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sabato 26 novembre 2011

Plutarco di Cheronea: Filosofia, politica e tradizione


Plutarco di Cheronea: Filosofia, politica e tradizione

Delfi e la filosofia greca

Per l'uomo greco ancorato ai valori tradizionali, Delfi con il suo santuario apollineo era un centro spirituale prestigioso ed indispensabile, in quanto punto di riferimento luminoso, capace di orientare la condotta umana collettiva e individuale. Tutto questo, per un lungo periodo che sembra terminare irrimediabilmente nell'età di Giuliano Imperatore, cioè nel secolo che vede l'affermarsi del cristianesimo istituzionalizzato e la crisi irreversibile del mondo ellenico: formalmente, l'oracolo delfico verrà liquidato dall'imperatore cristiano Teodosio nel 394, dopo che la cultura religiosa ellenica era già stata messa al bando. Uguale sorte toccherà alle scuole filosofiche, e non è certo un caso che Delfi, la religiosità tradizionale e la metafisica classica si trovino accomunate in uno stesso destino, nel bene e nel male. Del resto, questo vincolo intimo ed indissolubile e ampiamente attestato nel mondo greco-italico, e a cercar conferme non c'è che l'imbarazzo della scelta.
Il termine "filosofia", come è noto, sarebbe di derivazione pitagorica, e proprio Pitagora era chiamato anche "pitio" e "apollineo"1: Pito corrisponde all'antico nome di Delfi, mentre l'attributo apollineo indica esplicitamente la relazione con il culto omonimo. La dipendenza da tale culto viene attestata da numerose leggende e testimonianze riguardanti il saggio di Samo. Esse sono state raccolte da vari autori, tra cui Giamblico, il quale ne La vita pitagorica offre una certa varietà di indicazioni che collimano nei tratti essenziali. Vi si dice che la nascita di Pitagora era stata prevista proprio dalla Pitia di Delfi, quasi a voler annunciare l'origine apollinea di Pitagora (o comunque la predominanza in lui del principio apollineo, cioe Nous), origine celebrata poi in diverse occasioni dai genitori stessi, dai poeti, dai filosofi, dagli abitanti delle città via via frequentate, celebrazioni cui si accompagnava il fiorire di templi apollinei, usati anche come sede privilegiata dei Discorsi sacri pitagorici. Secondo Aristosseno2, sarebbe stata proprio Temistoclea, sacerdotessa di Delfi, a tramandare certi insegnamenti tradizionali a Pitagora (cfr. Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VIII, 8 e 21). Testimonianze non dissimili riguardano anche Socrate: infatti la Pitia, sacerdotessa strumento del dio nel santuario delfico, aveva annunciato che proprio Socrate era il più saggio degli uomini del suo tempo: inoltre, il motto socratico "conosci te stesso" non era un'invenzione di Socrate: egli stesso l'aveva in qualche modo ripreso, e sappiamo che tale motto era inciso proprio sul frontone del tempio delfico. Il suo significato metafisico è fuori discussione, e conferma una volta di più l'unita dottrinaria che congiunge il sacerdozio delfico e la grande filosofia greca. Se il motto in questione implicasse un significato solo psicologistico, come hanno sostenuto alcuni, non si comprenderebbe l'importanza che gli antichi gli hanno riconosciuto nel corso dei secoli.
Non è un caso che Platone stesso si sia soffermato sulla questione, fornendo delle precisazioni indispensabili, la cui meditata lettura è doverosa per chiunque abbia a cuore l'argomento: non possiamo che rinviare all'esposizione socratica quale si ritrova nell'Alcibiade primo3, base dei commenti neoplatonici successivi. Platone, oltre a riprendere alcune dottrine delfiche, riconosce apertamente il ruolo guida di Delfi: nel Fedro il citato santuario apollineo viene indicato (assieme a quello di Dodona) come fonte dei più grandi beni che giungono agli uomini, o come intermediario con il divino, capace conseguentemente di procurare tali beni agli uomini4.
Nell'appendice alle Leggi, Platone ritorna sull'argomento quando, confrontando la cultura dei Greci e dei paesi "orientali", riassume le enormi possibilità della Grecia attribuendole al fatto che "i Greci posseggono le prescrizioni dovute all'oracolo di Delfo (Epinonide 988 a). Platone non fa che sintetizzare le testimonianze di una preesistente tradizione, concorde nel riconoscere la centralità delfica, tanto è vero che perfino "i 7 savi riconoscono nel profetico iddio (di Delfi) l'istanza suprema cui ricorrere per consiglio"5.
Risulta evidente che la grande filosofia greca non si riduce affatto ad un pensiero meramente razionale staccato dal mito e dalla religione, come pretendono troppi storici moderni, che ripetono con sospetta testardaggine questo stereotipato ritornello, dimenticando che il logos greco non corrisponde affatto alla "ragione" dei moderni, termine che potrebbe indicare solo un aspetto secondario del logos, e non il suo tratto dominante, che lo imparenta invece non con il razionalismo moderno, ma con la tradizione sapienziale custodita a Delfi. Citiamo a questo proposito il Colli, il quale ha penetrato molto bene questo aspetto della questione, cercando di comprendere la cultura greca "dall'interno", senza imporre ad essa categorie interpretative che le sono del tutto estranee:
«A Delfi si manifesta la vocazione dei Greci per la conoscenza... Per questa civiltà arcaica la conoscenza del futuro dell'uomo e del mondo appartiene alla Sapienza. Apollo simboleggia questo occhio penetrante, il suo culto è una celebrazione della Sapienza. Ma il fatto che Delfi sia un'immagine unificante, un'abbreviazione della Grecia stessa, indica qualcosa di più, ossia che la conoscenza fu, per i Greci, il massimo valore della vita»6.
È il caso di precisare che l'arida contrapposizione tra conoscenza e dimensione mitico-religiosa (foriera di ulteriori separazioni) è un tratto tipico della mentalità moderna, che si è costituita, per l'essenziale, proprio a partire da tale scissione: questo è quanto si ritrova nei più significativi esponenti della modernità, da Galilei e Cartesio in poi. Niente del genere, invece, compare nella Grecia tradizionale, che si riconosce in Delfi: e proprio la presenza di un nucleo unitario metafisico-sapienziale a farne un centro fecondo da cui scaturiscono insostituibili impulsi spirituali, capaci di illuminare e rinvigorire la civilta greca.

