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sabato 25 maggio 2019

Paolo Cognetti. Le otto montagne. La montagna non è solo nevi e dirupi, creste, torrenti, laghi, pascoli. La montagna è un modo di vivere la vita. Un passo davanti all'altro, silenzio tempo e misura.

La montagna non è solo nevi e dirupi, creste, torrenti, laghi, pascoli. 
La montagna è un modo di vivere la vita. Un passo davanti all'altro, silenzio tempo e misura.
Paolo Cognetti, Le otto montagne. 


Ormai avevo imparato a fare le domande degli adulti, in cui si chiede una cosa per saperne un'altra.
Paolo Cognetti, Le otto montagne
Vincitore Premio Strega 2017


Stavo imparando che cosa succede a uno che va via: che gli altri continuano a vivere senza di lui.
Paolo Cognetti, Le otto montagne. 


Per calmarmi cercai un'immagine nella mia testa. Pensai al torrente: alla pozza, alla cascatella, alle trote che muovevano la coda per restare immobili, alle foglie e ai rametti che correvano oltre. E poi alle trote che scattavano incontro alle loro prede. Comincia a capire un fatto, e cioè che tutte le cose, per un pesce di un fiume, vengono da monte: insetti, rami, foglie, qualsiasi cosa. Per questo guarda verso l'alto in attesa di ciò che deve arrivare. Se il punto in cui ti immergi in un fiume è il presente, pensai, allora il passato è l'acqua che ti ha superato, quella che va verso il basso e dove non c'è più niente per te, mentre il futuro è l'acqua che scende dall'alto, portando pericoli e sorprese. Il passato è a valle, il futuro a monte. Ecco come avrei dovuto rispondere a mio padre. Qualunque cosa sia il destino, abita nelle montagne che abbiamo sopra la testa.
Paolo Cognetti, Le otto montagne


La matematica funziona perché non è la vita. E’ bella perché ha sempre ragione o perché tu non hai i mezzi per darle torto, che è la stessa cosa. Ne dico una qualunque: due rette parallele non si incontrano mai. A me piace dirlo e a te piace crederlo, perché nient'altro nella tua vita resiste così bene al problema del tempo.
Paolo Cognetti,  Manuale per ragazze di successo


Dice la nonna che la vita degli adulti comincia con una bugia. L'adolescenza, per quanto la riguarda, è solo un'invenzione borghese. C'è un'età dai segreti innocui, ma quelli cadono come i denti da latte, e i segreti che crescono dopo sono minati da una carie inconfessabile. Sesso. Perciò ecco dimostrato il suo teorema: la vita degli adulti è arte del mentire.
Paolo Cognetti, da “Una cosa piccola che sta per esplodere”


Quando un Sioux nasceva, i suoi genitori gli davano una specie di nome provvisorio. Tanto per sapere come chiamarlo finchè era piccolo, mi segui? Ma quando diventava grande, e la sua natura si rivelava, lo sciamano della tribù lo osservava per un po’ di tempo e alla fine trovava il nome giusto per lui. Ma non era lo sciamano a scegliere il nome, era il nome a rivelarsi. Lo sciamano era soltanto un bravo osservatore. Capisci la differenza? Lo capisci che nessuno può decidere chi sei?
Paolo Cognetti


Se le città fossero opere d'arte, e i secoli gli artisti che le hanno create, New York sarebbe il capolavoro del Novecento. In nessun'altra quel vecchio matto ha messo così tanto di sé. In nessuna possiamo rileggere altrettanto bene che cosa il Novecento è stato: in quali idee credeva, di quali mali soffriva, che sogno di felicità inseguiva, quali incubi lo tormentavano, che cosa ha lasciato di prezioso al mondo e in cosa si è sbagliato, lasciando solo macerie. New York racconta questa storia a chi la attraversa con occhi attenti. Camminare tra il Lower East Side e il Greenwich Village, o pedalare su per Broadway fino a Times Square, o costeggiare l'isola in traghetto da Harlem alla Battery, è come assistere a un'epopea che nasce nell'età del transatlantico e delle grandi migrazioni, supera anni ruggenti, anni ribelli, anni di opulenza e anni di crisi nera, e finisce la mattina d'inizio millennio in cui qualcuno immaginò di distruggere New York.
Da “Perdersi a New York”, prefazione di Paolo Cognetti alla raccolta “New York Stories”.


Non è mica quel grande salto che tutti pensano, mi ha detto. 
New York è solo un altro tipo di solitudine.
Proprio così, Simone: il punto non è il paesaggio che hai intorno, ma il modo in cui ci vivi dentro. Le parti di mondo che osservi più spesso sono quelle in cui riesci a rifletterti, le cose che ti colpiscono sono scoperte di te. Probabilmente amo New York per questo: perché, tra le infinite città che contiene, ce n'è anche una che mi assomiglia come se l'avessi inventata io. Io preferisco la mattina presto alla sera tardi. Preferisco i margini di Brooklyn a tutti i possibili centri di Manhattan. Preferisco i marciapiedi deserti alle strade gremite, le vecchie fabbriche in mattoni rossi ai grattacieli. Non è New York a essere così, sono io. Il marciapiede deserto sono io. La fabbrica in mattoni rossi sono io.
Paolo Cognetti, Tutte le mie preghiere guardano verso ovest


mercoledì 22 maggio 2019

Jean Vanier. Essere umani significa sapere come essere in relazione. Ed essere in relazione è dire all’altro: "Raccontami la tua storia, spiegami le tue ferite, dimmi dov’è il tuo cuore, che cosa davvero desideri".

Essere umani significa sapere come essere in relazione. Ed essere in relazione è dire all’altro: 
"Raccontami la tua storia, spiegami le tue ferite, dimmi dov’è il tuo cuore, che cosa davvero desideri".
Jean Vanier


Si ha l'impressione, in questo mondo, di non esistere se non si riesce.
Ma il fondo dell'essere umano è la relazione.
Jean Vanier


Meglio sapere chi siamo realmente, conoscere le tenebre che ci abitano, accettarle e affrontarle, piuttosto che pretendere che non esistano e organizzare la vita in modo tale che esse restino nascoste. 
In questo modo non faranno altro che aggravarsi e governeranno la nostra vita a livello inconscio fino a quando, forse, riappariranno sotto un'altra forma.
Jean Vanier

sabato 11 maggio 2019

Kant. Francesco Lorenzoni

Nicola Abbagnano  - Giovanni Fornero
con la collaborazione di Giancarlo Burghi
L'ideale e il reale
corso di storia della filosofìa

KANT

Collocandosi tra Illuminismo e Romanticismo, Kant riconosce alla ragione il compito di condurre una "critica" intorno ai fondamenti di ogni esperienza e di ogni facoltà umana.

Dal periodo precritico al criticismo.
Nel "periodo precritlco" Kant effettua ricerche in campo naturalistico, per poi avvicinarsi all'empirismo Inglese e affermare un nuovo punto di vista sulla metafìsica, intesa come scienza dei limiti della ragione.


