supposta metà di te stesso, e per un certo periodo recuperi la tua interezza. Però sull’anima rimane uno sfregio che la imbruttisce, un livido nero che la deturpa, e ti accorgi di non essere più quello o quella che eri prima del lutto. La tua energia s’è infiacchita, la tua curiosità s’è affievolita, e la tua fiducia nel futuro s’è spenta perchè hai scoperto d’aver sprecato un pezzo di esistenza che nessuno ti rimborserà. Ecco perché, anche se un amore langue senza rimedio, lo curi e ti sforzi di guarirlo. Ecco perché, anche se in stato di coma boccheggia, cerchi di rinviare l’istante in cui esalerà l’ultimo respiro: lo trattieni e in silenzio lo supplichi di vivere un giorno, un’ora, un minuto. Ecco infine perché, anche quando smette di respirare, esiti a seppellirlo o addirittura tenti di resuscitarlo.”
Oriana Fallaci, Insciallah


Sai l’odore che i drogati chiamano profumo e che invece è puzzo.
Un antipaticissimo puzzo di merda bruciata e di rosmarino, di muschio marcio e di resina,
soave e insieme pungente, morbido e insieme piccante, stomachevole, fetido quanto l’ingordigia dei vampiri che per restare ricchi producono e commerciano droga.
Un penosissimo puzzo che è il puzzo della debolezza, della fiacchezza, della viltà.
Infatti piace a chi non ha il coraggio di affrontare la vita, a chi non ha i coglioni per tenere in vita la vita, a chi non ha la fantasia che ci vuole per apprezzarla nonostante le sue durezze e le sue porcherie e i suoi orrori, a chi non ha l’intelligenza di amarla.
Oriana Fallaci, Insciallah




Nel corso della sua lunga vita Oriana Fallaci si trovò più volte a incontrare i potenti della terra. Davanti a ognuno di questi personaggi, non provò mai timore reverenziale o timidezza. Al contrario, seppe affrontarli senza indietreggiare di un passo, con sguardo lucido e con il piglio critico che continuano a farne anche oggi, a due anni dalla sua scomparsa, una delle maggiori interpreti del nostro tempo. "Intervista con la storia" raccoglie i ritratti-interviste-interrogatori con Henry Kissinger, Willy Brandt, il Negus d'Etiopia, lo Scià di Persia, Indirà Gandhi, Ali Bhutto, Giulio Andreotti, Golda Meir, Yasser Arafat, Alekos Panagulis...


Aveva vinto prima di quanto temessi. All’inizio del 1979, abbandonato dagli americani e ridotto a una larva ammalata, Reza Pahlavi era fuggito con la famiglia in Egitto. Allora l’esercito che avrebbe dovuto difendere cinquemila chilometri di confine con l’URSS e le vie da cui passa il petrolio s’era disintegrato e, accolto come resuscitato Maometto, il diabolico vecchio aveva fatto ritorno a Teheran per proclamare la Repubblica Islamica. Qui, mentre i suoi mijahiddien fucilavano generali, ministri, funzionari, poliziotti, disgraziati spesso innocenti e gettati dinanzi al plotone di esecuzione senza processo, aveva presto chiarito cosa volesse: il più allucinante balzo all’indietro che si fosse verificato sul nostro pianeta. In pochi giorni, messi al bando i laici che per anni avevano lottato contro la monarchia, eliminati i partiti e i gruppi che credevano nella democrazia, cancellata ogni libertà di stampa, di opinione, di sentimento, esploso il genocidio dei curdi che ogni giorno venivano trucidati nelle provincie, l’Iran s’era trasformata in una immensa mostruosa moschea dove mullah rozzi e ignoranti vegliavano sulla cieca osservanza di leggi scritte millequattrocento anni prima e sui regolamenti dettati dal libro azzurro di Khomeini. Rigorosa separazione tra uomini e donne sia in casa che negli uffici, nei cortei e sulla spiaggia. Obbligo per le donne di coprirsi dalla testa ai piedi col funereo lenzuolo che ha il nome di chador: anche in acqua, cioè per nuotare, e guai se dicevi che con sette metri di stoffa addosso non si può nuotare, si affoga. Esame ginecologico delle impiegate nubili onde accertare la loro verginità. Veto assoluto di bere bevande alcoliche, di ascoltare la musica, ballare, scambiarsi un bacio senza essere sposati, avere un qualsiasi rapporto fuori dal matrimonio. Plotoni di esecuzione per chi disubbidiva. Fucilati i generali, i ministri, i funzionari, i poliziotti dello scià, la gente più o meno compromessa con il passato regime, ora si sparava sulle adultere o le supposte adultere, sugli omosessuali o i supposti omosessuali, sui fidanzati sorpresi a scambiarsi qualche tenerezza, sulle ragazze che andavano a capo scoperto o parzialmente scoperto, sui distratti che bevevano una birra o un bicchiere di vino. I processi duravano quattro o cinque minuti, senza avvocati e senza facoltà di difesa, i condannati venivano giustiziati subito dopo la lettura della sentenza, e la fucilazione si alternava alla lapidazione: pena di seppellire il reo la rea fino al collo, poi nell’ucciderli a sassate in testa. Soltanto i più fortunati se la cavavano con la pubblica fustigazione dinanzi al bazaar: dalle cinquanta alle trecento frustrate che riducevano la schiena in polpetta. E nessuno che si opponesse. Nessuno che si ribellasse ad alta voce, che dicesse basta, non ci siamo battuti contro lo scià per questo, non ci siamo fatti massacrare dalle sue mitragliatrici per questo.
Quanto all’occidente, osservava imbarazzato per questo e chi aveva salutato con entusiasmo l’avvento dell’aytollah confessava quasi a denti stretti il proprio errore o pentimento. La cosiddetta sinistra, quella sinistra per cui una rivoluzione va sempre assolta e chi non è d’accordo su questo è fascista, tentava addirittura di giustificare lo scempio.
Oriana Fallaci, Intervista col potere