Delfi e Plutarco

Così è anche per Plutarco, la cui formazione mostra una perfetta integrazione di religiosità e filosofia. Nello scritto Sulla "e" di Delfi, egli cosi riassume il significato del culto delfico-apollineo:
«Comunque il benigno Apollo, lo vediamo, da una parte allevia e risolve le difficoltà dell'esistenza, dando responsi a quanti lo interrogano: dall'altra, nel dominio intellettuale, è lui stesso a mandare ispirazioni e suggerimenti a chi è per natura amante della Sapienza, suscitando nell'anima una tendenza che spinge alla verità».
Il brano sottolinea la necessita del fondamento divino (cioè sovrapersonale) quale referente della conoscenza e dell'agire, senza di che vi sarebbe la caduta nel relativismo soggettivistico: inoltre, ripropone la versione originaria della filosofia in senso forte, cioè come ricerca della sapienza, secondo la celebre definizione pitagorica. Plutarco, seguendo le orme dei suoi illustri predecessori, continua a considerare il santuario delfico in quanto custodia di quei principi non umani capaci di dare una portata realizzativa alla condotta umana, nella misura in cui essa non viene abbandonata a se stessa, ma ricollegata ad istanze di ordine superiore. Per Plutarco, che vive in età cristiana, l'onfalo delfico è ancora il "centro del mondo", per usare la suggestiva immagine di Platone7, benché egli sia consapevole di un depotenziamento della spiritualità delfica (questo è quanto si evince in particolare dallo scritto Il tramonto degli oracoli): ed è proprio con l'intento di attivarne una rivitalizzazione che Plutarco potrà ottenere il sacerdozio delfico, suprema carica spirituale dell'epoca, e coronamento del suo percorso filosofico.
La partecipazione al duumvirato sacerdotale sarebbe incominciata verso il 95-100, quando egli aveva circa 50 anni, l'età orientativa indicata da Platone per la guida spirituale: Plutarco avrebbe occupato l'ufficio sacerdotale per un abbondante ventennio, considerando che la sua morte sarebbe avvenuta poco dopo l'anno 120. In Gli oracoli della Pizia Plutarco stesso descrive il rinvigorimento di Delfi, dopo un precedente periodo di abbandono, e i buoni rapporti intercorrenti con gli Anfizioni e i cittadini.
Seguendo, sia pure solo in parte, K. Ziegler, che ha tentato un bilancio complessivo dell'operato di Plutarco, possiamo dire che la sua opera si è articolata in due momenti organicamente collegati: all'interno, per risanare l'oracolo, e all'esterno, per assicurarne l'influenza. In particolare Ziegler, seguendo le antiche testimonianze, cita i rapporti con Roma nell'età dell'illuminato Traiano (98-117), il quale aveva favorito la rinascenza delfica, ed il ruolo direttivo svolto nelle assemblee degli Anfizioni, cioè dei rappresentanti del mondo ellenico che si riunivano periodicamente proprio a Delfi, quasi a rimarcarne una volta di più la centralità
In effetti, non vi sono dubbi sull'influsso a largo raggio e in ambienti importanti esercitato dal sacerdote Plutarco, attività benefica per ricordare la quale gli Anfizioni ordinarono l'erezione di un monumento dedicato a Plutarco stesso, d'accordo con gli abitanti di Delfi e Cheronea, testimonianza del favore popolare di cui godeva. Fonti importanti (Suida ed Eusebio) citano inoltre l'incarico consolare in Illiria conferitogli da Traiano, e la rappresentanza imperiale in Acaia per conto di Adriano(117-13B), sovrano filo-elleno, rispettoso del santuario delfico (da lui visitato in due occasioni, nel 126 e nel 129): notizie queste che mettono in luce l'importanza di Plutarco anche quale uomo politico. Indubbiamente, Plutarco operava per garantire un'integrazione organica tra autorità spirituale e potere politico, e in tale prospettiva si spiega l'accettazione di cariche politiche accanto a quella spirituale. Poco sappiamo della sua attività in dettaglio: ma è certo che egli gestì gli incarichi politici con la necessaria dignità che si richiedeva al suo alto rango, altrimenti li avrebbe rifiutati: "Farlo in modo diverso, non era bene"8.