La Critica della ragion pura.
Riguardo al problema della conoscenza, Kant ribalta i rapporti tra soggetto e oggetto, affermando che non è l'uomo a dover adattare le proprie facoltà percettive ai fenomeni per comprenderli, ma la natura a modellarsi sulle facoltà che sono proprie della struttura conoscitiva umana. Applicata ai fondamenti del sapere, la "critica" kantiana è volta ad appurare quali ambiti siano genuinamente conoscibili.

La Critica della ragion pratica.
Anche nell'ambito della ragione pratica, che regola i comportamenti morali dell'uomo, l'assunto antropocentrico di fondo rimane invariato: la morale non sta fuori dell'uomo, ma è dentro di lui.


La Critica del Giudizio.
Nella Critica del Giudizio Kant studia il sentimento come facoltà mediante la quale l'uomo fa esperienza di quella finalità del reale che la ragion pura esclude programmaticamente e la ragion pratica si limita a ipotizzare sotto forma di postulati.

Religione e diritto.
Per quanto concerne la filosofìa della religione e la filosofìa del diritto anche in questi campi Kant propone originali contributi, che sono stati rivalutati soprattutto dalla critica contemporanea.


Il criticismo come "filosofia del limite" 
e l'orizzonte storico del pensiero kantiano.

Il pensiero di Kant è detto criticismo perché, contrapponendosi all'atteggiamento mentale del "dogmatismo" - che consiste nell'accettare opinioni o dottrine senza interrogarsi preliminarmente sulla loro effettiva consistenza, fa della critica lo strumento per eccellenza della filosofia. 

"Criticare", nel linguaggio tecnico di Kant, significa infatti, conformemente all'etimologia greca, "giudicare", "distinguere", "valutare", "soppesare" ecc., ossia interrogarsi programmaticamente circa il fondamento di determinate esperienze umane, chiarendone:

■ le possibilità (le condizioni che ne permettono resistenza); 
■ la validità (i titoli di legittimità o non-legittimità che le caratterizzano);
i limiti (i confini di validità).

KANT. Abbagnano - Fornero Vol 2.




Francesco Lorenzoni
31 gennaio 2018

IMMANUEL KANT (1724-1804)
Nasce a Koenigsberg (Prussia orientale) da una famiglia numerosa e di modeste condizioni; il padre è un artigiano. Frequenta dapprima un collegio protestante e poi l'università di Koenigsberg, mantenendosi col dare lezioni private. Studia matematica, scienze naturali, letteratura latina, teologia e filosofia. I suoi interessi iniziali sono soprattutto di natura scientifica; solo in seguito si volge alla filosofia. Insegna come libero docente e poi come ordinario di logica e metafisica presso l'università di Koenigsberg.

Vive da celibe ma è molto aperto alla vita sociale e con uno spirito cosmopolita. La sua giornata è scandita secondo ritmi estremamente regolari. Scrive le sue opere principali in età matura, acquistando notorietà. Nell'ultimo periodo della vita si dedica a riflessioni sulla politica, sul diritto e sulla religione. Muore compianto dai concittadini.

Opere principali: Critica della ragion pura; Critica della ragion pratica; Critica del giudizio

Kant è sovente illustrato come filosofo dal duplice aspetto, una grande personalità che vive a cavallo tra la civiltà dell’Illuminismo e quella del Romanticismo. Si può considerare il più conseguente degli illuministi che, nello stesso tempo, apre le prospettive dell’età successiva. 

Riprende ed esalta la fiducia nella razionalità, caratteristica fondante dell’Illuminismo, portandola all’estremo: la ragione, dopo avere giudicato con l’Illuminismo la storia, la religione, l’autorità della tradizione, i miti e le credenze dei popoli, sottopone ora a giudizio anche se stessa

La “Critica della ragion pura” è una sorta di tribunale in cui il giudice delle capacità conoscitive dell’uomo è la razionalità medesima

L’Illuminismo aveva concepito la ragione in termini che da Kant vengono problematizzati poiché esso, pur divinizzandola, nondimeno aveva avuto della ragione una concezione ristretta, limitata alla conoscenza del mondo finito. La manifestazione più emblematica della razionalità illuministica è l’“Encyclopédie” di Diderot e D’Alembert, in cui tutto lo scibile umano è raggruppato voce per voce. Ma ciò dà l’idea di un sapere scomposto, messo insieme in modo puramente sommatorio. 

L’Illuminismo aveva dato per scontato che la ragione non si può avventurare in campi come l’assoluto, la metafisica. Kant è un grandissimo illuminista ma va anche al di là dell’Illuminismo perché, oltre alla “Critica della ragion pratica” e alla “Critica del giudizio”, in cui apre decisamente la strada alla visione romantica del mondo, già nella “Critica della ragion pura” tocca il problema metafisico, dall’Illuminismo trascurato

La filosofia kantiana non esita a confrontarsi con la metafisica e, pur riconoscendo che per le vie tradizionali il discorso metafisico non si può affrontare, aprirà una strada diversa per tentare un discorso sui grandi temi della metafisica: l’anima, il mondo, Dio

Per il vivo senso dei valori e per l’ansia, vissuta, di una trascendenza, Kant non è un angusto empirista. Egli non è un nemico della metafisica, come molti vogliono intendere, ma soltanto di un determinato tipo di metafisica, quella dogmatica dei razionalisti. Contesta l’eccessiva fiducia nei poteri della ragione che aveva portato Cartesio, Spinoza e Leibniz a “sedersi sul trono di Dio”, con la pretesa di vedere tutto “sub specie aeternitatis”. 

Per Kant la metafisica è un’esigenza profondamente radicata nell’essere umano, ma fare della metafisica è una cosa, altra è approdare a certezze assolute. A differenza dai razionalisti, egli è ben consapevole che l’umana ragione, in quanto intelligenza strettamente legata all’intuizione sensitiva, non possiede un’intuizione intellettuale pura, compiuta, capace di cogliere l’assoluto con la sola forza della speculazione teoretica. 

Ciononostante Kant si incammina fiducioso verso la sponda dell’universo intelligibile, ma lo fa trasferendo e collocando più saldamente l’aspirazione metafisica sul versante della ragion pratica e del profondo sentire. L’uomo non è fatto di solo intelletto ma anche di volontà e di sentimento. Corrispondentemente, tre sono i mezzi di cui dispone: la teoria, la prassi e l’estetica

Prima di Kant tutti i metafisici, salvo poche eccezioni, si erano avvalsi del pensiero teorico, puramente speculativo. Kant lo trova inadeguato, ma non per questo si rassegna a fare marcia indietro, tornando all’argine dei soli fenomeni, ad un circoscritto empirismo

Non c’è la sola via teoretica giacché i percorsi della metafisica sono plurimi. L’intelligibile è l’approdo che l’uomo deve pur raggiungere, ancorché per sentieri alternativi, se vuole dare un senso alla propri esistenza. Kant decostruisce la metafisica tradizionale, indefinita, e la sostituisce con una nuova, costruita con gli strumenti della volontà nella prassi e nella condotta morale e del sentimento nel giudizio estetico

Influenzato dalla filosofia di Rousseau, proclama l’autonomia dell'etica rispetto alla metafisica speculativa

L'intelletto è la facoltà che può cogliere il vero ma non il bene, che può essere colto, viceversa, da quell'altra facoltà che è la volontà. Vero e bene non coincidono. Né l’intelletto può cogliere la natura del sentire, appannaggio dell’avvertire estetico.