“Io non vado a rizzare tende alla Mecca. Io non vado a cantar Paternostri e Avemarie dinanzi alla tomba di Maometto. Io non vado a fare pipì sui marmi delle loro moschee, non vado a fare la cacca ai piedi dei loro minareti. Quando mi trovo nei loro paesi (cosa dalla quale non traggo mai diletto) non dimentico mai d’ essere un’ ospite e una straniera. Sto attenta a non offenderli con abiti o gesti o comportamenti che per noi sono normali e per loro inammissibili. Li tratto con doveroso rispetto, doverosa cortesia, mi scuso se per sbadatezza o ignoranza infrango qualche loro regola o superstizione. (…) noi italiani non siamo nelle condizioni degli americani: mosaico di gruppi etnici e religiosi, guazzabuglio di mille culture, nel medesimo tempo aperti ad ogni invasione e capaci di respingerla. Sto dicendoti che, proprio perché è definita da molti secoli e molto precisa, la nostra identità culturale non può sopportare un’ ondata migratoria composta da persone che in un modo o nell’ altro vogliono cambiare il nostro sistema di vita. I nostri valori. Sto dicendoti che da noi non c’ è posto per i muezzin, per i minareti, per i falsi astemi, per il loro fottuto Medioevo, per il loro fottuto chador. E se ci fosse, non glielo darei. Perché equivarrebbe a buttar via Dante Alighieri, Leonardo da Vinci, Michelangelo, Raffaello, il Rinascimento, il Risorgimento, la libertà che ci siamo bene o male conquistati, la nostra Patria. Significherebbe regalargli l’ Italia. E io l’ Italia non gliela regalo.”
Oriana Fallaci, “La rabbia e l’orgoglio”


A me dà fastidio perfino parlare di due culture: metterle sullo stesso piano come se fossero due realtà parallele, di uguale peso e di uguale misura. Perché dietro la nostra civiltà c'è Omero, c'è Socrate, c'è Platone, c'è Aristotele, c'è Fidia. C'è l'antica Grecia col suo Partenone e la sua scoperta della Democrazia. C'è l'antica Roma con la sua grandezza, le sue leggi, il suo concetto della legge. Le sue sculture, la sua letteratura, la sua architettura. I suoi palazzi e i suoi anfiteatri, i suoi acquedotti, i suoi ponti, le sue strade. C'è un rivoluzionario, quel Cristo morto in croce, che ci ha insegnato il concetto dell'amore e della giustizia. C'è anche una Chiesa che mi ha dato l'Inquisizione, d'accordo. Che mi ha torturato e bruciato mille volte sul rogo, d'accordo. Che mi ha oppresso per secoli, che per secoli mi ha costretto a scolpire e dipingere solo Cristi e Madonne, che mi ha quasi ammazzato Galileo Galilei. Me lo ha umiliato, me lo ha zittito. Però ha dato anche un gran contributo alla Storia del Pensiero: sì o no? E poi dietro la nostra civiltà c'è il Rinascimento. C'è Leonardo da Vinci, c'è Michelangelo, c'è Raffaello, c'è la musica di Bach e di Mozart e di Beethoven. Su su fino a Rossini e Donizetti e Verdi and Company. Quella musica senza la quale noi non sappiamo vivere e che nella loro cultura o supposta cultura è proibita . Ed ora ecco la fatale domanda: dietro all'altra cultura che c'è? Boh! Cerca cerca, io non ci trovo che Maometto col suo Corano e Averroè coi suoi meriti di studioso
Oriana Fallaci

Una religione che si identifica con la politica, col governare. Che non concede una scheggia d'unghia al libero pensiero, alla libera scelta. Che vuole sostituire la democrazia con la madre di tutti i totalitarismo: la teocrazia. Come ho scritto nel saggio "Il nemico che trattiamo da amico", è il Corano non mia zia Carolina che ci chiama «cani infedeli» cioè esseri inferiori poi dice che i cani infedeli puzzano come le scimmie e i cammelli e i maiali. È il Corano non mia zia Carolina che umilia le donne e predica la Guerra Santa, la Jihad. Leggetelo bene, quel "Mein Kampf", E qualunque sia la versione ne ricaverete le stesse conclusioni: tutto il male che i figli di Allah compiono contro di noi e contro sé stessi viene da quel libro. È scritto in quel libro. E se dire questo significa vilipendere l'Islam, Signor Giudice del mio Prossimo Processo, si accomodi pure. Mi condanni pure ad anni di prigione. In prigione continuerò a dire ciò che dico ora.
Oriana Fallaci



Dall'intervista a Khomeini:
Oriana Fallaci: "Imam: devo chiederle ancora molte cose. Di questo "chador" a esempio, che mi hanno messo addosso per venire da lei e che lei impone alle donne, mi dica: perché le costringe a nascondersi come fagotti sotto un indumento scomodo e assurdo con cui non si può lavorare né muoversi?[...] E comunque non mi riferisco soltanto a un indumento ma a ciò che esso rappresenta: cioè la segregazione in cui le donne sono state rigettate dopo la Rivoluzione. Il fatto stesso che non possano studiare all'università con gli uomini, ad esempio, né lavorare con gli uomini, né fare il bagno in mare o in piscina con gli uomini. Devono tuffarsi a parte con il "chador". A proposito, come si fa a nuotare con il "chador"?.
Ayatollah Khomeini: Tutto questo non la riguarda. I nostri costumi non vi riguardano. Se la veste islamica non le piace, non è obbligata a portarla. Perché la veste islamica è per le donne giovani e perbene.
Oriana Fallaci: Molto gentile. E, visto che mi dice così, mi tolgo subito questo stupido cencio da medioevo.


Ho sempre avuto l’ossessione della dignità e pensato che la cosa più importante fosse vivere con dignità, ora so che c’è una cosa ancora più difficile, ancora più importante che aver vissuto con dignità: è morire con dignità.
E questa è, questa sarà, la vera prova del fuoco.
Oriana Fallaci intervista sé stessa


Se mi chiedete qual è per me il simbolo della bellezza femminile,
io non penso alla Venere di Milo o a Sofia Loren.
Penso a una bella donna incinta.
C’è qualcosa di potente, di trionfante,
di ineguagliabilmente bello in una donna che porta in sé un’altra vita.
Una donna deformata da un pancione che chiude un altro essere umano.
Una delle statue che mi commuovono di più è quella preistorica di una donna incinta.
Una volta la mostrai a un amico: «Guarda che splendore», e lui rispose: «Vuoi dire che orrore».
Finì in una rissa.
Sulla maternità mi arrabbio sempre, con poche parole l’ho fatto anche nel piccolo libro quando penso che gli Italiani sono il popolo con la più bassa natalità dell’Occidente.
Mi sembra un tradimento, una vigliaccheria verso il proprio Paese, la propria cultura, la propria società, anzi: verso la vita! Avere il privilegio di mettere al mondo un altro essere umano!
Lo so che bisogna essere in due per metterlo al mondo: ma il privilegio di tenerlo nel proprio ventre, di nutrirlo col proprio sangue, di custodire la responsabilità della sua venuta al mondo è tutto femminile.
È l’unico modo per restare immortali, capisci, mettere al mondo un altro essere umano.
Quando hai messo al mondo un altro essere non muori quando muori,
perché attraverso quell’essere che è fatto della tua carne e del tuo sangue tu continui a vivere.
Mi pesa, sì, mi pesa non lasciare almeno un figlio, quando morirò.
Ed è per questo che ai miei libri mi riferisco sempre con la parola bambini.
Il mio bambino, i miei bambini.
Ma i miei bambini sono bambini di carta.
Non di sangue.
E i bambini di carta non partoriscono altri bambini di carta.
Sono una ben povera illusione di maternità.
Oriana Fallaci, Intervista a me stessa