I modelli politici di Plutarco

L'atteggiamento di Plutarco è ben allineato con la filosofia politica tradizionale, filtrata per il tramite privilegiato di Platone, che egli ha sempre presente e che replica tenendo conto delle circostanze e dei necessari adattamenti storici. Gli scritti politici del maestro di Cheronea, esprimono per l'essenziale la fedeltà a tale orientamento. Essi, ricolmi ad un tempo di dottrina impersonale e di preziose riflessioni personali, accompagnate da una straordinaria erudizione mai fine a se stessa, ma lucidamente gestita per dare un sovrappiù di efficacia all'esposizione, abbondano di riferimenti, espliciti o meno, al fondatore dell'Accademia ateniese: quel che è più importante, essi toccano aspetti notevoli del Platonismo. In primo piano ricompare la figura, nota ma non altrettanto meditata, del re-filosofo (o quanto meno orientato dalla filosofia), in contrapposizione radicale a quella del tiranno. In tale contesto, i rinvii ai progetti politici platonici sono d'obbligo. Egli cita pero, tra gli altri, anche Minosse, "assiduo discepolo del dio", Pitagora (consigliere dei principi italici), Anassagora (per i rapporti con Pericle), Panezio (in relazione a Scipione).
Il tema della politica "secondo giustizia" viene collegato alla dottrina platonica delle virtù: l'esercizio di esse è indispensabile, perché chi deve guidare gli altri deve prima di tutto saper comandare a se stesso e realizzare l'Uno interiormente, cioè deve saper disciplinare gli impulsi psichici, dando compattezza e armonia all'anima, in modo da indirizzare positivamente le sue energie altrimenti scomposte e pericolose. Solo chi sa far questo rispetto allo psichismo che gli è proprio, può poi riuscire ad incanalare rettamente le energie della comunità, fornendo ad essa prima di tutto un modello vivente da imitare. Nel re, filosofo e virtuoso, "somigliante a dio per mezzo della virtù", prevale il Logos divino, guida luminosa dell'anima di un intero popolo. Un tale sovrano "è l'immagine stessa del dio che a tutto conferisce un ordine", in quanto prolunga nel mondo umano quell'istanza ordinatrice che pervade il cosmo intero, adeguando l'umano al sovrumano, cioè alla Legge impersonale, alla "Legge che regna su tutti, mortali e immortali, come dice Pindaro". Di un tale sovrano, si può ben dire che è il riflesso del divino nella città, così come il sole è tale nel cielo.
Occorre qui aggiungere che tematiche dello stesso genere vengono esposte anche nelle Vite parallele, il cui scopo è principalmente quello di far emergere la purezza degli archetipi, dei valori sovratemporali, distillandoli dai vari contesti via via proposti e separandoli da quel poco o tanto di impuro che, secondo i casi, può esser infiltrato nelle vite dei personaggi delineati: scopo educativo nel senso superiore del termine, non spicciolo moralismo!
Ricorderemo in particolare le Vite di Dione, di Licurgo e di Numa. Il primo di questi viene celebrato (assieme a Bruto) proprio in quanto uomo politico che nell'azione si ispira, per quanto era nelle sue possibilità, all'autorità spirituale con cui era più immediatamente in contatto, vale a dire l'Accademia platonica.
«Dione fu discepolo di Platone, Bruto si nutrì della dottrina di Platone: quindi uscirono ambedue da un'unica palestra per muovere verso le più grandi contese. Che poi nel compiere molte azioni che potremmo dire simili e quasi sorelle, abbiano reso testimonianza a colui che li guidò sulla via della virtù, e che abbiano dimostrato come occorra, affinché le azioni politiche siano degne, oltreché grandi, unire la saggezza e la giustizia alla forza e alla fortuna, non è un fatto che deve stupire. [...] Dione, fra tutti i discepoli che ebbe Platone, si dimostrò di gran lunga il più perspicace e il più pronto a seguire i suoi ammaestramenti sulla via della virtù, come Platone stesso lasciò scritto, e i fatti attestano» (Vita di Dione, 1 e 4).
Inoltre, dato lo stretto rapporto tra l'Accademia e il culto apollineo, non desta meraviglia il fatto che anche Dione sia direttamente coinvolto in detto legame, fatto rilevato da Plutarco stesso, che descrivendo i preparativi per la guerra contro il tiranno Dionisio di Siracusa, informa che Dione aveva preparato "uno splendido sacrificio ad Apollo" (Vita di Dione, 23). Dione poi, una volta vincitore, si mantiene fedele allo stile di vita del filosofo-asceta, "ordinato secondo un criterio di virtù e conformato al modello del più divino e nobile degli enti", per dirla con Plutarco, che sottolinea come Dione cercasse di incarnare la dottrina nella vita quotidiana, offrendo con l'esempio un modello vivente per gli altri.
«Quanto alla sua persona, si manteneva sobriamente e con modestia. [...] Egli si accontentava di vesti modeste, di essere servito e di godere sobriamente della tavola, quasi sedesse a mensa con Platone nell'Accademia e non vivesse invece fra capitani e soldati di ventura. [...] Mirava a raddrizzare i costumi dei Siracusani, troppo inclinati verso la rilassatezza ed i vizi».
Inoltre, Dione non dimentica il rapporto di subordinazione che vincola l'azione politica all'autorità spirituale, da cui essa riceve luce:
«Platone gli scrisse che gli occhi di tutto il mondo erano in quel momento puntati su di lui: ma i suoi Dione li teneva rivolti, a quanto pare, verso una località sola, di un'unica città: l'Accademia. Sapeva come gli spettatori e i giudici ch'erano là non ammiravano le imprese militari, gli ardimenti e le vittorie, ma osservavano soltanto se sapesse usare con saggezza e decoro della fortuna, se si dimostrasse moderato pur disponendo di grandi possibilità» (Vita di Dione, 52).
Se poi ci spingiamo alcuni secoli più addietro, fino all'età di Licurgo, che avrebbe legiferato, secondo Plutarco, verso l'885-884 a. C. , anche in questo altro contesto viene evidenziato che l'attività politica del grande legislatore era capace di una particolare efficacia in virtù di una illuminazione dall'alto, che veniva veicolata tramite il santuario delfico:
«Licurgo si recò dapprima a Delfi, dove sacrificò al dio e consulto l'oracolo. Ne ritorno con quel notissimo responso, in cui la Pizia lo chiamò caro agli dei e dio più che uomo, e alla sua richiesta di una buona legislazione vaticinò che il dio gli concedeva e assicurava una costituzione che sarebbe stata di gran lunga la migliore di tutte. [...]. Licurgo fece risalire al dio pitico, Apollo, il principio e l'origine della sua costituzione» (Vita di Licurgo, 5 e 6).
Del resto anche Platone, nelle Leggi, fin dalle battute iniziali di Negillo, sottolinea il fondamento non umano della legislazione spartana. Plutarco, che si sofferma ripetutamente su tale carattere della legislazione licurgica, annota che non a caso essa restò in vigore per 500 anni circa, la stabilità nella storia essendo un'imitazione dell'eternità del Principio: per tutto questo periodo, essa poté sottrarsi al divenire garantendo a Sparta una superiore forza spirituale di cui quella militare era solo un riflesso, e questo fino a quando non si infiltrò l'infezione economicistica, fattore di sovversione che doveva comportare la crisi dell'ordinamento tradizionale.
Non si può che prestar fede ad un antico oracolo delfico, noto anche ad Aristotele che lo ha riportato nella sua Costituzione degli spartani, oggi perduta assieme a molte altre (restano però i frammenti, curati da V. V. Rose), secondo cui proprio la cupidigia economicistica avrebbe portato Sparta alla rovina. La demonìa economicistica in effetti è sempre denunciata come fattore di disordine e decadenza in tutte le culture tradizionali, senza eccezione. Ciò, ovviamente, era ben noto anche al centro spirituale delfico: non a caso Plutarco definisce la cupidigia "malattia dell'anima", e dice che l'uomo che ne è posseduto deve purificarsi adeguatamente, considerando che il suo male non è dovuto alla povertà, ma all'insaziabilità9. Inoltre ricorda che Licurgo aveva operato intensamente per estirpare le tendenze materialistiche e individualistiche, considerate fonte di lassismo e disgregazione, offrendo a questo proposito un vasto materiale che meriterebbe una riflessione a parte.
Ci limiteremo a citare certe esemplificazioni, sufficienti per delineare alcuni tratti dello stile ascetico, tipico non solo di Sparta nel suo migliore periodo, ma anche di altre civiltà normali, e ripreso poi nelle scuole pitagoriche e platoniche10: emarginazione della moneta, eliminazione delle attività superflue, del lusso e dell'alcoolismo, istituzione dei pasti frugali in comune, educazione collettiva, linguaggio semplice e conciso, divieto di relazionare con paesi corrotti... indicazioni, queste e altre ancora, incarnate nella vita di Licurgo stesso, il quale
«mostrò, a chi crede irrealizzabile la figura del saggio come è delineata nella teoria, una città intera praticare l'amore per la saggezza, superò giustamente per fama gli statisti greci di qualsiasi epoca» (Vita di Licurgo, 31).
Nella Vita di Licurgo, viene celebrata con parole vibranti la disindividualizzazione della vita, condotta secondo uno stile impersonale: "Licurgo avvezzò i cittadini in genere a non avere né il desiderio, né la capacita di vivere una vita propria [...] quasi liberati dal proprio io" (cfr. la traduzione di W. Jaeger in Paideia, 1953, pag. 168).
Qualche considerazione aggiuntiva può esser proposta prendendo lo spunto dalla figura di Numa, secondo re di Roma, nobile interprete della funzione regale e di quella filosofico-sacerdotale.