Preliminare tuttavia alla nuova metafisica è pur sempre la gnoseologia, cui Kant dedica la prima e, per molti versi, la più significativa delle sue grandi opere: “La critica della ragion pura”. 

La filosofia di Kant è chiamata “criticismo”, ovvero filosofia critica, significante analisi, bilancio critico delle facoltà e possibilità conoscitive umane come pure dei limiti connessi. Col criticismo kantiano l’Illuminismo raggiunge il suo culmine e viene superato, ma raggiunge il suo culmine anche la filosofia moderna nella sua interezza, inaugurata da Cartesio. 

La filosofia moderna del Seicento e del primo Settecento si era espressa nei due filoni dell’empirismo e del razionalismo. Kant, in due momenti successivi della sua vita di studioso, è dapprima razionalista, poi empirista. La lettura di Hume, del grande empirista inglese, lo risveglia dal “sonno dogmatico”, dall’adesione al razionalismo, e lo convince del fatto che la conoscenza ha sempre a che fare prima di tutto con l’esperienza sensibile

Kant si confronta con i due secoli che l’hanno preceduto superandoli: il criticismo kantiano non si può cogliere se non come superamento delle due scuole di pensiero antecedenti che, una per un verso, l’altra per l’altro, avevano portato a uno scacco del metodo filosofico e del metodo scientifico.

Per quanto riguarda l’empirismo è noto che Hume ha dovuto fare professione di scetticismo: se mi affido alla conoscenza sensibile, è chiaro che non riuscirò mai ad arrivare a una conoscenza universale e necessaria; sarò sempre costretto a riferirmi ad un ambito limitato e, in fondo, al predominio della mia stessa esperienza personale. 

Hume, con la critica dell’idea di causa, aveva sgretolato le basi stesse della scienza, fondata eminentemente sul principio di causalità nell’intento di teorie valide e condivise. Addirittura, Hume giunge a dire che soltanto affidandosi al buon senso si può dire che domani sorgerà il sole. Dalla prospettiva dell’empirismo non si può avanzare nessuna anticipazione certa sui fenomeni futuri, ma la scienza mira anche alla previsione. 

Il razionalismo, a sua volta, era arrivato a uno scacco di carattere diverso ma ugualmente dannoso per la scienza: col suo metodo del tutto opposto, basato sulle conoscenze a priori, non riusciva a spiegare come da costruzioni puramente aprioristiche si può operare il salto al mondo a posteriori dell’esperienza. Si poneva su un piano di universalità tuttavia astratta, fondata su asserzioni non verificabili; si irrigidiva nel “dogmatismo”, nella pretesa di validità, non dimostrata, delle deduzioni a priori

Nella seconda metà del Settecento, di fronte alla crisi di queste due scuole di pensiero, si erge la figura di Kant che demolisce e supera empirismo e razionalismo. Il conoscere, dice Kant, è giudicare. Si ha conoscenza scientifica quando si collega un soggetto con un predicato, consistendo la conoscenza in una concatenazione di giudizi. Analizzando come funzionano i giudizi nell’empirismo e nel razionalismo, Kant ne mette in rilievo la debolezza. 

Scrive Kant: "Due cose riempiono l'animo di ammirazione e di reverenza sempre nuove e crescenti: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me". Il cielo stellato è la natura, scientificamente conoscibile ma nei limiti dei fenomeni. Tuttavia è anche quella natura preordinata alla libera volontà, attuativa della legge morale, che rende l'uomo degno fra gli altri esseri. Altrettanto, in quella natura l'uomo avverte il proprio destino, votato all'infinito in unione con la sconfinata volta celeste. In questo slancio Kant si accinge, ormai, a trascendere gli orizzonti dell'Illuminismo per giungere alle soglie del Romanticismo, tutto proteso, nella sua poesia e nella sua filosofia, a varcare i confini del finito per immergersi nell'infinità del Tutto.


Francesco Opuštěný Maddalena 
Mi permetta un piccolo appunto: l'ultima citazione è posta al termine della "critica della ragion pratica", non della pura :)


Sandra Flora Lombardi:
Kant al quale piaceva cucinare, invitava a cena un doganiere e con lui si aprivano delle fruttuose dispute filosofica: Kant insisteva con la "FISICA .:".Spazio e tempo " ed il doganiere che era Hamman ribadiva l'importanza della parola....e cos' nacque la "LINGUISTICA ROMANTICA ..... 


Giuseppe Arena 
Ciò che mi colpisce e mi affascina di più in Kant,al di là del suo pensiero é: la sua UMILTA'. Egli visse nel periodo dello scientismo e voleva fare della filosofia una scienza. Spiegò benissimo scientificamente il fenomeno, cioé, ciò che appare e può essere dimostrato. Ma non riuscì a dare una spiegazione al noumeno, a ciò che non appare, che può essere solo intuito e pensato,ma non provato, ad esempio, Dio. Ed allora, invece di abbandonarsi a disquisizioni metafisiche senza fine, come avrebbe fatto qualche altro filosofo, lascia, nel dubbio, il suo imperativo categorico: comportati bene. Eppoi, quanta umiltà e grandezza c'é nella sua frase, scritta sulla sua tomba.
"Due cose riempiono l'animo di ammirazione e di reverenza sempre nuove e crescenti: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me
Grande Kant!


KANT: LA CRITICA DELLA RAGION PURA 3

La logica trascendentale
La logica trascendentale è per Kant la scienza riguardantele regole del pensiero.

Tuttavia, a differenza della logica tradizionale che riguarda i principi in base a cui si pensa e si ragiona (principio di identità, di non contraddizione, ecc.) a prescindere dagli oggetti o argomenti cui tali principi vengono applicati, sappiamo che la logica trascendentale riguarda invece, in Kant, i rapporti tra il pensiero e i suoi oggetti, i suoi contenuti.

Kant suddivide la logica trascendentale in analitica trascendentale e in dialettica trascendentale.

L'analitica trascendentale
L'analitica trascendentale è la scienza che studia le forme a priori, cioè i modi, della conoscenza intellettiva, susseguente alla conoscenza sensibile.

Nella conoscenza sensibile le singole sensazioni non sono ancora connesse fra loro:
c'è la sensazione del marrone, del liscio, del solido, del quadrato o del rotondo, ma non vi è ancora niente che colleghi tra di esse queste sensazioni formando il concetto di tavolo.