… Però mi piace la vecchiaia, mi diverte.
Sono sciocchi quelli che la rifiutano e che per rifiutarla si fanno il lifting,
si vestono da ventenni, barano sull’età.
Sciocchi ed ingrati.
Lo dissi anche ai due amici che dopo l’uscita de La Rabbia e l’Orgoglio
vennero a New York per intervistarmi.
L’intervista non gliela detti, no.
Però li invitai a cena, e a un certo punto gli dissi che la vecchiaia è una bellissima età.
L’età d’oro della Vita.
Non tanto perché l’alternativa è morire senza conoscere il lusso di quel privilegio,
quanto perché è la stagione della libertà.
Da giovane credevo d’essere libera, aggiunsi.
Ma non lo ero.
Mi preoccupavo del futuro, mi lasciavo influenzare da un mucchio di cose o persone,
e in pratica non facevo che ubbidire.
Ai genitori, ai professori, ai direttori dei giornali dove lavoravo già a diciott’anni…
Da adulta credevo d’essere libera.
Ma non lo ero.
Mi preoccupavo ancora del futuro, mi lasciavo condizionare dai giudizi malevoli,
temevo le conseguenze delle mie scelte…
Oggi non le temo più.
I giudizi malevoli non mi condizionano più, il futuro non mi preoccupa più.
Perché dovrebbe? È arrivato ormai.
E sgombra di inutili desideri, di superflue ambizioni, di errate chimere,
mi sento libera come non lo sono mai stata.
Libera d’una libertà completa, assoluta.
Inoltre la vecchiaia è bellissima,
perché da vecchi si capisce ciò che da giovani e perfino da adulti non s’era capito.
Perché con le esperienze, le informazioni, i ragionamenti che abbiamo accumulato,
tutto s’è fatto chiaro.
O molto più chiaro.
Alcuni chiamano questa saggezza, e se sono saggia io non lo so.
Spesso lo escludo.
Però so che grazie a quelle esperienze, quelle informazioni, quei ragionamenti,
il mio cervello è migliorato come un buon vino rosso.
Ha intensificato il suo sapore, ha assorbito le energie che il resto del corpo ha perduto.
Non che sia scandalosamente vecchia, intendiamoci.
Sulla faccenda ci gioco un po’.
È la mia civetteria.
Ma l’Alieno mi consuma, a volte non mi reggo in piedi.
E, come ho detto all’inizio della nostra chiacchierata, quando non mi reggo in piedi penso meglio.
Studio meglio, lavoro meglio.
È come se la forza delle mie gambe, delle mie braccia, dei miei polmoni
si fosse trasferita nella mia testa.
Mi sento più intelligente, insomma.
E questo mi riempie di tale felicità che non mi dico mai
«Vorrei-tornare-indietro, ricominciare-daccapo».
Tutt’al più, sapendo che non durerò molto, esclamo
«Proprio ora! Dio, che spreco. La morte è uno spreco».
Oriana Fallaci intervista sé stessa – L'Apocalisse



Avevo 14-15 anni quando in via Ponte alle Mosse, a Firenze,
vidi mia madre picchiare una mascalzona, che maltrattava i prigionieri tedeschi.
Prigionieri incatenati e ammassati su un camion aperto. Il camion s’era fermato accanto al marciapiede e la mascalzona, peraltro moglie d’un ex-federale fascista (cosa che la dice lunga sugli italiani voltagabbana) s’era messa a colpirli con schiaffi e con pugni.
Bè non so immaginare una donna che a quel tempo odiasse i tedeschi più di mia madre. [...] Non so immaginare nemmeno una signora più garbata, quindi meno manesca, di mia madre.
Eppure appena s’accorse che nessuno reagiva allo scempio si gettò su quella donna come un gatto infuriato.
La agguantò per il collo e prese a picchiarla selvaggiamente. In faccia, sulla testa, sullo stomaco.
E picchiandola ruggiva:
- Miserabile, iena vigliacca! Non si tocca un uomo in catene! 
Un uomo in catene è sacro anche se è un sudicione come te!-.
Non l’ho mai dimenticato.
Oriana Fallaci intervista sé stessa – L'Apocalisse





UN UOMO è un libro scritto da Oriana Fallaci e pubblicato nel 1979.
In questo libro, la scrittrice narra la storia di Alekos Panagulis, che amò e che fu suo compagno nella vita.

"... La solita tragedia dell'individuo che non si adegua, che non si rassegna, che pensa con la propria testa, e per questo muore ucciso da tutti. Eccola, e tu mio unico interlocutore possibile, laggiù sottoterra, mentre l'orologio senza lancette segna il cammino della memoria."
(dal prologo di "Un uomo" )

La storia prende avvio dal tentativo da parte del giovane studente di ingegneria, Alekos Panagulis, di uccidere il tiranno della Grecia Georgios Papadopoulos.
Nonostante le numerose precauzioni il tentativo di attentato fallisce ed Alekos viene catturato, torturato e poi condannato a morte.
Nei mesi a seguire la sentenza viene rinviata più volte e infine mai eseguita perché nel mentre, in Grecia e all'estero, il caso ha assunto una certa rilevanza mediatica e l'uccisione di Alekos comporterebbe un grave danno d'immagine al regime.
In questa situazione Panagulis continua segretamente ad essere torturato ma non mostra mai intenzione di piegarsi alle volontà dei suoi carcerieri e di divenire collaboratore della dittatura. Durante la prigionia tenta più volte di evadere dal carcere di Boiati, dove è stato rinchiuso, ma tutti i tentativi vanno a vuoto. Negli ultimi due anni di carcerazione, come ulteriore tortura, è imprigionato in una cella grande pochi metri quadrati costruita appositamente per lui e denominata "La Tomba" proprio perché di forma e dimensioni simile ad un piccolo sepolcro. Esposto alle intemperie, isolato, costretto in uno spazio limitato e sottoposto periodicamente a torture, dopo anni di prigionia e maltrattamenti tornerà libero a seguito della grazia ricevuta dalla finta democrazia che si instaura alla caduta del regime di Papadopoulos. Qualche giorno dopo incontrerà la Fallaci che si è recata a fargli visita per intervistarlo. Da quell'incontro, prenderà avvio la loro storia d'amore che durerà fino alla sua morte.