Nuna e Pitagora

Le analogie tra Numa e Pitagora, su cui Plutarco insiste, sarebbero di per sé sufficienti per attribuire allo stesso Numa ciò che all'inizio si era detto a proposito di Pitagora, almeno per l'essenziale. Occorre pero apportare all'argomento qualche chiarificazione, perché gli eruditi hanno complicato la questione esagerando o addirittura assolutizzando l'importanza dei dati meramente cronologici, e affermando l'impossibilita di rapporti tra Numa e il Pitagorismo, dato che Pitagora sarebbe vissuto dopo Numa e quindi non poteva esserne il Maestro, ipotesi questa senz'altro realistica nel versante biografico e cronologico, e che Plutarco esamina assieme ad altre di segno opposto, mostrandosi tutt'altro che sprovveduto in materia e aperto a varie possibilità.
Ciò che più importa, non si riduce pero agli aspetti cronologici, perché del Pitagorismo gli elementi essenziali sono quelli qualificabili come Sophia Perennis, cioè quei contenuti impersonali e sovrastorici, di cui il Pitagora storico non può esser considerato l'inventore, avendo egli avuto una funzione di rivitalizzazione di insegnamenti preesistenti, collegati in qualche modo alle iniziazioni misteriche frequentate anche da appartenenti alla sua cerchia.
L'equivoco su Numa nasce dal fatto che i testi storiografici utilizzati dagli eruditi danno la sconsiderata impressione che il Pitagora storico sia l'autore di insegnamenti specificatamente "pitagorici", quindi una specie di innovatore, interpretazione questa che non ha nessun fondamento, e si dimentica irresponsabilmente il fatto, attestato dagli stessi Pitagorici, che la Scuola in realtà riprendeva dottrine tradizionali preesistenti, con le quali lo stesso Numa può ben esser stato per altre vie in diretto rapporto, per cui si spiega, anche a distanza di secoli, l'esistenza di straordinarie analogie tra Numa e il Pitagorismo, che a posteriori hanno indotto ad attribuire allo stesso Numa l'appellativo "pitagorico". Episodi del genere, tra l'altro, sono tutt'altro che infrequenti nella antichità, e per darne ragione non è il caso di ricorrere a interpretazioni complicate, cosi come non è il caso di rifiutarne in blocco la veridicità solo perché, benché attestati per l'essenziale da varie fonti, non si adattano alla mentalità moderna che si ostina a negare i fatti, rifiutando a priori per insano pregiudizio l'idea che possano mai esservi dottrine non attribuibili in esclusiva a qualche autore umano. Ma non si può pretendere troppo da certi interpreti moderni, perché altrimenti essi dovrebbero rivedere buona parte di ciò che fino ad ora sono andati scrivendo, che da un punto di vista quantitativo è veramente molto!
Tornando all'argomento principale, occorre ribadire che uno dei più importanti significati del termine "divino" in Plutarco, riguarda per l'appunto il carattere impersonale di un'azione o di un pensiero: tale caratterizzazione concerne anche gli episodi più decisivi della storia di un popolo, di una civiltà, nella misura in cui essi non siano totalmente precipitati nel disordine nichilistico. Una simile caratterizzazione ricorre anche a proposito di Numa, secondo quanto riporta Plutarco:
«Amava dimorare per lo più in campagna e vagare da solo, vivendo in boschi sacri agli dei, in prati sacri e in luoghi solitari. [...] Numa non aveva abbandonato la vita associata per qualche inquietudine o aberrazione mentale: egli era un uomo beato e saggio nelle cose divine, perché aveva gustato il sapore di una compagnia più augusta ed era stato ritenuto degno di nozze divine: era sposato e conviveva con la ninfa Egeria che lo amava» (Vita di Numa, 4).
Inoltre il contemplativo Numa, nell'accettare la carica regale non si accontentò dell'acclamazione popolare, ma salito sul Campidoglio con indovini e sacerdoti, attese la conferma del dio. Plutarco cita anche i suoi rapporti con le Muse11, cui attribuiva la maggior parte dei vaticini, e specialmente con la Musa Tacita, che i Romani venerarono per suo insegnamento. L'operato politico di Numa, come descritto da Plutarco, poggia sempre sull'elemento metafisico-religioso, ed infatti Numa viene indicato anche come sommo pontefice, istitutore degli ordini sacerdotali dei Feziali (che potevano legittimare o meno la guerra), e dei Salii (custodi del Sacro Scudo), nonché costruttore del tempio circolare di Vesta come custodia del Fuoco Inestinguibile, che dell'intero universo e Centro e che è stato chiamato Vesta o Monade anche dai Pitagorici. I sacerdoti sarebbero stati istruiti secondo i contenuti dei Libri Sacri scritti dallo stesso Numa e alla sua morte seppelliti con il suo corpo.
Anche l'ordinamento della popolazione secondo i Nestieri, voluto da Numa, che avrebbe anche istituito i culti adatti per ognuno di essi, testimonia di una concezione sacrale tipica dei mondi tradizionali. La riflessione di Plutarco, secondo cui "Numa costituì un esempio e una conferma vivente di quanto più tardi osò dire Platone a proposito del governo", vuole una volta di più far emergere una continuità di pensiero e di valori che anche in momenti storici diversi accomuna lo spirito della Sophia Perennis al quale Plutarco sente di appartenere fino in fondo. Egli, istituendo collegamenti tra grandi personaggi e fatti salienti cosi distanti nel tempo (e occorrerebbe quanto meno inserire anche la religiosità egizia!) si muove in una dimensione che travalica di molto gli angusti limiti della storia della filosofia, cosi. come viene proposta nell'età contemporanea, secondo schemi logori e inattendibili.
Certo, Platone resta un grande maestro spirituale, ben presente nelle opere di Plutarco: ma non meno significative sono le figure di Licurgo e Numa, nella misura in cui riuscirono a realizzare ciò che Platone potrà solo tentare. Che dire poi del sacerdozio delfico, sempre presente nello sfondo, a ispirare il pensiero dei filosofi e le mosse degli uomini d'azione rispettosi del dio?
È necessario ricordare che nelle scuole pitagoriche e platoniche si viveva la filosofia come ricerca di un filone sapienziale, le cui origini trascendono la notte dei tempi, e Plutarco, andando a ritroso oltre Platone e Pitagora, non è certo estraneo a tale atteggiamento. In Plutarco non mancano le impennate di ardita metafisica, le cui più alte espressioni risalgono probabilmente al periodo delfico: lungi dall'essere un eclettico nel senso peggiorativo del termine, come alcuni hanno insinuato, egli indaga le correnti spirituali del suo tempo e delle età precedenti, con lo scopo di far emergere i contenuti sapienziali racchiusi nelle migliori manifestazioni filosofiche, religiose, mitologiche, mettendoli in correlazione a facendone notare l'accordo di fondo, nonostante la diversità delle forme esteriori. Un simile compito, veramente ecumenico, è possibile solo a chi è in grado di cogliere gli elementi più essenziali e universali delle dottrine considerate, senza farsi fuorviare dagli aspetti superficiali di esse ed anzi riconducendoli al loro comune principio.
In quanto sacerdote delfico, egli è certo in grado di svolgere tale compito, e di contrastare quindi una visione inadeguata delle vie spirituali, considerate nella loro mera frantumazione come realtà molteplici e isolate, da quelli che mancano dell'apertura universalistica tipica della metafisica. La riflessione politica non è scindibile da considerazioni di questo tipo: i modelli politici di Plutarco non solo vengono comparati secondo certe analogie, più o meno evidenti: soprattutto, essi vengono riportati, almeno per l'essenziale, ad un comune referente, che per lo più viene simbolizzato nell'Apollo delfico in modo diretto o tramite mediazioni più o meno articolate, costituite dall'Accademia, dalle Ninfe, dalle Muse...
In ogni caso, l'azione politica acquista uno spessore di autenticità in quanto ispirata se non direttamente dal dio, dall'autorità spirituale ad esso più prossima nelle condizioni contingenti di una data epoca: poiché Apollo è il dio della luce, della Conoscenza, potremmo anche esprimerci così: dicendo che il valore dell'ispirazione è quindi della legittimazione e proporzionale al grado di conoscenza incarnato nell'autorità legittimante. Ancora nel II secolo, Plutarco ritiene che tale funzione possa riguardare, in modo considerevole, il sacerdozio delfico, come in precedenza si è fatto notare.