La funzione del connettere le diverse sensazioni per formare i concetti, i quali permettono una conoscenza più completa delle cose, è svolta dal secondo tipo di conoscenza, ovvero dalla conoscenza intellettiva, dall'intelletto, che organizza le sensazioni e le unifica concettualizzandole. Le sensazioni in se stesse non possono essere oggetto di pensieri concettuali perché esse, per loro natura, sono intuitive e immediate, mentre i pensieri sorgono solo in esito al collegamento di sensazioni.

L’intelletto è facoltà capace di emettere giudizi, di attribuire predicati al soggetto, e quindi di conoscere in maniera più piena.

Va peraltro sottolineato che l’intelletto, essendo per Kant una facoltà che unisce solo singoli predicati soltanto a singoli soggetti, si muove in una dimensione confinata, dà luogo a una visione del mondo frazionata; non giunge alle grande sintesi che invece costituiscono l’ambizione metafisica della ragione, mirante a cogliere i fondamenti e la totalità del mondo.

A differenza dell'intuizione, l’intelletto è una facoltà discorsiva:
vuol dire che procede gradualmente, per connessioni successive da una conoscenza parziale ad un'altra meno parziale, tuttavia pur sempre incompleta, percorrendo incessantemente la catena dei rapporti di causa-effetto con limite tendente a infinito ma senza mai raggiungerlo.

L'intelletto non è in grado di cogliere l'intera serie causale nella sua illimitatezza, non il punto di partenza primo né il punto di arrivo ultimo. Arriverà sempre ad uno stadio che considererà come punto di arrivo o di partenza momentaneo e provvisorio.

In tal senso l'Idealismo tedesco, corrente filosofica che si manifesterà nel corso del Romanticismo, criticherà Kant sostenendo che la sua è solo una "filosofia del finito", che rinuncia all'aspirazione e alla possibilità di abbracciare "l'infinito", la "totalità" della realtà.

Ma anche la conoscenza intellettiva per essere valida deve essere trascendentale, universale e necessaria, basata su giudizi sintetici a priori; applicata chiaramente all'esperienza, alle sensazioni, per quanto riguarda il contenuto ma indipendente da essa per quanto riguarda la forma, il modo di funzionare dell'intelletto, che non dipende dall'esperienza bensì, si è visto, dal soggetto. Sennonché l'intelletto, precisa Kant, per essere veramente trascendentale non può limitarsi a collegare tra di esse le sensazioni trasformandole in concetti ordinari poiché essi sono astrazioni ricavate dall'esperienza e, quindi, non sono indipendenti da essa. L'intelletto fa di più: collega le sensazioni e le trasforma non in concetti ordinari ma in "concetti puri", ossia effettivamente indipendenti dall'esperienza e dunque universali e necessari. Kant chiama "categorie" i concetti puri. Ad esempio, mentre quello di "uomo" è un concetto ordinario perché astraggo, ricavo dall'esperienza dei vari uomini concreti le caratteristiche comuni, le categorie riguardano invece i soli modi del conoscere a prescindere dai contenuti empirici; non derivano dall'esperienza, non sono negli oggetti ma nel soggetto, nella mente, e pertanto sono davvero trascendentali, universali e necessarie. Ricavandole dallo sviluppo gnoseologico, ovvero dalla storia della conoscenza umana, le categorie kantiane, forme a priori dell'intelletto, sono enumerate in dodici tipologie, in sostanziale corrispondenza alle categorie già indicate da Aristotele. Però, mentre per Aristotele le categorie hanno valore non solo gnoseologico ma anche ontologico, sono anche nelle cose, esistono nella realtà, con Kant invece le categorie perdono ogni consistenza ontologica. Ne risulta in tal senso riformulato, analogamente ai filosofi empiristi, il concetto di sostanza, kantianamente considerata non più come realtà oggettiva bensì come categoria mentale a priori, come schema operativo dell'intelletto. Similmente a Hume, anche Kant afferma che sia della sostanza sia del concetto di causa non si ha esperienza, aggiungendo però che ciò non è senza valore poiché, anzi, esse sono le condizioni (le forme) necessarie ed universali della stessa esperienza.
Le categorie kantiane sono una novità rivoluzionaria assolutamente diversa dalla maniera aristotelica e classica di intenderle. Non sono i frutti supremi dell’astrazione, l’ultimo residuo dell’astrazione dal particolare all’universale, bensì meccanismi di connessione dei dati, funzioni dell’intelletto che congiungono soggetti con predicati. In particolare sono “trascendentali”: sono, vale a dire, procedimenti connettivi che si esercitano soltanto su un materiale già elaborato nelle forme dello spazio e del tempo. In altri termini le categorie, così come non sono astrazioni indotte dall’esperienza, neppure sono idee innate, bensì modalità funzionali dell’intelletto che entrano in gioco quando hanno un materiale concreto da poter riordinare, da mettere insieme. Le categorie più importanti sono quelle di sostanza, di causa-effetto (causalità), di relazione reciproca, di unità, di pluralità, di possibilità, di necessità, di contingenza. Il nostro intelletto, ad esempio, funziona in modo tale da riferire e far corrispondere tutte le caratteristiche di un uomo (altezza, colore, occhi, peso, ecc.) ad un'unica sostanza (a quell'uomo lì e non ad un altro); altrettanto, fa corrispondere l'arrivo della luce del giorno ad una causa che è il sorgere del Sole, e così via.
Si pone a questo punto il problema di come le categorie dell’intelletto, che sono a priori, possano applicarsi ai dati sensibili, che sono a posteriori. In una parte più complessa della Critica della ragion pura, intitolata “Schematismo trascendentale”, Kant cerca di evitare che possa essergli rivolta quella stessa accusa di dogmatismo da lui indirizzata ai razionalisti. Egli individua un ponte fra intuizione sensoriale e intelletto, un elemento comune nelle sensazioni e nelle categorie che colmi il divario che sembra separare il sensibile dalle categorie trascendentali. Questo ponte è dato dal tempo, il quale è sia intuizione sensibile a priori ma sia anche criterio di immaginazione e di ideazione delle categorie; è il modo in cui le categorie sono pensate. L'intelletto opera nel tempo grazie ad una facoltà specifica chiamata "immaginazione produttiva" per significare la maniera in cui l’intelletto, producendole, immagina le categorie; è definita immaginazione perché non è una facoltà puramente intellettuale ma ha a che fare pure con la sensibilità, è funzione intermedia tra la sensibilità e l'intelletto; è definita produttiva perché produce spontaneamente i modi di pensare le categorie. Infatti la sostanza, come categoria, è immaginata (immaginazione produttiva) come permanenza nel tempo (la sostanza di ogni ente è appunto ciò che permane pur nel divenire e trasformarsi del suo stesso aspetto esteriore); altrettanto, la causalità è immaginata come successione nel tempo; la realtà come esistenza in un determinato tempo; la necessità come esistenza in ogni tempo; la quantità come numero che si distribuisce nel tempo; la qualità come presenza o assenza o intensità dei fenomeni nel tempo. Kant, si è visto, definisce il tempo come la forma del senso interno (della coscienza). Ma, poiché pure tutti i dati del senso esterno ci giungono attraverso il senso interno, il tempo si configura, indirettamente, anche come forma del senso esterno, cioè come la maniera universale attraverso la quale percepiamo tutti gli oggetti: il tempo è forma universale dell'esperienza. Consegue che, se non ogni cosa è nello spazio, come ad esempio i sentimenti, ogni cosa è però nel tempo in quanto è nel tempo che accade e si manifesta. Si spiega in tal modo la denominazione di “schematismo trascendentale”assunta da Kant. Rispetto ad ogni categoria, o concetto puro, l'immaginazione produttiva produce, ponendolo nel tempo, il relativo schema trascendentale: gli schemi trascendentali sono le categorie calate nel tempo. Così Kant pone il problema: «Ora è chiaro che ci ha da essere un termine, il quale deve essere omogeneo da un lato con la categoria e dall’altro col fenomeno, e che rende possibile l’applicazione di quella a questo». Il tempo è omogeneo tanto al dato sensibile quanto alla categoria. Il tempo è la forma trascendentale a priori dell’intuizione che dà forma a tutte le esperienze, sia quelle interiori sia quelle esterne in quanto interiorizzate. Non c’è dunque dato sensibile fornito dall’intuizione all’intelletto che non sia in una forma temporale. Ma il tempo è anche lo schema costitutivo delle categorie, ognuna delle quali, come sopra osservato, può essere ricondotta a uno schema temporale. Il tempo è perciò il fattore che lega insieme dati sensibili e categorie, realtà empirica concreta e concetti puri, rendendo così possibile l’applicazione delle categorie a priori dell’intelletto ai dati sensibili percepiti a posteriori.
Ebbene, poiché le scienze fisiche e naturali si fondano proprio sulle categorie (in particolare sulle