Uscito di prigione, Panagulis, per la sua figura, viene conteso dalla destra e dalla sinistra ma si rende conto che l'attuale democrazia è una finta e capisce che il parlamento è soggiogato (seppur indirettamente) dal potere della dittatura militare ora rappresentata da un nuovo colonnello.
Durante questo primo periodo immagina progetti sovversivi contro il nuovo tiranno ma si scontrerà con l'omertà e l'ignavia del popolo e degli attivisti che lentamente cominceranno a dimenticarlo e che, nell'illusione della democrazia, cominceranno a preferirgli gli schemi dei partiti politici.
Nei mesi a seguire i due, sorvegliati dai servizi segreti, riescono con una rocambolesca beffa a scappare in Italia. Lì, cercano aiuto nei politici italiani ed europei nel vano tentativo di rovesciare il dittatore greco. In Italia matura definitivamente l'amore tra Panagulis e la Fallaci, tant'è che lei rimane incinta ma perde il bambino in un litigio proprio con lui. La storia d'amore attraversa fasi alterne di idilliaca gioia e di allontanamento fra i due.
Qualche tempo dopo Panagulis si rende conto che dall'estero non ha potere di cambiare la situazione in Grecia e quindi nonostante tutto decide di ritornare in patria. Rientrato, Panagulis tenta di fondare un proprio partito politico ma la sua iniziativa fallisce e si piega ad entrare a far parte di un partito politico esistente. Poiché non vuole schierarsi con la destra che è al governo e che è direttamente controllata dalla dittatura e non vuole schierarsi con la sinistra che vuole indottrinare le sue idee fino ad allinearle a quelle del partito, decide di unirsi alla fazione più debole: l'Unione del Centro - Nuove forze. Con questo partito, riuscirà a farsi eleggere deputato. Anche qui però non riesce a restare dentro le rigide logiche dello schema e diviene in pratica una sua scheggia impazzita ed indipendente. Tormentato dall'idea dello storico susseguirsi del potere che cambia forma ma mai natura e che in un modo o nell'altro attrae e soggioga la natura dell'essere umano, Panagulis occuperà gli anni a venire tentando di raccogliere documenti e testimonianze per mostrare la natura corrotta dell'apparente democrazia greca. Sarà in questo periodo che riuscirà ad impossessarsi di numerosi documenti dei servizi segreti greci e sarà in questo periodo che si metterà in aperta ostilità con colui che ora regge le fila della nuova dittatura, il ministro della difesa Evangelos Averoff. Sarà quando Panagulis comincerà a rilasciare i documenti segreti che verrà ucciso in un inseguimento automobilistico che culminerà in un incidente stradale causato da due sicari alla guida di due differenti auto.
Nei mesi immediatamente successivi alla morte di Panagulis il governo greco non supporterà l'evidenza dell'omicidio e dichiarerà che si è trattato solo di un tragico incidente. Rilasciando tali dichiarazioni il governo greco ignorerà completamente le perizie italiane effettuate sull'automobile di Panagulis (che mostra i chiari segni degli speronamenti e dei tamponamenti), ignorerà i racconti dei testimoni ed archivierà inequivocabili prove. Successivamente, per screditare l'opera di pubblicazione dei documenti segreti di Panagulis, il governo pubblicherà una versione revisionata degli stessi omettendo quelli più compromettenti e pubblicando esclusivamente i più innocui eventualmente riservandosi il diritto di modificare nomi e date.
Il libro si conclude con il funerale di Panagulis accompagnato dalle grida dell'enorme massa di persone che urlano: "Zi! Zi! Zi!" (Vive! Vive! Vive!), segno che l'evidenza dell'omicidio ha temporaneamente aperto gli occhi al popolo che ora percependo la verità potrà far vacillare l'attuale potere prima che la ciclicità della storia si ripeta e se ne costituisca una nuovo.
Negli ultimi mesi della sua vita, Panagulis insistette con la scrittrice affinché lei scrivesse un libro sulla sua vita, una volta morto. L'autrice adempie pienamente a questo compito, traducendo in una storia romanzata la fiaba dell'eroe che si batte per la libertà, per la verità, contro tutte le dittature e contro il Potere, di qualunque colore esso sia.
Riutilizzando parte delle parole usate dall'autrice possiamo affermare che il libro racconta le vicende di un uomo che si batte per degli ideali di libertà e verità e che inesorabilmente cade vittima del conformismo (il potere) e del conformismo dell'anticonformismo (l'antipotere) che in quanto tali non riconoscono l'essere umano inteso come individuo ma lo riconoscono solo come appartenente alle masse da schematizzare e indottrinare e che pertanto sono ben lontani dai concetti di libertà e verità cui spesso si fanno promulgatori.


Un uomo che non parla a nessuno e a cui nessuno parla
è come un pozzo che nessuna sorgente alimenta:
a poco a poco l’acqua che vi stagna imputridisce ed evapora.
Oriana Fallaci, Un uomo


Come un legno che va alla deriva, incapace d’opporsi alla corrente del fiume, ignaro se l’acqua lo scaglierà sulla sponda o lo trascinerà fino al mare, così me ne andavo nella tua esistenza durante quell’autunno. La mia battaglia contro l’amore, il cancro, era ormai perduta.
Oriana Fallaci, Un uomo


Un partito non ha bisogno di individui con personalità, creatività, fanasia, dignità:
ha bisogno di burocrati, di funzionari, di servi.
Oriana Fallaci, Un uomo

L’America è un elefante che può permettersi qualsiasi lusso, anche il lusso della tolleranza. 
E se la critichi non sente neanche il solletico, 
se lo sente ne ride come di un pizzicorino sotto l’ascella.
Oriana Fallaci, Un uomo


E tu, cosa volevi che fosse? (il libro “Un uomo”)
Un libro sulla solitudine dell’individuo che rifiuta d’essere catalogato, 
schematizzato incasellato dalle mode dalle ideologie, dalle società, dal Potere.
Un libro sulla tragedia del poeta che non vuol essere e non è uomo massa,
strumento di coloro che comandano, di coloro che promettono, di coloro che spaventano;
siano essi a destra o a sinistra o al centro
o all’estrema destra o all’estrema sinistra o all’estremo centro.
Un libro sull’eroe che si batte da solo per la libertà e per la verità,
senza arrendersi mai, e per questo muore ucciso da tutti:
dai padroni e dai servi, dai violenti e dagli indifferenti.
Oriana Fallaci, Un uomo


Ogni tuo gesto è un ingenuo trasporto d’amore,
una goffa preghiera di essere amato, e la spavalderia di prima s’è dileguata.
Ti cade la forchetta, ti cade il cucchiaio, e d’un tratto arrossisci come un bambino,
mi porgi il regalo tenuto da parte per il mio ritorno:
un foglio spiegazzato, coperto da una calligrafia minutissima.
“Alekos! Cos’è?”
“La poesia che preferisco, Viaggio. Te l’ho dedicata, guarda: c’è il tuo nome ora per titolo.”
Poi me la traduci con quella voce che sventra l’anima. (…)
Qui ti interrompi, mi spieghi che il viaggio è la vita,
che la nave sei tu, una nave che non ha mai gettato l’ancora,
che non la getterà mai, né l’ancora degli affetti, né l’ancora dei desideri,
né l’ancora di un meritato riposo.
Perchè non ti rassegnerai mai, non ti stancherai mai di inseguire il sogno.
E se ti chiedessi che sogno non sapresti rispondermi:
oggi è un sogno cui dai nome libertà,
domani potrebb’essere un sogno cui dare nome verità;
non conta che siano o non siano obiettivi reali,
conta rincorrerne il miraggio, la luce.
Oriana Fallaci, Un uomo