Plutarco secondo i moderni e gli antichi

Da quanto fino ad ora esposto, risulta che a Plutarco non si possono affibbiare a cuor leggero certi incredibili attributi proposti da studiosi moderni: moralista, psicologo, umanista, filantropo, maestro della biografia ...e perfino repubblicano!
Il risultato, premeditato o meno, di tali interpretazioni, è quello di minimizzarne a screditarne la figura: basti pensare che le storie della filosofia solitamente lo ignorano o lo citano di sfuggita tra i cosiddetti medioplatonici, liquidandolo in qualche riga o più generosamente in mezza pagina.
Quelli che lo hanno ripreso nell'età moderna, lo hanno fatto per motivi veramente curiosi, che non toccano per nulla, o solo molto esteriormente, la figura di Plutarco: nella già citata opera di K. Ziegler è possibile trovare un inventario-bestiario di questa supposta "fortuna" di Plutarco dopo il Medioevo, che inizia con i lavori e gli apprezzamenti degli umanisti italiani, e perfino di Melantone e Zwingli, che certo ben poco possono avere in comune con la saggezza tradizionale. Tralasciando le imitazioni stilistico-letterarie, tale "fortuna" risulta per lo più collegata agli attributi sopra citati e ad altri dello stesso tenore!
Forse è proprio il caso di "guardarsi dagli amici", come diceva il nostro.
Più di qualcuno ha fatto presente che il titolo riassuntivo di Moralia dato alle opere diverse dalle Vite è inadatto e riduttivo: occorre però trarre da questa critica tutte le conseguenze del caso. Vi sono certo opere che, lette in fretta e considerate di per se stesse possono dare l'impressione di un Plutarco moralista, che si limita a distribuire precetti pratici di vario genere: la stessa considerazione potrebbe adattarsi a molte Vite parallele, che non sono semplici descrizioni psicologiche e biografiche. Occorre insistere sul fatto che le varie opere non vanno lette separatamente, ma nel contesto della visione filosofica di Plutarco, così come essa risulta dagli scritti più impegnativi e dai contributi più metafisici inseriti in opere di vario genere.
Parlando del pensiero politico di Plutarco, ne abbiamo messo in evidenza le dipendenza dall'elemento religioso-metafisico in quanto fattore di legittimazione: lo stesso dicasi per quanto riguarda la vasta area della precettistica, che per esser valorizzata esige l'esser ricondotta a istanze di ordine superiore, a volte espresse in modo esplicito, oppure presupposte necessariamente, come è logico che sia (non si può pretendere che Plutarco riproponga in continuazione la sua visione del mondo).
Si è giustamente fatto notare che Plutarco riesce a nobilitare anche i fatti più piccoli e apparentemente insignificanti della vita quotidiana, facendone apparire la recondita grandezza: ma questo non tanto in virtù delle capacita artistiche, dello stile letterario (che non intendiamo certo negare), ma in quanto essi vengono riportati ad un superiore principio di legittimazione, che non è mai di ordine puramente umano (come vorrebbero invece i sostenitori di un "Plutarco umanista"); la magnitudine di certi episodi ha una consistenza indistruttibile che deriva loro da quanto di sovrumano traspare in essi. Se Plutarco si occupa anche degli aspetti apparentemente marginali della quotidianità, ciò accade perché egli ha una rigorosa concezione dell'esistenza, per cui essa, per esser saggia, deve evitare l'arbitrio e conformarsi per intero, fin nei minimi particolari, all'ordinamento cosmico universale. Ciò è valido in generale, senza riserve: perfino quando parla dei precetti vegetariani (cfr. De esu carnium), Plutarco non si limita a considerazioni ideologiche astratte e moralistiche, ma ne rafforza la consistenza riconducendo il tutto all'impostazione cosmologico-metafisica che abbiamo delineato (con buona pace di Ziegler, che avventatamente ha definito tale scritto un'opera giovanile come tale contrassegnata da eccessi momentanei).
Il classicismo di Plutarco esige disciplina e misura in ogni atto, e il conseguente modellamento di ciò che si manifesta come materia psichica caotica: solo cosi si può mirare ad una vita spiritualmente ricca e potente, essa stessa Cosmo nel senso pieno del termine, il cui ordine esprime la prossimità al Principio. Mancando l'intuizione del legame indispensabile tra ciò che è principiale e ciò che appare contingente, l'attenzione viene unilateralmente fissata su dettagli pensati per lo più nel loro isolamento, nell'incapacità di recuperare il contesto che li sorregge. Si può avere allora l'impressione di un Plutarco che con i suoi scritti si limita a dilettare il pubblico facendo mostra di una vasta erudizione, capace di toccare gli argomenti più disparati, al modo di certi retori filosofisti: ma non poteva certo esser questa l'aspirazione di colui che è stato riconosciuto guida spirituale del mondo ellenico! Egli stesso aveva denunciato le scorrettezze interpretative, diffuse anche nell'antichità, le indebite estrapolazioni ed i travisamenti che ne conseguono.
«Colote, staccando certe sentenze e tirando via parti dei discorsi da ciò che li conferma e coopera alla comprensione e alla convinzione, mette insieme un libro pieno di stranezze ...»12.
In altra occasione, precisa che chi vuol confutare gli avversari
«non deve leggere superficialmente i ragionamenti e i loro libri e non deve ingannare gli inesperti traendo frasi di qua e di là e badando alle parole staccate dai fatti a cui si riferiscono»13.
Queste annotazioni, proprio perché riguardano aspetti metodologici, sono applicabili in vari contesti, e non semplicemente in quelli cui si riferiscono le citazioni. Per quanto riguarda la concezione della filosofia in generale, ricordiamo le parole di Plutarco, attuali più che mai, contro chi la svilisce, riducendola a fumosa esibizione parolaia:
«Un caso grave per la filosofia è costituito dalla loquacità. Infatti il mezzo per combatterla, la parola saggia, ha bisogno di ascoltatori: ma i chiacchieroni non ascoltano mai, e ciarlano sempre ... l'incapacità di tacere è allo stesso tempo incapacità di ascoltare»14.
Contro il vaniloquio, l'antidoto è costituito dalla concisione, tipica del saggio: qui il pensiero non può non rivolgersi a Licurgo, il quale
«volle al contrario che l'espressione semplice e breve avesse un contenuto grande e straordinario, rendendo con il molto silenzio i fanciulli sentenziosi e addestrati nelle risposte».
«... il discorso laconico pare breve, ma arriva benissimo alla sostanza delle cose e tocca la mente di chi ascolta. Anche Licurgo sembra sia stato conciso e sentenzioso, se si deve giudicare da ciò che si ricorda di lui»15.
Lo stesso tema ricorre anche nei Praecepta gerendae reipublicae, là dove si dice che
«di Focione si ammirava anche la concisione, sicché Polieucto dichiarava che Demostene era l'oratore più grande, ma Focione il più abile nel parlare, poiché il suo discorso in pochissime parole conteneva moltissimi concetti» (cap. 7, 803 E).
Circa questa intimità tra saggezza e concisione, un'illustre testimonianza è offerta da Platone nel Protagora, là dove si dice che
«nei ragionamenti filosofici gli Spartani hanno un'ottima formazione [...] laconizzare significa filosofare molto più che andar entusiasti per la ginnastica».
Perfino i Sette Saggi
«furono tutti emuli, ammiratori, seguaci della paideia spartana e chiunque può capire che la loro sapienza è dello stesso stampo di quella spartana: ciascuno di loro ha pronunciato brevi, memorabili sentenze. Ed anche quando si trovarono riuniti insieme, consacrarono la primizia della loro sapienza ad Apollo, iscrivendo nel tempio di Delfi le sentenze da tutti celebrate: Conosci te stesso, Nulla di troppo» 16.
Chi sa condensare in un linguaggio scarno ed essenziale un pensiero profondo e luminoso, rivissuto interiormente, non si affida certo alle volubili opinioni del momento, né lascia stoltamente proliferare discorsi artificiosi privi di forza interiore, per il gusto di provocare chiasso e rumore, come succede negli ambienti pseudofilosofici. Bisogna prima imparare ad ascoltare la parola della saggezza, ammonisce Plutarco, che così dicendo richiama alla mente anche la severa educazione all'ascolto e al silenzio praticata nelle scuole pitagoriche17.
Le opere di Plutarco non sono divagazioni letterarie né spicciolo moralismo. Egli ha scritto per fornire attraverso i personaggi ed i contenuti via via emersi insegnamenti dal carattere impersonale, che egli stesso si è sentito di riproporre (non di inventare) nella misura in cui era stato capace di riviverli, comprenderli e praticarli; poteva quindi sentirsi all'altezza del compito che gli era stato destinato: compito immane, affrontato con serietà e serena dedizione, avvertibili solo in parte a partire dai materiali che oggi ci sono accessibili. Si può ben capire il fastidio da lui provato per le dialettiche inconcludenti, per le discussioni fumose, prive di slancio ideale e di impegno interiore, come tali incapaci di illuminare la via, oscurata dal qualunquismo dalla trivialità.
Per contro, possiamo qui ricordare le parole con cui il saggio di Cheronea elogia la concretezza della filosofia autentica, che per essere tale deve necessariamente vivificare uno stile superiore del vivere:
«Se la filosofia è un'attività che per sua natura coinvolge l'esistenza stessa dell'uomo, la prima e più grave incoerenza da rilevare in un filosofo sarà quella tra teoria e pratica [...] Ritengo giusto, innanzitutto, che venga esaminata nella vita dei filosofi stessi l'accordo delle dottrine con la loro azione pratica: giacché conviene che la vita del filosofo s'accordi con la sua dottrina».
E poco più oltre aggiunge che la filosofia non è
«un gioco da bambini o un ingegnoso argomentare messo innanzi in vista di conseguire fama, ma un'opera degna della più grande serietà»18.
Queste parole non lasciano dubbi circa l'orientamento spirituale dell'autore e il suo modo di intendere la ricerca filosofica, che niente hanno in comune con certe sdolcinate interpretazioni moderne, che ci consegnano un Plutarco ridotto ad erudito distaccato, più letterato che filosofo, adagiato nella sua epoca. , privo di slanci vigorosi e di spessore metafisico, poco incline ad esporsi ... lui che aveva messo al bando il "vivi nascosto" degli epicurei!
La figura che risulta da simili manipolazioni può avere delle adiacenze non con Plutarco, ma con un certo tipo di intellettuale moderno, là dove la cultura viene inaridita e ridotta ad insano nozionismo ed astratta elucubrazione, e comunque piegata alla cornice pragmatica dominante. I modelli educativi e politici che compaiono nelle Vite e nei Moralia, insegnano a lottare proprio contro tale degrado, e sono di una perenne attualità; essi hanno lo scopo di suscitare impulsi benefici e costruttivi, capaci di operare un raddrizzamento, un innalzamento di livello nell'individuo e nella comunità; concetto che viene sintetizzato con queste testuali parole:
«È necessario che chi comanda gli altri si guadagni il suo diritto a comandare, imparando a guidare la sua anima e disciplinando i suoi costumi, cosi da poter modellare sul suo esempio coloro che gli obbediscono. Non si può infatti essere in grado di render saldi gli altri, se si è i primi a cadere [...] né di dare una disciplina di vita se si è indisciplinati, né di comandare, se non si sa comandare a se stessi»19.
Considerazioni analoghe attraversano di continuo le opere di Plutarco, e si saldano organicamente all'interno della sua visione del mondo: vedi in particolare i Praecepta gerendae reipublicae, in cui è rintracciabile un inventario di riflessioni riguardanti il tema politico, inquadrato in una adeguata cornice filosofica, secondo quanto viene messo in evidenza già nel proemio introduttivo20.
Considerata globalmente, quella di Plutarco risulta essere una serena filosofia da combattimento, nella quale l'impegno totale non lascia spazio a incontrollate tendenze emotive, e tutto si svolge pacatamente: è come mantenersi calmi e lucidi in un campo di battaglia, così da dar l'impressione che non vi sia battaglia alcuna, a chi è abituato a percepirla tramite i rumori che di solito l'accompagnano. Quale fosse, in realtà, la portata della lotta silenziosa ma determinante intrapresa da Plutarco, ce lo dice lui stesso parlando ad esempio delle traversie del centro delfico e indicando importanti direttive spirituali per un'azione risanatrice, indicazioni che verranno riprese, secondo varie modalità e in tempi successivi, da altri vicini più che non si creda al maestro di Cheronea: i nomi di Porfirio, Giamblico, Giuliano Imperatore e Proclo sono tra i più noti, ma non i soli.