23 febbraio 2018

KANT: LA CRITICA DELLA RAGION PURA 5
La dialettica trascendentale e le idee della ragione.
La dialettica trascendentale è l'ultima parte della "Critica della ragione pura"

Essa non studia più l'intelletto e le sue forme a priori (i suoi modi di funzionare), esaminati nella analitica trascendentale, ma studia invece la ragione e le forme a priori di quest'ultima, chiamate da Kant "idee della ragione", per verificare se anch'esse sono valide o no.

Kant, si è visto, distingue nettamente tra intelletto e ragione
l'intelletto ha come oggetto i fenomeni, che sono realtà finite e limitate; inoltre procede gradualmente, "discorsivamente", una conoscenza dopo l'altra, senza mai giungere però ad una conoscenza piena e totale; la ragione ha invece come oggetto non il finito ma l'infinito e l'assoluto; aspira a conoscere le cose in sé, i noumeni, per Kant non conoscibili, nonché a cogliere direttamente, intuitivamente, in un colpo solo, i principi primi e i fini ultimi della totalità del reale. L'ambito della ragione è dunque più ampio di quello dell'intelletto. La tendenza della ragione umana ad andare oltre l'esperienza, oltre i limiti fenomenici, verso l'infinito e verso i noumeni, riconosce Kant, è un irresistibile ed insopprimibile bisogno dello spirito umano; tuttavia questa tendenza è un illusione ed un errore, posta l’inconoscibilità dei noumeni. Perciò Kant definisce questa tendenza "illusione trascendentale".

La dialettica trascendentale è per l'appunto la critica degli errori e delle illusioni della ragione
Tali errori sono chiamati da Kant "paralogismi", termine che significa ragionamenti difettosi, idee sbagliate della ragione. Tre sono le principali idee sbagliate della ragione:
1. l'idea dell'anima, ossia la pretesa della ragione di conoscere la sostanziale natura dell'anima, idea sulla quale è basata la psicologia razionale; 
2. l'idea del mondo, ossia la pretesa di conoscere la totalità del mondo, la sua essenza, il fine e il senso del mondo, idea su cui è basata la cosmologia razionale;
3. l'idea di Dio, ossia la pretesa di dimostrare e di conoscere direttamente la realtà e la natura di Dio, idea su cui è basata la teologia razionale.
Queste tre idee, riguardanti l'anima, il mondo e Dio, corrispondono alle tre parti classiche, sopra indicate, in cui è suddivisa la metafisica tradizionale: psicologia razionale, cosmologia razionale e teologia razionale. Pertanto la critica delle idee errate della ragione costituisce la critica della metafisica nel complesso.

L'idea dell'anima.
L'errore della ragione metafisica sta nel concepire l'anima non già come Io-penso, come coscienza, ovvero come attività e superiore modo di funzionare dell'intelletto unificante le sensazioni e le categorie, bensì come "sostanza" realmente esistente, spirituale ed immortale, ossia come "cosa in sé"

Ma per Kant, si è visto, la sostanza non è una realtà esistente, non è una cosa in sé, bensì una categoria, una funzione, uno strumento di conoscenza. È vero, ammette Kant similmente a Cartesio, che siamo coscienti di noi stessi come esseri pensanti ma, diversamente da Cartesio, non apprendiamo l'essenza della coscienza pensata come anima che, in quanto noumeno, è inconoscibile. Noi ci conosciamo solo come fenomeni ma non intendiamo la sostanza dell'anima; potrebbe anche esserci però non è conoscibile. Per Kant il "cogito" di Cartesio è solamente coscienza di noi stessi e non conoscenza dell'anima. Di conseguenza, né lo spiritualismo (l'anima è sostanza spirituale) né il materialismo (l'anima è sostanza materiale) hanno valore di scienza: sono soltanto inconoscibili idee metafisiche.