ALEXANDROS PANAGULIS – VIAGGIO.
Alla mia amata Oriana Fallaci
Autore: Alexandros Alekos Panagulis -
Viaggio per inesplorate acque su una nave
che, come milioni di altre simili, peregrina
per oceani e mari
su rotte regolari
E altre ancora
(molte, davvero molte anche queste)
gettano l’ancora nei porti.
Per anni ho caricato questa nave
Con tutto quello che mi davano
e che prendevo con enorme gioia
E poi
(lo ricordo come fosse oggi)
la dipingevo a tinte sgargianti
e stavo attento
che non si macchiasse in nessun punto
La volevo bella per il mio viaggio
E dopo avere atteso tanto –proprio tanto
Giunse alla fine il momento di salpare
E salpai…
(Nave io e capitano
ed equipaggio per trovarti
fammi a pezzi
ma non farmi sanguinare il corpo)
Quando mi trovai in mare aperto
onde immense mi travolsero
e mi straziarono per rivelarmi
amare verità che ignoravo
Verità che dovevo imparare
Nell’abbraccio dell’oceano
con un lungo furente fragore
la solitudine
divenne per me faro del pensiero
indicando strade nuove
Il tempo passava e io
iniziavo a tracciare la rotta
ma non come mi avevano insegnato al porto
(anche se la mia nave mi sembrava diversa allora)
Così il mio viaggio
ora lo vedevo diverso
senza più pensare a porti e commerci
Il carico mi appariva ormai superfluo
Ma continuavo a viaggiare
conoscendo il valore della nave
conoscendo il valore della merce
E continuo ancora il viaggio
che scricchiolino incessantemente le giunzioni
sperando che non si spezzino
perché sono legni marci da anni
(secoli dovrei dire)
verniciati di recente ma senza
una forza nuova che li tenga uniti
la rotta sempre contro il tempo
nella stiva solo zavorra
Zavorra che mi dissero
merce preziosa, come quella
che di solito si compra nei porti
Ma se dicessi che mi hanno ingannato
non sarei onesto
osservo la bussola
senza sosta
con accanto la mappa
su cui studio la rotta
lontano dai porti che segnalano il passaggio
Quando poi succede che splendano
(che istanti difficili!)
all’orizzonte i porti della terra
l’equipaggio guarda le luci
(luci sirene
che promettono molto
che anche il cuore e la carne pretendono)
sempre aspettando che dica
al timoniere di far virare la nave
E attraccare almeno un poco
Mentre l’ora trascorre e io
osservo silenzioso la carta
tutt’intorno cresce il tumulto
Proposte subdole
vestite con idee
idee vendute che vogliono sempre
Adornare l’inazione con le parole
e minacce
che vogliono passare per consigli
e promesse
che tentano la bestia e la risvegliano…
Quelle sono ore difficili
Perché da ognuna di loro
Dipende l’intero viaggio
E continuo ancora il viaggio
Desideri radicati nell’anima
sono diventati bussola per la mia nave
la mia mappa
altrettanto misteriosa
Ci sono ore in cui credo
che sia stata fatta
per chi non voglia approdare in nessun porto
e altre ore in cui confido
che il viaggio avvenga perché
su questa carta bisogna trovare
qualche cosa che manca
Così vado alla ricerca
guardando la mappa la bussola il cielo
in cielo, rintracciare segnali
nuove prove che dimostrino
che la bussola non sbaglia nel segnare
Non stupirti, questo non significa
che io abbia dei dubbi sulla mia bussola
È solo un’abitudine- una vecchia abitudine
che per secoli accompagnava l’anima
questa compagna
preziosa per i tempi bui
quando c’erano soltanto i semi nell’anima
degli amori che ora sono fioriti
E vado alla ricerca
Guardando la mappa la bussola il cielo
Le onde immense sembra che cerchino
di fare il gioco di chi vuole
che attracchi da qualche parte per un po’
È ognuna
di quelle onde un Golgota
e pensa
che la tempesta imperversa ininterrotta
Ma mentre aumenta
temo sempre più
che la spaventosa furia del mare
mi conduca ad avvistare
porti là sulla costa
porti che la mia mappa non indica
Sono ostacoli e momenti difficili
l’abbiamo detto
l’equipaggio comincerà a ribollire
quando quei porti appariranno sulla costa
E continuo il viaggio
alla ricerca ancora
pur sapendo di essere
nell’infinito del tempo un istante
nell’abisso dello spazio un puntino
E continuo il viaggio
anche se sono tenebra
e tutto attorno a me è tenebra
e la tempesta lo rende più spaventoso
E continuo il viaggio
e mi basta
che io tenebra
abbia amato la luce.
(Dicembre 1971)
https://www.spreaker.com/episode/3832959?utm_medium=widget&utm_term=episode_title&utm_source=user%3A5642501



L’amara scoperta che Dio non esiste ha ucciso la parola destino.
Ma negare il destino è arroganza, affermare che noi siamo gli unici artefici della nostra esistenza è follia: se neghi il destino la vita diventa una serie di occasioni perdute, un rimpianto di ciò che non è stato e avrebbe potuto essere, un rimorso di ciò che non è fatto e avremmo potuto fare, e si spreca il presente rendendolo un’altra occasione perduta… non ti risposi mai che ero dove il destino esigeva che fossi perché il destino aveva stabilito che ci incontrassimo quel giorno e a quell’ora, non prima..
Oriana Fallaci, Un uomo



Una volta aveva scritto dei figli: «Gli alberi muoiono in piedi».
Gli alberi erano i suoi figli. Un albero era morto quasi sei anni prima: Giorgio.
Parole di Atena, madre di  Alekos Panagulis
Oriana Fallaci, Un uomo



I zoi ine micrì. Polì, polì, polì, polì micrì
'La vita è breve. Molto, molto, molto, molto breve', 
frase che Panagulis dice a Oriana.
Oriana Fallaci, Un uomo