Plutarco e Giuliano Imperatore

Nel caso dell'Augusto, la continuità può apparire più facilmente, anche perché la sua vita risulta essere una nobile esemplificazione delle virtù celebrate da Plutarco e dalla saggezza tradizionale in genere, nesso questo che lo storico Ammiano Marcellino ha evidenziato in pagine semplici e toccanti, che meritano di essere lette e meditate, par il loro concreto valore educativo21.
Occorre aggiungere che Giuliano, guida spirituale e politica ad un tempo, nella breve ma luminosissima estate che gli era stata destinata, si mostrò capace di portare non solo nella sua vita privata, ma addirittura nelle contingenze burrascose della sua epoca, sia pure per un attimo fuggente ma abbagliante quanto la folgore, proprio quei valori che Plutarco, con la vita e le opere, aveva propugnato. L'imperatore neoplatonico non a caso ne era grande ammiratore22, e certo non per vanità lo citava con grande rispetto nelle sue opere23, ma perché sentiva che le rispettive aspirazioni e realizzazioni erano parte di uno stesso impulso che muoveva da un'identica sorgente originaria, e al quale erano partecipi le figure più nobili della storia.
A differenza dei moderni, Giuliano ha ripreso Plutarco con quello stesso spirito con cui questi si è rapportato ai suoi illustri predecessori, ed è tale continuità che occorre mettere in rilievo e prolungare nel presente, perché la visione classica quale si manifesta nelle Vite parallele, nei Moralia e negli ambienti filosofici vicini al saggio di Cheronea, "lira di tutta la filosofia"24, non va affatto considerata come una banale curiosità da antiquariato: al contrario, essa può ridestare energie sopite, e tornare a brillare quale referente luminoso per la parte più vitale e pura della gioventù occidentale, cosi come era stato un tempo. È possibile tornare a guardare la tradizione filosofica non con l'occhio spento e inoffensivo dell'erudito a caccia di aridi dettagli, ma con quello vivo e penetrante di chi avverte come il riandare alle radici significhi attingere energie primigenie foriere di una semplicità e pienezza di vita di cui nel mondo moderno si sono persi il ricordo e la capacità.