L'idea del mondo
Anche qui l'errore della ragione sta nel concepire il mondo non già come un semplice insieme di fenomeni e di fatti quali ci appaiono, ma invece come sostanza nella sua totalità, come entità metafisica, cosa in sé, di cui poter cogliere i principi primi e il fine. Invece non solo è impossibile fare esperienza della totalità dei fenomeni, ma inoltre, quando si pretende di passare dalla conoscenza fenomenica del mondo alla conoscenza della totalità delle cose in sé del mondo, nella ricerca del fondamento e del senso dell’universo, si incorre in una serie di antinomie, di contraddizioni insanabili, le cui opposte affermazioni od opinioni, poiché non conoscibili, possono essere ugualmente vere od ugualmente false, possono essere ugualmente affermate o negate.
Le principali antinomie sono del tipo:
• Il mondo è finito o infinito?
• Il mondo e le parti che lo costituiscono sono divisibili all'infinito, scomponibili e riducibili infinitamente in parti sempre più semplici, oppure si finisce col giungere a parti semplici (gli atomi) che non possono essere ulteriormente suddivise?
• Nel mondo vi è finalismo e libertà oppure vi è solo meccanicismo e necessità, solo determinismo?
• Nel mondo c'è o non c'è un essere assolutamente necessario, Dio, quale causa esterna di esso (trascendenza divina) o come sostanza e principio interno animatore del mondo (panteismo e immanentismo)?
Poiché queste domande riguardano sostanze, cose in sé che non possiamo conoscere, ad ognuna di esse si può rispondere sia positivamente che negativamente. Non ci può essere risposta certa; sono domande metafisiche ma non scientifiche.
L'idea di Dio
Più che un'idea, dice Kant, questo è un ideale, anzi è l'ideale per eccellenza mediante il quale viene concepito l'Essere (il Noumeno) supremo, che ha completamente in se stesso la propria causa e la propria determinazione e nel quale sono pensate coincidenti essenza ed esistenza. Invece anche l'idea di Dio che formiamo con la ragione ci lascia nella totale ignoranza circa la sua esistenza.
Kant analizza le tre principali prove dell'esistenza di Dio elaborate dalla metafisica classica:
1. la prova cosmologica, che parte dall'esperienza del mondo e risale a dimostrare Dio come causa del mondo, come principio creatore e animatore del mondo;
2. la prova fisico-teleologica, che parte dalla visione dell'armonia e della bellezza del mondo per risalire e giungere a dimostrare Dio come il fine e senso ultimo del mondo;
3. la prova ontologica (quella di Anselmo d’Aosta); mentre le prime due sono a posteriori, poiché partono da realtà mondane esperite, la prova ontologica è a priori, poiché parte invece dall'idea di Dio come essere assolutamente perfetto, per cui allora, se perfettissimo, deve per forza possedere tutte le perfezioni e quindi, necessariamente, deve possedere anche l'esistenza.
Le prime due prove sono però riconducibili, secondo Kant, alla terza di modo che, se si mostra che quest'ultima è errata, risultano sbagliate anche le prime due. Infatti, dice Kant, anche quando si concepisce Dio come causa del mondo (prima prova) o come fine del mondo (seconda prova), bisogna nondimeno dimostrarne preliminarmente l’esistenza, come propone la terza prova. Ma la terza prova cade nell'errore perché un conto è avere l'idea di un essere perfettissimo, un altro conto è che questo essere sia anche davvero esistente. Dall'idea di Dio, seppur inteso come essere perfettissimo, non si può automaticamente e sicuramente ricavarne anche la reale esistenza perché la proposizione, o giudizio, che afferma l'esistenza di una cosa non è analitica, e quindi necessaria (infatti il predicato, cioè l'esistenza di Dio, non è implicito nel soggetto, ossia nell'idea di Dio), ma è invece una proposizione sintetica a posteriori, per cui il predicato può essere ricavato solo dall'esperienza; sennonché non possiamo fare esperienza di Dio. L'esperienza è possibile solo nel campo dei fenomeni e non nel campo dei noumeni, mentre Dio è pensato come Noumeno supremo. In altre parole, non è possibile saltare e passare automaticamente dal piano logico, da quello del pensiero (cioè dall'idea di Dio), a quello reale, ontologico (cioè all'esistenza di Dio). La pensabilità di un ente non implica necessariamente anche la sua esistenza. Con ciò Kant non nega l'esistenza di Dio; si limita piuttosto a dichiarare che non si può pretendere di dimostrarne l'esistenza e di conoscerlo razionalmente. Dio non è oggetto di ragione, semmai di fede e, nella prassi, méta e postulato della volontà.
Se dunque tutte e tre le idee della ragione (anima, mondo e Dio), che corrispondono alle tre parti in cui è suddivisa la metafisica, sono sbagliate, non resta allora da concludere che la metafisica non è valida come scienza. Mentre le conoscenze matematiche e fisiche sono valide come scienza, sia pur limitatamente ai fenomeni, la metafisica si rivolge invece ai noumeni. In essa pertanto non sono possibili giudizi sintetici a priori poiché, per essere sintetici, i giudizi devono essere applicabili all'esperienza, ma dei noumeni non si può avere esperienza in quanto solamente pensabili e non conoscibili. Kant è consapevole che la nostra è solo conoscenza e filosofia del finito, dei fenomeni. Ciò nonostante la filosofia deve accontentarsi; non può aspirare ad un sapere metafisico dell'infinito. 
Si conclude così la "Critica della ragione pura".


"Kant non è un angusto empirista. Egli non è un nemico della metafisica ma soltanto di un determinato tipo di metafisica, quella dogmatica dei razionalisti. Contesta l’eccessiva fiducia nei poteri della ragione che aveva portato Cartesio, Spinoza e Leibniz a “sedersi sul trono di Dio”, con la pretesa di vedere tutto “sub specie aeternitatis”. Per Kant la metafisica è un’esigenza profondamente radicata nell’essere umano, ma fare della metafisica è una cosa, altra è approdare a certezze assolute. A differenza dai razionalisti, egli è ben consapevole che l’umana ragione, in quanto intelligenza legata all’intuizione sensitiva, non possiede un’intuizione intellettuale compiuta, capace di cogliere l’assoluto con la sola forza della speculazione teoretica. Ciononostante Kant si incammina fiducioso verso la sponda dell’universo intelligibile, ma lo fa trasferendo e collocando più saldamente l’aspirazione metafisica sul versante della ragion pratica e del profondo sentire. L’uomo non è fatto di solo intelletto ma anche di volontà e di sentimento. Corrispondentemente, tre sono i mezzi di cui dispone: la teoria, la prassi e l’estetica, il senso del bello e del sublime".


Invero Kant non dimostra l'inesistenza di Dio. Afferma invece che sia la sua esistenza come la non esistenza sono entrambe indimostrabili. Dopo aver analizzato la validità e i limiti della ragione, si rivolge per completezza, ma non disperatamente, all'analisi delle altre umane facoltà: la volontà e il sentimento. 


Il termine “critica” viene usato da Kant per designare l’analisi dei processi attraverso i quali la ragione intraprende “la conoscenza di sé”. La “Critica della ragion pura” è per Kant “un tribunale che garantisca la ragione nelle sue pretese legittime, ma condanni quelle che non hanno fondamento, non arbitrariamente, ma secondo le sue eterne ed immutabili leggi”. Con il termine “critica” deve, dunque, intendersi l’analisi della “facoltà della ragione in generale riguardo a tutte le conoscenze alle quali essa può aspirare indipendentemente da ogni esperienza”.



SuperquarkRai
L’universo è buio e silenzioso. Il Sole non splende, la Luna non riflette i suoi raggi. Il cosmo si accende solo quando appare l’uomo con il suo cervello capace di trasformare le onde elettromagnetiche in segnali luminosi e di interpretarli. Piero Angela spiega "una cosa strana e sconcertante".
Piero Angela


Andrea Grieco ha condiviso un post.


Andrea Grieco 
Angela, come la fisica moderna in generale, ha scoperto l'acqua calda. Dice che questa cosa sconcertante non viene mai detta (sic!). Se Angela, che non ha mai preso in considerazione seriamente i filosofi, avesse letto qualcosa dei pensatori del passato, si sarebbe accorto che questa verità è stata già espressa da qualche millennio, e per di più in maniera compiuta e radicale, contrariamente a quanto riesce a fare la fisica moderna, che la riveste di fronzoli incomprensibili.
Se non c'è un occhio che lo vede, una mano che lo tocca, un orecchio che lo ascolta, un naso che lo respira, una lingua che lo gusta e un cervello che lo elabora, l'universo non esiste; e, in pari tempo - attenzione - se non c'è un universo non ci potrebbero essere nemmeno i sensi e l'intelletto che lo percepiscono: le due cose sono correlate.