"s'agapò tora ke tha s'agapò pantote".
"Cosa significa?"
"Significa: ti amo ora e ti amerò sempre. Ripetilo."
Lo ripeto sottovoce.
"e se non fosse così?"
"Sarà così."
Tento un'ultima vana difesa: "Niente dura per sempre, Alekos. Quando tu sarai vecchio e..."
"Io non sarò mai vecchio." "Sì che lo sarai. Un celebre vecchio coi baffi bianchi."
"Io non avrò mai i baffi bianchi. Nemmeno grigi."
"Li tingerai?"
"No, morirò molto prima. E allora sì che dovrai amarmi per sempre."
Oriana Fallaci, Un uomo


L’abitudine è la più infame delle malattie, perché ci fa accettare qualsiasi disgrazia, qualsiasi dolore, qualsiasi morte. Per abitudine si vive accanto a persone odiose, si impara a portare le catene a subire ingiustizie, a soffrire, ci si rassegna al dolore, alla solitudine, a tutto.
L’abitudine è il più spietato dei veleni perché entra in noi lentamente, silenziosamente e cresce a poco a poco nutrendosi della nostra inconsapevolezza, e quando scopriamo d’averla addosso ogni gesto s’è condizionato, non esiste più medicina che possa guarirci.
Oriana Fallaci, Un uomo



Come un legno che va alla deriva, incapace d’opporsi alla corrente del fiume, 
ignaro se l’acqua lo scaglierà sulla sponda o lo trascinerà fino al mare, 
così me ne andavo nella tua esistenza durante quell’autunno.
La mia battaglia contro l’amore, il cancro, era ormai perduta.
La mia fuga, un colpo di cannone sparato a salve.
E invano, oppressa dalla sensazione d’aver commesso un errore senza rimedio, 
mi chiedevo dove avessi sbagliato.
Capirlo, del resto, mi sarebbe servito a ben poco
Oriana Fallaci, Un uomo



Se un uomo è un uomo, non una pecora del gregge, v'è in lui un istinto di sopravvivenza che lo induce a battersi....anche se capisce di battersi a vuoto, anche se sa di perdere: don Chisciotte che si lancia contro i mulini a vento senza curarsi d'essere solo e anzi fiero d'essere solo.
Oriana Fallaci, Un uomo


Agli uomini non interessa né la verità, né la libertà, né la giustizia.
Sono cose scomode e gli uomini si trovano comodi nella bugia e nella schiavitù e nell’ingiustizia.
Ci si rotolano dentro come maiali.
Io me ne accorsi quando entrai in politica.
Bisogna entrare in politica per capire che gli uomini non valgono nulla,
che a loro vanno bene i ciarlatani e gli impostori e i draghi.
Uno entra in politica pieno di speranze, meravigliose intenzioni, dicendo a sè stesso che la politica è un dovere, è un modo per rendere gli uomini migliori, e poi s’accorge che è tutto il contrario, che nulla al mondo corrompe quanto la politica, nulla al mondo rende peggiori.
Oriana Fallaci, Un uomo


«Ti amavo, perdio. Ti amavo al punto di non poter sopportare l’idea di ferirti pur essendo ferita, di tradirti pur essendo tradita, e amandoti amavo i tuoi difetti, le tue colpe, i tuoi errori, le tue bugie, le tue bruttezze, le tue miserie, le tue volgarità, le tue contraddizioni, il tuo corpo con le spalle troppo tonde, le tue braccia troppo corte, le tue mani troppo tozze, le tue unghie strappate».
Oriana Fallaci, “Un Uomo”


‎...Che l'unico modo per non soffrire è non amare, che nei casi in cui non puoi fare a meno di amare sei destinato a soccombere. In altre parole il mio problema era insolubile, la mia sopravvivenza impossibile, e la fuga non serviva a nulla. ‎[...] ormai non potevo più concepire la vita senza di te. Ne facevi parte quanto il mio respiro, le mie mani, il mio cervello, e rinunciare a te era rinunciare a me stessa, ai miei sogni che erano i tuoi sogni, alle tue illusioni che erano le mie illusioni, alle tue speranze che erano le mie speranze, alla vita!
Oriana Fallaci. Un uomo



«La solita fiaba dell'eroe che si batte da solo, preso a calci, vilipeso, incompreso. La solita storia dell'uomo che rifiuta di piegarsi alle chiese, alle paure, alle mode, agli schemi ideologici, ai principii assoluti da qualsiasi parte vengano, di qualsiasi colore si vestano, e predica la libertà. La solita tragedia dell'individuo che non si adegua, che non si rassegna, che pensa con la propria testa, e per questo muore ucciso da tutti».
Oriana Fallaci. Un uomo



«Ogni rivoluzione contiene in sé i germi di ciò che ha abbattuto e col tempo si dimostra il proseguimento di ciò che ha abbattuto. Da ogni rivoluzione nasce o rinasce un impero. Guarda quella francese, l'esempio che ha avvelenato il mondo con le sue bugie Liberté-Egalité-Fraternité. Fiumi di sangue e di sogni, mari di atrocità e di chimere, e poi?».
Oriana Fallaci. Un uomo


Lottate, ragionate col vostro cervello,
ricordate che ciascuno è qualcuno, un individuo prezioso, responsabile, artefice di se stesso.
Difendetelo il vostro io, nocciolo di ogni libertà.
La libertà è un dovere, prima che un diritto è un dovere.
Oriana Fallaci. Un uomo


Se parlavo di te con gente che non ti conosceva o alla quale non interessavi, mi affannavo a spiegare quanto tu fossi straordinario geniale e grande;
se passavo dinanzi a un negozio di cravatte e camicie mi fermavo d’istinto a cercare la cravatta che ti sarebbe piaciuta.
Un amore simile non era nemmeno una malattia..era un cancro!
Un cancro che a poco a poco invade gli organi interni col suo moltiplicarsi di cellule, il suo plasma vischioso di male, e più cresci e più diventi cosciente che nessuna malattia può arrestarlo, nessun intervento chirurgico può asportarlo, forse sarebbe stato possibile quando era un granellino di sabbia, un chicco di riso, una vocina che grida, un amplesso mentre il vento fruscia tra i rami d’olivo.
Ora invece non è possibile perchè ti ruba ogni organo, ti divora a tal punto che non sei più te stessa ma un impasto fuso con lui, un unico magma che può disfarsi solo con la morte, la sua morte che sarebbe anche la tua morte, così tu mi avevi invaso e così tu mi stavi divorando, ammazzando.
Oriana Fallaci. Un uomo