Note

1- "Alcuni lo dissero Pitio, altri Apollo Iperboreo" (Giamblico, La vita pitagorica, VI, 30). Giamblico, cosi scrivendo, non fa che riproporre, ovviamente, una testimonianza di antica datazione.
"Aristotele dice che Pitagora era salutato dai Crotoniati col nome di Pizio o Apollo Iperboreo" (Eliano, Varia historia, II, 26). L'interesse di Aristotele per la scuola pitagorica è fuori discussione: secondo Giamblico, egli avrebbe scritto dei libri intitolati Sulla filosofia pitagorica, dei quali ci sono infatti pervenuti dei frammenti, curati da V. Rose e W. D. Ross. torna al testo ^
2- Aristosseno di Taranto (peripatetico del IV secolo A. C.) secondo Diogene Laerzio avrebbe scritto un libro dal titolo Pitagora e i suoi discepoli. Per quanto riguarda l'attendibilità di Aristosseno, occorre ammettere che molte notizie a lui attribuite risultano poco credibili, anche perché contrastano con quanto viene attestato da altre testimonianze che invece si integrano e rafforzano a vicenda. In questo caso però l'informazione dovuta ad Aristosseno si accorda con quanto riferito da altre fonti. torna al testo ^
3- Platone, Alcibiade primo, XXIV-XXX. Il valore del motto delfico-socratico è riconosciuto anche da Aristotele, che ne avrebbe parlato ripetutamente nei suoi "dialoghi platonici", e specialmente nel testo intitolato Della filosofia. Di quest'ultimo, V. i Frammenti curati da N. Untersteiner ( Roma, 1963). torna al testo ^
4- Fedro, 244 a-c: "I più grandi fra i beni giungono a noi attraverso la follia, che è concessa per un dono divino ... infatti la profetessa di Delfi e le sacerdotesse di Dodona, in quanto possedute dalla follia, hanno procurato alla Grecia molte e belle cose, sia agli individui sia alla comunità". torna al testo ^
5- W. Jaeger, Paideia, 1978 (1953), pag. 313. In questo testo si possono rintracciare numerosi spunti riguardanti l'argomento di cui stiamo trattando. Del resto, gli studi d. i W. Jaeger sul mondo classico conservano a tutt'oggi un grande valore, anche quando non siano interamente condivisibili. torna al testo ^
6- G. Colli, La nascita della filosofia, 1975, pag. 15. Il penetrante volumetto del Colli si inserisce agevolmente, almeno per l'essenziale, nella traccia espositiva che stiamo sviluppando. torna al testo ^
7- Platone, Stato, 427 b-c: "[...] per le più belle e le prime tra le leggi rimettiamoci all'Apollo di Delfi. [...] perché questo dio è il patrio interprete di tali questioni per tutti gli uomini e le interpreta stando sopra l'onfalo, nel centro della terra". torna al testo ^
8- L'espressione è tratta dalla Vita di Catone Uticense, 66: Catone, certo ormai della sua sconfitta e della vittoria di Cesare "radunò il figlio e gli amici e discorse di molte cose. Fra l'altro proibì al giovinetto d'intraprendere la carriera politica: la situazione, disse, non permetteva più di attendervi con la necessaria dignità che si richiedeva ad uno dei Catoni: d'altra parte, farlo in modo diverso non era bene". torna al testo ^
9- Cfr. De cupiditate divitiarum, 3, testo che meriterebbe una riflessione a parte. Ricordiamo comunque che Plutarco insiste di continuo su simili concetti e non perde occasione per riproporli, tale è l'importanza ad essi attribuita.
Nelle Vite di Aristide e Catone il censore, egli non a caso esalta la nobile e voluta povertà di Aristide, e definendo in modo sintetico la figura di Licurgo, casi scrive: "Asportò semplicemente la cancrena del lusso, la febbre della ricchezza, affinché tutti avessero quant'è necessario"; e poco più avanti delinea il carattere divino dell'austerità del retto vivere con queste parole: "Dio non conosce assolutamente il bisogno. Quindi la virtù più perfetta e più vicina a Dio è quella che restringe al minimo i bisogni dell'uomo" (Confronto tra Aristide e Marco Catone, 3 e 4).
Implicitamente, non potrebbe esservi condanna più radicale delle mollezze del vivere moderno, sfrenata esaltazione del consumismo e del produttivismo più bieco: un vivere sommamente diabolico, parafrasando Plutarco, perché è quanto di più distante dal divino si possa immaginare. torna al testo ^
10- Ricordiamo di passaggio che Plutarco individua una certa superiorità di Licurgo rispetto a Platone, dal lato pratico, per motivi facilmente intuibili. Quel che però più interessa, è che questo andare a ritroso oltre Platone stesso indica a chiare lettere l'intenzione di ripercorrere il filo della tradizione, risalendo indietro nel tempo e però evidenziandone i caratteri atemporali, contro le manie innovatrici degli uomini senza radici e senza principi, sballottati nel flusso del divenire... Plutarco, uomo della tradizione, dedica studi importanti alle correnti che ad essa fanno capo, proprio per far emergere ciò che vi è in esse di più importante, cioè di universale ed impersonale. Egli non voleva certo essere un innovatore, e questo pregio stato scambiato per difetto da certi eruditi che applicano i loro personali pregiudizi allo studio di ciò che da essi è quanto di più distante si possa immaginare, con l'effetto di ottenere un capovolgimento totale dei significati di ciò che viene indagato. torna al testo ^
11- A proposito di significative analogie, si può ricordare che l'apollineo Pitagora aveva fatto costruire a Crotone un tempio alle Muse (cfr. Giamblico, La vita pitagorica). Il culto delle Muse è sempre correlato a quello di Apollo. Plutarco scrive che "accanto ad Apollo ... siedono le Muse e Mnemosine" (Sulla "e" di Delphi, XXI), e che a Delfi esse erano onorate come assistenti e custodi dell'arte profetica (v. Gli oracoli della Pizia, 402 c-d). Analoghi riferimenti si possono ritrovare in Platone, ed infatti l'Accademia era dedita al culto di Apollo e delle Muse. W. F. Otto ha proposto una considerazione che merita il nostro interesse e che sembra lecito introdurre in questo contesto:
«Donde venne ai Greci questa conoscenza degli Dei, dal momento che essi non ebbero né un Mose né uno Zaratustra? La verità è che anche essi ricevettero un annuncio, che pienamente merita il nome di rivelazione: un annuncio divino. [...] Questa illuminazione venne da una Divinità particolare, dalla Musa o dalle Muse, perché le Muse sono una e molte insieme. [...] La Musa è la Dea che annuncia la verità nel senso più alto della parola. I cantori e i poeti chiamano se stessi i suoi servitori, seguaci, o profeti. [...] Le Muse hanno un posto altissimo, anzi unico, nella gerarchia divina. Son dette figlie di Zeus, nate da Mnemosine, la Dea della Memoria. [...] Nell'Inno a Zeus [di Pindaro] si narrava come Zeus, compiuto l'ordinamento del mondo, chiedesse agli Dei, immersi in muto stupore, se ancora mancasse qualcosa alla perfezione. E quelli risposero [...] che mancava una Voce Divina che annunciasse e celebrasse quella magnificenza. E così lo pregarono di procreare le Muse. [...] Nel canto che le Muse vengono cantando risuona la verità del Tutto come realtà pregna del Divino» (Theophania, 1983, pag. 46-47). torna al testo ^