Aramires Araras 
Kant, critica della ragione pura.
CONCLUSIONE DELL'ESTETICA TRASCENDENTALE di Kant
Ormai noi abbiamo uno dei punti necessari alla soluzione del problema generale della filosofia trascendentale: come sono possibili giudizi sintetici a priori? Cioè intuizioni pure a priori, spazio e tempo, in cui noi, se nel giudizio a priori vogliamo oltrepassare il concetto dato, troviamo quello che, non nel concetto, ma nella intuizione corrispondente può essere scoperto a priori e congiunto con esso sinteticamente. Ma tali giudizi, per questa ragione, non vanno più in là degli oggetti dei sensi, e possono valere soltanto per oggetti di un'esperienza possibile.
(Critica della ragione pura).
Cosa vuole dire Kant con queste parole?


Nicoletta Lui 
Aramires Araras che tutto nasce dall'intuizione e che ogni decodifica della realtà riguarda più il soggetto che l'oggetto.
Io interpreto così questo scritto di Kant.
Alla fine di ogni dissertazione sulla questione della realtà, si giunge inevitabilmente alla "madre delle domande". Giacché l'osservazione sembra generare la realtà, come assume esistenza l'osservatore?🤔

Andrea Grieco 
Concordo con Nicoletta. 
Adesso questo passo è un po' contorto (peculiarità di Kant :( ); ma, conoscendo il filosofo, egli ci vuole dire che, se noi formuliamo un giudizio che oltrepassa l'esperienza data dall'intuizione, non approdiamo a nulla, perché nei concetti si possono ritrovare solo dati immessi dall'intuizione. Questi dati valgono per gli oggetti dell'esperienza, che egli definisce fenomeno, apparenzaTempo e spazio sono, appunto, le forme a priori della sensibilità. Nessuno oggetto senza soggetto, ma nessun soggetto senza oggetto. Kant mette in relazione la realtà empirica del tempo e dello spazio con la loro idealità trascendentaleTutta l'estetica trascendentale è un capolavoro di filosofia, la perla della critica della ragione. Peccato che Kant è un pensatore difficile da leggere, per le sue contorsioni espressive: in ogni caso va fatto lo sforzo!

Carlo Moretti 
La risposta giusta sta nella sospensione del giudizio per inadeguatezza della ragione per le conoscenze attuali con sottrazione di senso al mondo ma potenziamento dei sensi che sono esperienze certe del nostro essere.




Immanuel Kant è il più importante filosofo dell’Illuminismo e nasce in Germania nel 1724. 
Con il suo pensiero pone le premesse per i pensatori idealisti dell’Ottocento, come Hegel. 
I suoi scritti più rilevanti sono la Critica della ragion pura, la Critica della ragion pratica, e la Critica del Giudizio, opere che rinnovano il panorama filosofico di fine Settecento.

Kant, "Critica della Ragion Pratica" e "Critica del Giudizio".
Dopo la Critica della ragion pura, Immanuel Kant (1724 - 1804) precisa - tra la Critica della ragion pratica, 1788, e la Critica del Giudizio, 1790 - gli aspetti morali ed estetici del suo sistema filosofico.

Nella prima opera, naturale prosecuzione del testo più impegnativo, Kant mette al centro della sua riflessione l’agire morale umano, allontanandosi ancora una volta dal relativismo di Humea base del comportamento di tutti gli uomini - da qui, il carattere universale e dal ragionamento kantiano - sta infatti per il filosofo di Königsberg  la famosa “legge morale

Quest’ultima, come legge a priori, distingue tra massime” (regole soggettive che noi stessi ci diamo come codici di comportamento) ed “imperativi”, distinti a loro volta in “ipotetici” e “categorici” (ovvero leggi del dovere, oggettivamente necessarie)

la libertà per Kant deriva proprio dall’esistenza di una legge morale, che deve essere l’unico movente autonomo del nostro agire: come uomini, dobbiamo porci come nostro fine (e non come mezzo) l’umanità in generale.

Nella sezione intitolata Dialettica della ragion pratica vengono poi definite le idee (o “postulati”) della ragion pratica (l’anima, il mondo, e Dio), che rimandano alle antinomie trattate nella Critica della ragion pura, e che ora permettono a Kant di rielaborare la religione in direzione illuministica. sganciandola però dalla morale (secondo la formula: “Religione nei limiti della ragione”). 

Le due Critiche trovano poi il loro completamento (e l’accordo di Natura e Libertà) nel “sentimento”, cui s’associa - in base a ciò che Kant teorizza nella Critica del Giudizio - il giudizio riflettente, che per il filosofo non consiste nell’applicazione delle “categorie” ma in una riflessione su oggetti a cui sono già state applicate le categorie. Il nostro soggetto mira a cogliere l’armonia tra le parti degli oggetti in questione. Il giudizio riflettente (che poi il filosofo distingue in estetico e teleologico) non ha dunque struttura concettuale né valore conoscitivo: il “bello” è allora “oggetto di un piacere disinteressato” e si differenzia dal piacevole, dal vero, e dal buono.

Jacopo Nacci, classe 1975, si è laureato in filosofia a Bologna con una tesi dal titolo Il codice della perplessità: pudore e vergogna nell’etica socratica; a Urbino ha poi conseguito il master "Redattori per l’informazione culturale nei media". Ha pubblicato due libri: Tutti carini (Donzelli, 1997) e Dreadlock (Zona, 2011). Attualmente insegna italiano per stranieri a Pesaro, dove risiede.





FILOSOFIA E SCIENZA
21 marzo 2018 alle ore 19:29 ·

KANT: LA CRITICA DELLA RAGION PRATICA 2

La formula dell' imperativo categorico.
Dopo averne illustrato le caratteristiche e proprietà fondamentali, Kant elenca la formula dettagliata dell'imperativo categorico. Essa consiste in tre regole specifiche:
1. agisci in modo che la massima (l'intento) della tua volontà possa valere sempre come principio di una legislazione universale: ossia agisci in modo che il tuo agire morale abbia valore e forma di legge, non solo per te ma per tutti;
2. agisci trattando gli altri sempre come fine, mai come mezzo;
3. agisci in modo da avere la convinzione che la tua azione sia in applicazione della legge morale universale che è presente nella tua coscienza come in quella di tutti gli altri.

Queste tre formule o regole si possono riassumere in quella classica: "agisci sempre come vorresti che anche gli altri, nella medesima situazione, agissero nei tuoi confronti".