Un ruggito di dolore e di rabbia si alzava sulla città, e rintronava incessante, ossessivo, spazzando qualsiasi altro suono, scandendo la grande menzogna.
Zi, zi, zi! Vive, vive, vive! Un ruggito che non aveva nulla di umano.
Infatti non si alzava da esseri umani, creature con due braccia e due gambe e un pensiero proprio, si alzava da una bestia mostruosa e senza pensiero, la folla, la piovra che a mezzogiorno, incrostata di pugni chiusi, di volti distorti, di bocche contratte, aveva invaso la piazza della cattedrale ortodossa poi allungato i tentacoli nelle strade adiacenti intasandole, sommergendole con l’implacabilità della lava che nel suo straripare divora ogni ostacolo, assordandole con il suo zi, zi, zi.
Vive, vive, vive! […]
Come l’acqua di una cannella che goccia monotona, sempre uguale a se stessa, martellando rintocchi ossessivi nel silenzio della notte vuota, sicché a forza di udirla ti senti impazzire e invochi un rumore diverso, uno schianto magari, uno sparo che uccida, tutto fuorché quell’atroce uniformità, quel buio, così trascorsero gli anni dopo la sera in cui Zakarakis ti disse che tuo padre era morto e le guardie ti impedirono di strangolarlo.
[…]
Quel filo di voce.
La rassegnazione che inzuppava quel filo di voce.
perché questo accadde mercoledì 28 aprile: il dissolversi della tua resistenza, lo sfasciarsi della tua indistruttibilità, il sopraggiungere della rassegnazione.
Non durò molto lo sforzo finale.
A un certo punto la stanchezza di vivere torna, anima e corpo s’allentano nella rassegnazione che guarda all’indietro: guizzi involontari gli slanci, gli urli, le super domande che non rivolgerai.
Lo dice anche la poesia che scrivesti quella notte rientrando a via Kolokotroni.
Pensieri di un uomo che dall’esilio rimpiange il passato, il passato essendo l’unico appiglio al quale aggrapparsi per risalire ai tempi in cui la solitudine era una cella senza spazio e senza luce, un desiderio pazzo di parlare a qualcuno, per il futuro era una speranza.
Eccola, su quattro foglietti del tuo block notes.
Che calligrafia convulsa, alterata.
Di verso in verso diventa più convulsa, più alterata, quasi che tenere la penna in mano ti costasse una fatica terribile.

Come andavano girando nel passato
i poeti
e come declamavano le loro verità
verità vestite di belle parole
dai racconti battezzate
così andavo girando anch’io
in luoghi sconosciuti
ma belli al pari dei nostri
e volevo credere che
non voltavo le spalle al mondo

Non viaggio io
parlo a me stesso
pei boschi i monti le valli
non viaggio io
sono le campagne che corrono
e il mio ricordo legato agli amici
che in qualche posto
stavano aspettando
di vedermi sbucare all’improvviso
ai giorni lontani in cui
con la sola forza dei sogni
costruivamo speranze
e il dolore
ci accompagnava ovunque sempre

Alberi montagne vallate viaggiano
ed io
legato a loro che soffrivano perché soffrivo
che piangevano perché piangevo
che invocavan sbarre perché ero dietro le sbarre
Solo

Sono trascorsi anni e io
senza dimenticare il dolore
ma senza diventare
ingiusto a rievocarlo
per le stesse strade vo camminando
strade che soltanto
chi ha sofferto conosce
e la mia cella anelo con nostalgia
se penso che in quei giorni davo qualcosa
che tutti capivano

E quando penso a quello che so
che accade ora
ora più di allora
senza che gli altri riescano a capirlo
neanche a intuirlo
dico:
la mia fine verrà nel modo in cui vogliono coloro che hanno il potere.

L’avrei trovata quarantott’ore dopo sotto il tuo guanciale,
insieme a un quinto foglio su cui avevi trascritto le parole che Socrate dice prima di darsi la morte.
E giunta l’ora di andare. Ciascuno di noi va per la propria strada: 
io a morire, voi a vivere. Che cosa sia meglio Iddio solo lo sa..” […]
Non più gregge, quel giorno, ma piovra che strozza e ruggisce zi, zi, zi! Alekos zi, zi, zi! Alekos vive, vive, vive! Ecco perché sorridevi tanto misteriosamente ora che calavi dentro la fossa dove il Gran Sacerdote coperto di ori e collane, zaffiri smeraldi rubini, simbolo d’ogni potere presente e passato e futuro, ruzzolava grottesco, rompendo il cristallo, calpestando la statua di marmo, credendo che soltanto quella restasse di un sogno, di un uomo.


Il fatto è che come ogni altra fatica, ogni altro lavoro,
quando un libro è concluso vive di vita propria.
E diventa ci che vi vedono gli altri.
Non è più ciò che l’autore voleva che fosse.
Oriana Fallaci, Un uomo