12- Adversus Coloten, 3. Colote, filosofo epicureo, aveva polemizzato contro le altre scuole in un libro dal titolo Secondo la dottrina degli altri filosofi non si può neppur vivere. Ma tale polemica sarebbe impostata in modo sbagliato già in partenza, secondo quanto scrive Plutarco. torna al testo ^
13- Neppur felicemente si può vivere seguendo Epicuro, 1. Anche qui, ci si riferisce a quanto detto nel testo precedentemente citato. torna al testo ^
14- De garrulitate, 1. torna al testo ^
15- Vita di Licurgo, 19. torna al testo ^
16- Platone, Protagora, 342-343. Nel dialogo, si possono trovare altri spunti notevoli: "La filosofia più antica e più viva che in un atro popolo greco si trova a Creta e a Sparta [...] se qualcuno voglia intrattenersi col più inetto degli Spartani, nella maggior parte dei casi troverà che lo Spartano dai suoi discorsi apparirà davvero uomo di nessun valore, solo che poi, dove gli si presenterà l'occasione del discorso, scaglierà, come ottimo arciere, una frase significativa, breve e densa, sì che il suo interlocutore farà la figura di non esser da più di un bambino". torna al testo ^
17- Cfr. Giamblico, La vita pitagorica, già citato. torna al testo ^
18- Delle contraddizioni degli stoici, I. torna al testo ^
19- A un re senza saggezza, 2. torna al testo ^
20- Ci limitiamo a riassumere alcuni principali contenuti di questo saggio, Praecepta gerendae reipublicae: già nelle battute iniziali, Plutarco parla con favore della filosofia "attiva", che comporta necessariamente implicazioni pratiche, e soprattutto politiche, dato il tema in questione. L'attività politica, se rettamente orientata, esige il controllo degli impulsi psichici inferiori che spingono verso l'utilitarismo, in particolare verso i1 desiderio di ricchezza, e, considerato pericoloso e deviante. Inoltre, la giusta politica deve avere una funzione plasmatrice rispetto allo psichismo del popolo: non deve farsi condizionare da esso, al contrario, pur tenendone presenti i caratteri, deve comportarsi nei suoi confronti come la forma rispetto alla materia (il linguaggio aristotelico ci sembra particolarmente adatto al concetto che Plutarco intende esprimere). Ovviamente, per sperare di poter plasmare un popolo intero, il politico saggio deve saper compiere questo atto demiurgico prima di tutto nei suoi stessi riguardi (tema che Plutarco sottolinea a più riprese). Gli incarichi politici (come qualsiasi altro incarico) devono essere distribuiti secondo le capacità, cioè nel rispetto della particolare natura interiore di un essere: in caso contrario, è il caso di ammonire: con il verso di Euripide "essendo legnaiuolo, non attendevi alla lavorazione del legno". torna al testo ^
21- Ammiano Marcellino, Le Storie (XVI, XXV):
«In primo luogo s'impose come legge di vita la temperanza a cui sempre rimase fedele, come se si fosse assoggettato alle leggi suntuarie che, derivate dalle massime di Licurgo e trasportate a Roma, a lungo vi furono osservate. [...] Vietò che gli si acquistassero e gli si imbandissero il fagiano, la vulva e il seno di scrofa e si dichiarò contento dell'umile cibo che il caso offriva ad un semplice soldato. Quindi divise le notti in tre parti dedicandone una al riposo, la seconda agli affari di stato, la terza alle Muse, come era solito fare Alessandro Magno. [...] Si levava sempre a mezzanotte non da un letto di piume o di coltri di seta, ma da una stuoia o da una rozza coperta, per pregare in segreto Mercurio, che le dottrine teologiche insegnano sia la veloce intelligenza cosmica che suscita l'attività delle menti umane. Così, pur essendo privo di ogni comodità, attendeva con profonda competenza a tutti i doveri dello stato. Dopo essersi occupato di affari difficili e importanti, si volgeva ad esercitare l'intelletto [...] e discuteva sapientemente di tutte le parti della filosofia. [...] Uomo certamente degno di essere annoverato fra i geni eroici, ammirabile per le illustri imprese e per l'innata maestà. Poiché, a giudizio dei sapienti, quattro sono le virtù principali, la temperanza, la saggezza, la giustizia e la fortezza, alle quali si aggiungono altre doti esteriori quali la scienza militare, la buona fortuna e la liberalità, Giuliano con vivissima zelo le coltivò sia tutte assieme che singolarmente. [...] Si mostrava censore rigidissimo nel regolare i costumi, sereno spregiatore delle ricchezze e di tutte le cose mortali». torna al testo ^
22- "Gran parte del tempo trascorso a Vienne fu dedicato allo studio dei Commentari di Cesare e delle Vite di Plutarco".
"Giuliano era molto appassionato alle opere di Plutarco, come si può dedurre dal grande numero di richiami ad esse in tutti i suoi scritti, in particolare nei Cesari".
"È da ricordare che il Nuna di Plutarco e ripreso alla lettera da Giuliano" (Athanassiadi-Fowden, L'imperatore Giuliano, 1984, pag. 68, 295, 296, 192). torna al testo ^
23- Nella Lettera al filosofo Temistio, Giuliano cita Catone Uticense e Dione, facendo capire di aver presente le rispettive Vite di Plutarco. In Misopogone dichiara di aver cercato di imitare la tempra filosofica del saggio di Cheronea. In Contro i cani ignoranti nomina Plutarco quale autore di una Vita di Cratete.
In Contro il cinico Eraclio indica le narrazioni di Plutarco quali fonti di insegnamento sul tema del mito. torna al testo ^
24- Eunapio di Sardi (XV sec. D. C. ), nel proemio all'unica sua opera sopravvissuta, Le vite dei filosofi, parla del "divino Plutarco", definito anche "Venere e lira di tutta la filosofia".
Merito dell'opera è quello di sottolineare l'importanza, ai fini filosofici, delle vite concrete, vissute, soffermandosi soprattutto sui neoplatonici successivi a Plotino: Porfirio e Giamblico in primo luogo, e poi i filosofi legati alla cerchia di Giuliana Imperatore (Edesio, Massimo, Crisanzio, Prisco, il medico Oribasio, ... ). Eunapio avrebbe scritto un'opera a carattere storico più vasta, comprendente tra l'altro anche le gesta di Giuliano Imperatore: essa non è purtroppo pervenuta, come molte altre opere filoelleniche, probabilmente a causa dell'intolleranza cristiana. torna al testo ^

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