La libertà come condizione dell’azione autenticamente morale.
Solo se la ragione pratica (la volontà) è indipendente, libera, da qualsiasi costrizione ed influenza esterna od istinto soggettivo, possono allora esistere principi morali validi per tutti, universali e necessari

La libertà di contrastare le passioni derivanti dall'esperienza e dalle individuali inclinazioni è la condizione necessaria dell'autentico agire morale: il dovere per il dovere e non l'agire perché forzati dagli impulsi o dalla speranza di ben meritare. L'imperativo categorico si fonda essenzialmente sulla libertà: io posso darmi un dovere solo se sono davvero libero di darmelo, soltanto se sono libero di seguire o non seguire le prescrizioni della ragione. 
Quando Kant dice: "io devo, dunque posso", intende espressamente significare che devo essere libero di fare quel che devo. Ciò non significa che i contenuti, gli scopi delle mie azioni, ad esempio aiutare i deboli, non abbiano alcun valore, ma vuol dire che i contenuti del mio agire non possono mai essere motivazioni prevalenti rispetto alla forma della legge che non è, come nell'esempio riferito, "agisci per aiutare i deboli", ma è "compi il tuo dovere non per questo o per quello bensì per il dovere stesso".

La rivoluzione copernicana nella morale.
Così come i modi di funzionare dell'intelletto devono essere a priori per essere universali e necessari, anche i principi della morale devono essere indipendenti dall’esperienza

Tuttavia, a differenza della "Critica della ragione pura" ove i modi dell'intelletto sono sì a priori ma si applicano all'esperienza, i principi morali, invece, non si applicano e non devono applicarsi all'esperienza, devono oltrepassarla per poter regolare in piena libertà il comportamento e la volontà, a prescindere da ogni condizionamento esperienziale. 

Nella "Critica della ragion pura" Kant ci avverte che la ragione è limitata e che non può andar oltre la conoscenza fenomenica

All’opposto, nella "Critica della ragion pratica" Kant afferma che, proprio per regolare la volontà e il comportamento umano, la ragione pratica non deve rimanere entro i limiti dell'esperienza, non deve applicarsi ad essa bensì porsi al di sopra per non essere influenzata dai desideri e dagli istinti che dall'esperienza derivano. Ciò che importa non è ciò che devo volere ma come devo volerlo. Conta, vale a dire, l'intenzione di compiere sempre ciò che si deve qualsiasi sia l'oggetto e il contenuto dell'azione morale. Se mi comporto bene perché stimolato dall’esperienza di nobili esempi, o perché spero in un premio oppure temo una punizione, questo mio comportamento non è allora un'azione moralmente valida.

Kant compie in tal modo una rivoluzione copernicana anche nel campo della morale perché capovolge le antecedenti dottrine etiche "eteronome”, così definite in quanto facevano dipendere le norme del comportamento morale da cause e motivazioni esterne alla ragione, ossia dai buoni sentimenti, dall’autorità civile o religiosa, o dalla speranza di un premio o dalla paura di una punizione

La morale invece, ribadisce Kant, è autonoma
Non sono i concetti di bene e di male a fondare la morale ma, viceversa, è il principio del dovere per il dovere che distingue il bene dal male. I vari uomini possono avere concetti differenti di bene e di male, mentre l'imperativo categorico ha veste di universalità e di necessità

La rivoluzione copernicana compiuta da Kant anche nel campo della morale fa dell'uomo il legislatore non solo della natura (ragion pura) ma anche del suo comportamento (ragion pratica). Così come non sono i concetti di bene e di male a fondare la legge morale, bensì il contrario, non sono neppure le verità religiose a fondarla; è invece la morale stessa, sia pur sotto forma di postulati come vedremo, a fondare le verità religiose. Dio non sta all'inizio e alla base della morale, ma eventualmente alla fine, come suo possibile completamento, ossia come colui che, infine, può donarci il sommo bene della felicità che, a buon diritto, deve derivare dalla virtù. 

Il modello etico di Kant si distingue nettamente dai precedenti sistemi morali, sia del razionalismo sia dell'empirismo sia dello stesso illuminismo. 

Il razionalismo, pur fondando la morale sulla ragione, l'aveva da ultimo fatta dipendere da una metafisica imperniata su Dio o sull'ordine del mondo

L'empirismo, pur slegando la morale dalla metafisica, l'aveva associata al sentimento (la simpatia in Hume) o all'utilità (utilitarismo). 

L'illuminismo l'aveva a sua volta connessa ad ideali razionali e civili, quali l’autoperfezionamento o l’equo governo. 

La ragion pratica kantiana, invece, basta da sola alla determinazione della volontà quando essa è pura e libera, libertà che non possiamo definire intellettualmente poiché non accertabile, ma i cui effetti possono essere immediatamente avvertiti in noi. Esistono cioè comportamenti che la coscienza riconosce giusti o sbagliati in sé, a prescindere dalla situazione specifica in cui si compiono. L'azione doverosa trova il proprio fine in se stessa e null'altro. Obbedendo alla voce della ragione, obbedisco a una voce che trovo all’interno di me e quindi sono autonomo: mi do la legge da me stesso, non la ritrovo all’esterno ma nell’interiorità, capace di rendersi indipendente dalle pressioni

Sarebbe tuttavia un errore credere che, con ciò, Kant restauri nel campo della morale l'assolutezza della metafisica. La ragione morale è pur sempre la ragione di un essere pensante finito e, quindi, condizionato dalla sua finitudine umana, dalle resistenze della propria natura sensibile. Ma sono proprio tali resistenze che obbligano la legge morale ad assumere la forma del "dovere".

Ficorella Luigi 
Se non sbaglio Kant distingue l'opera in ragione pura pratica e ragione empirica pratica. 
Un'azione è morale se le coinvolge. Quindi ci sono delle massime che richiamano il soggetto e dei principi validi oggettivamente. Il connubio si traduce nell azione morale.

Francesco Lorenzoni
Come ho scritto nel post n. 1, l'opera è suddivisa in analitica della ragione pratica e dialettica della ragione pratica.

Carlo M Mattei 
Traduzione razionale del principio cristiano di amore per il prossimo

Francesco Lorenzoni 
In qualche modo si può convenire, distinguendo tuttavia che in Kant la morale non è espressione di amore ma volontà di assenso al dovere.


Cristian Lorenzetto 
Cmq sul fatto che la morale sia inglobata nella ragione, ne' sono convinto pure io, ma proprio per il fatto che sia comune vedere l'intento morale distaccato da quello razionale, se ne deduce indirettamente che la capacita' razionale dell'essere umano è molto limitata e incapace di vedere i nessi logici tra azione individuale ed azione collettiva. per questo motivo la natura ha in qualche modo bypassato la logica collettiva con il senso del "dovere": come dire mi rendo conto che tu in quanto individuo hai come priorita' la tua conservazione e il tuo bene ma dal momento che con la tua capacita' logica non riesci ad arrivare i nessi con il bene collettivo, te lo impongo con il dovere morale. Probabilmente la teoria kantiana sulla morale potrebbe essere ritornare in auge in questo secolo per due motivi: la teoria economica sta rivedendo i suoi principi per inglobare il bene comune come costo da sostenere, l'intelligenza collettiva potrebbe essere potenziata dalle nuove tecnologie e dalle teorie AI. La morale come ragione finalizzata al bene comune.