Oriana Fallaci, Io e il fantasma di Alekos.
Elencai una serie di domande che la aiutassero a farmi capire:
aveva sete, voleva andare nel bagno, non sopportava il dolore?
Ma ogni domanda scuoteva la testa per rispondere no, no, no.
Ci volle un secolo prima che l’infermiera captasse il vocabolo prete, capisse che voleva il prete.
E il prete venne, con la sua valigetta di flaconi contenenti acqua santa, olio santo, altri liquidi santi e brevettati per la guarigione dell’anima. Come uno stregone che si accinge a misteriosi esorcismi si addobbò con stole nere e ricamate d’oro e d’argento, brandì la croce, recitò litanie, spruzzò i suoi liquidi santi, la assolse dei peccati che non aveva mai commesso.
Poi se ne andò e mi lasciò sola con lei che, sollevata all’idea d’esser stata assolta dei peccati mai commessi, mi indicò la poltrona accanto al letto.
Lì sedetti, col cuore che mi scoppiava, e rimasi sei giorni e sei notti
dimenticando il fantasma che mi aveva rubato a lei con un libro.
La morte della madre non è paragonabile alla morte dell’uomo che amavi:
è l’anticipo della tua morte.
Perché è la morte della creatura che ti ha concepito, portato dentro il ventre, regalato la vita.
E la tua carne è la sua carne, il tuo sangue è il suo sangue, il tuo corpo è un’estensione del suo corpo: nell’attimo in cui muore, muore fisicamente una parte di te o il principio di te, né serve che il cordone ombelicale sia stato tagliato per separarvi.
Per rinviar quella morte che era un anticipo della mia morte, dunque mi tenevo sveglia.
Per tenermi sveglia la tenevo sveglia e parlavo, parlavo.
Le raccontavo ciò che non le avevo mai raccontato e non avrei mai raccontato a nessuno, le mie ferite, i miei rimpianti, i miei dubbi, prezioso fardello tuttavia giacché era esso stesso vita, le dicevo che malgrado quelle ferite e quei rimpianti e quei dubbi mi piaceva tanto la vita, ero così contenta d’esser nata, e la ringraziavo in ginocchio d’avermi partorito.
Perfino se non avesse fatto altre cose buone nella sua bontà, nella sua generosità,
l’avermi regalato la vita sarebbe stato per me sufficiente a giustificar la sua vita.
E io speravo che questa mia gratitudine la ripagasse di ogni dispiacere che potevo averle dato.
Per rispondermi che la rendevo felice, fiera del bellissimo gesto che aveva compiuto,
lei mi stringeva con forza le dita e mi spalancava addosso gli occhi nocciola.
Poi, quando veniva mio padre, me lo indicava con l’indice e con un sorriso:
quasi a ricordarmi che il dono veniva anche da lui.
La settima notte crollai e di colpo caddi in un sonno esausto
da cui emersi scrollata dall’infermiera che strillava in preda al panico: «Si svegli, si svegli! ».
Mia madre non respirava quasi più e i suoi occhi improvvisamente celesti fissavano già il nulla.
Se ne andò tra le mie braccia, come un uccellino intirizzito dal freddo, e per condurla al cimitero uscii finalmente di casa notando che le strade erano ancora strade, che la gente era ancora la gente.
Ma la cosa non mi tentò e subito rientrai nel mio tunnel trasformando l’esilio in prigione.
Scomparsa lei che mi strappava al tavolino e mi induceva a scender le scale, attraversare il salone con l’orologio, entrare nella camera ora chiusa a chiave ed evitata da tutti, non avevo più motivo di lasciare la stanza con la mezza finestra aperta sul campo di ulivi.
E mentre il fantasma dimenticato per sei giorni e sei notti riprendeva possesso della mia esistenza, mentre il mio cervello tornava ad essere un muscolo da usare esclusivamente in funzione del libro che stavo scrivendo, la stanza divenne una cella sopra il pero che sbocciava in una nuvola di fiori bianchi sicché doveva esser giunta la primavera, poi grondava di nuovo pere sicché doveva esser giunta un’altra estate, poi ingialliva di nuovo le foglie sicché doveva esser giunto un altro autunno, poi le perdeva di nuovo denudandosi in mezzo alla neve sicché doveva esser giunto un altro inverno, poi sbocciava una seconda volta in una nuvola di fiori bianchi sicché doveva esser giunta un’altra primavera che presto sarebbe scivolata in una terza estate e in un terzo autunno e in un terzo inverno.
Il mondo, una memoria sempre più lontana.
[...] D’un tratto nel buio del tunnel apparve uno spiraglio di luce, e filtrò attraverso il sipario della mia cecità per portarmi la nostalgia del mondo che avevo sepolto con le due persone amate.
Questo avvenne, credo, nel periodo in cui il pero sbocciò per la terza volta e il romanzo si avviò verso le ultime pagine.
A ogni pagina, un risorgere di curiosità per gli avvenimenti che il mio delirio aveva ignorato, un bisogno di cancellare anche il ricordo di quel delirio, un’impazienza di tornare ai viaggi, alle avventure, alle scoperte, insomma alla vita di un tempo.
Allora la cella in cui m’ero rinchiusa diventò insopportabile,
l’eco dell’orologio che ogni sessanta minuti ripeteva i rintocchi della Big Ben
diventò un incubo anzi una tortura.
Con l’ira del prigioniero che s’avventa contro il suo carceriere,
scesi nel salone e ne fermai il meccanismo.
Poi raccolsi il mio lavoro, mi trasferii in un’altra ala della casa,
mi sistemai in un’ampia stanza piena di finestre.
L’indomani ripresi a leggere i giornali, a guardare la TV, rispondere a telefono,
uscii addirittura in giardino spingendomi fino alla piscina d
ove per due estati non m’ero mai tuffata, non avevo mai goduto un filo di sole.
Mio padre stava strappando le erbacce che erano cresciute sui bordi.
Sollevò la testa, mi avvolse in un’occhiata incredula, esclamò: «Redivivi te salutant!».
Ed io scoppiai in una risata il cui suono mi spaventò:
durante tutti quegli anni trascorsi in compagnia di un fantasma e d’un silenzio che parlava soltanto di morte, avevo perfino dimenticato come si fa a ridere ed era la prima volta che udivo me stessa ridere.
Qualche settimana dopo il libro era finito e volavo a New York per affacciarmi all’uscita del tunnel con la riluttanza di un prigioniero rimasto troppo a lungo nell’oscurità.
Che farne di tanto spazio, tanta luce?
In che modo riprendere le abitudini perdute, le esperienze interrotte, l’esistenza di prima?
Un libro appena finito, oltretutto, non restituisce alla libertà che ti tolse il giorno in cui lo concepisti.
Come un figlio appena nato va guidato, nutrito, difeso dalle insidie, dalle perfidie, e a ciascun passo questo ti riconduce ai tormenti che ti divoravano mentre lo scrivevi.
Insomma, sapevo bene che la sua pubblicazione m’avrebbe avviluppato in una nuova schiavitù e che avrebbe resuscitato il fantasma da cui ero stata rubata a mia madre quando essa aveva bisogno di me.
Oriana Fallaci, Io e il fantasma di Alekos.
Tratto da un brano letto dalla Fallaci nel 1980 di fronte agli studenti del Columbia College di Chicago

http://www.corriere.it/Speciali/Spettacoli/2007/Fallaci/articoli/pezzo1.shtml



Alekos caro, ti scrivo nuovamente per dirti che sono stata felice
di ascoltarti una seconda volta a telefono.
Anche se non possiamo dirci molte cose
perché tu non capisci nulla di quello che dico
e io non capisco nulla di quello che dici,
udire la tua voce è bellissimo. Io, dopo, mi sento meglio.

Ti ringrazio per la risposta alla mia domanda su «cosa significa essere un uomo». (…)
È una splendida risposta, migliore della poesia di Kipling.
Forse la userò aggiungendo alle tue parole questa domanda per me:
«E per te, cos’è un uomo?».
Così io potrò replicare così:
«Un uomo è… una creatura come te. È te».

Tuttavia un particolare della tua risposta mi ha turbato.
Quello che Andreas ha tradotto:
«To love without permitting one love to become an handicap».
In italiano: «Amare senza permettere a un amore di diventare un ostacolo».
Ho creduto di capire che dicevi questo a me, non agli altri.

Ebbene: io non sono e non sarò mai un ostacolo, un handicap.
Io so che esistono cose ancora più grandi dell’amore di una persona o dell’amore per una persona.

Ad esempio, un sogno. Ad esempio, una lotta. Ad esempio, un’idea.

Ciao a sabato. Al massimo, domenica. E, se posso, prima (…).
Finito il lavoro a Bonn, mi fermerò in Italia per salutare mia madre che è malata.
Poi volerò subito da te. Non pensare nemmeno un momento
di abbandonare la clinica quando arrivo io.
Se devi stare in clinica, starai in clinica.
E io ti farò compagnia in clinica con una profonda conversazione in greco.
Oppure giocando a scacchi. Ok? Aspettami. Io ti ho aspettato tanto.

Oriana Fallaci ad Alekos Panagulis, “Aspettami. Io ti ho aspettato tanto…"












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