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giovedì 21 febbraio 2019

Octavio Paz. Per ogni lingua che si estingue scompare una immagine dell'uomo

La poesia, nel passato, era al centro della nostra società, ma con la modernità si è ritirata ai suoi margini. Io penso che l'esilio della poesia sia anche l'esilio del meglio del genere umano.
Octavio Paz

Per ogni lingua che si estingue scompare una immagine dell'uomo
Octavio Paz (Città del Messico,1914 - 1998)


Imparare a parlare è imparare a tradurre
Octavio Paz (Città del Messico,1914 - 1998)


"la lingua è un'impronta, l'impronta maggiore della nostra condizione umana"
Octavio Paz (Città del Messico,1914 - 1998)

Scopriamo così una verità semplice e doppia: primo, siamo una comunità di popoli che parlano la stessa lingua; secondo, parlarla è un modo, tra i tanti, di essere umani
Octavio Paz (Città del Messico, 1914 - 1998)


E di qui deriva anche il fatto che l’amore è, pur senza intenzione, un atto antisociale, perché ogni volta che giunge a realizzarsi fa a pezzi il matrimonio e lo trasforma in ciò che la società non vuole che sia: la rivelazione di due solitudini le quali creano di per se stesse un mondo che rompe la menzogna sodale, sopprime tempo e lavoro e si dichiara autosufficiente.
Non meraviglia, quindi, che la società perseguiti con lo stesso accanimento l’amore e la poesia, che ne è la testimonianza, e che li emargini nella clandestinità, nel mondo oscuro e confuso del proibito, del ridicolo e dell’anormale. E non stupisce neppure che amore e poesia scoppino in forme strane e pure: uno scandalo, un delitto, dei versi.
Octavio Paz, Il labirinto della solitudine


L'amore è uno degli esempi più evidenti di quel duplice istinto che ci induce a scavare e ad affondare in noi stessi, e, contemporaneamente, a uscire da noi e a realizzarci nell'altro: morte e ricreazione, solitudine e comunione. Ma non è il solo. Nella vita di ogni uomo c'è una serie di momenti che sono anch'essi rotture e unioni, separazioni e riconciliazioni. Ciascuna di queste tappe è un tentativo di trascendere la nostra solitudine, seguita da immersioni in ambienti estranei.
Octavio Paz, Il labirinto della solitudine, “La dialettica della solitudine”


Per realizzarsi l'amore deve infrangere la legge del mondo. Nel nostro tempo l'amore è scandalo e disordine, trasgressione: quella di due astri che rompono la fatalità delle loro orbite e si incontrano a metà dello spazio.
Octavio Paz, da “Il labirinto della solitudine”


Amare è lotta, quando due si baciano
il mondo cambia, i desideri si incarnano,
anche il pensiero incarna, un paio d’ali
spuntano sulla schiena dello schiavo,
si fa concreto il mondo, il vino è vino,
prende sapore il pane, l’acqua è acqua,
amare è lotta, è spalancare porte,
non essere più fantasma con un numero
a perpetua catena condannato
da un capo senza volto;
Octavio Paz, Pietra del sole (Piedra de sol), 1957, vv. 365-374

In ogni incontro erotico c'è un personaggio invisibile e sempre attivo: l'immaginazione.
Octavio Paz


Lascia che le mie parole scendano e ti ricoprano
Come una pioggia di foglie su un campo di neve,
come l’edera su una statua,
come l’inchiostro su questo foglio.
Braccia, cintura, collo, seni,
la fronte pura come il mare,
la nuca di bosco d’autunno,
i denti che mordono un filo d’erba.
Il tuo corpo è costellato di segni verdi
Come il corpo dell’albero dalle gemme.
Non ti importi di tante piccole cicatrici luminose
Guarda il cielo e il suo verde tatuaggio di stelle
Octavio Paz


Vivere significa separarci da ciò che fummo per addentrarci in ciò che saremo, un futuro sempre estraneo. La solitudine è il fondo ultimo della condizione umana.
Octavio Paz, il labirinto della solitudine, “La dialettica della solitudine”


Se ci chiudiamo in noi stessi rendiamo più profonda, più esacerbata la coscienza di tutto ciò che ci separa, ci isola o ci distingue. E la nostra solitudine aumenta, perché non andiamo alla ricerca dei nostri simili, sia per paura di contemplarci in loro, sia per un penoso sentimento difensivo della nostra intimità.
Octavio Paz, Il labirinto della solitudine - “Il pachuco e altri eccessi”




L’uomo moderno non si abbandona a nulla di ciò che fa. Una parte di sé, la più profonda, resta sempre vigile e intatta. Nel secolo dell’azione l’uomo si spia. Il lavoro, unica divinità moderna, ha smesso di essere creatore. Il lavoro senza fine, infinito, corrisponde alla vita senza finalità della società moderna. E la solitudine che genera, solitudine promiscua degli alberghi, degli uffici, delle fabbriche e dei cinema, non è una prova che affini l’anima, un purgatorio necessario. È una condanna definitiva, specchio di un mondo senza uscita.
Octavio Paz, Il labirinto della solitudine 


L'uomo è l'unico essere che si senta solo ed è l'unico che sia alla ricerca di un «altro». 
La sua natura - se possiamo parlare di natura riferendoci all'uomo, l'essere che si è inventato da sé proprio dicendo no alla natura - consiste in un'aspirazione a realizzarsi nell'altro. L'uomo è nostalgia e ricerca di comunione. Per questo ogni volta che sente se stesso, si sente come mancanza dell'altro, come solitudine.
Octavio Paz, Il labirinto della solitudine, “La dialettica della solitudine”


La nostra solitudine ha le stesse radici del sentimento religioso. È un essere orfani, un’oscura coscienza d’essere stati strappati dal Tutto e un’ardente ricerca: una fuga e un ritorno, tentativo di riannodare i legami che ci univano alla creazione.
Octavio Paz, Il labirinto della solitudine


Ma, più vasta e più profonda del senso di inferiorità giace la solitudine. 
È impossibile identificare un atteggiamento con l'altro: 
sentirsi solo non è sentirsi inferiore, ma diverso.
Octavio Paz, Il labirinto della solitudine - “Il pachuco e altri eccessi”


La nostra vita è un quotidiano apprendistato della morte. Più che a vivere ci si insegna a morire. E lo si fa male.
Octavio Paz, Il labirinto della solitudine, “La dialettica della solitudine”


Ascoltami come chi ascolta piovere,
né attenta né distratta,
passi lievi, pioviggine,
acqua che è aria, aria che è tempo,
il giorno non finisce di andarsene,
la notte non arriva ancora,
figure della nebbia
al voltare l’angolo,
figure del tempo
nell’ansa di questa pausa,
ascoltami come chi ascolta piovere,
senza ascoltarmi, ascoltando ciò che dico
con gli occhi aperti verso dentro,
addormentata con i cinque sensi svegli,
piove, passi lievi, rumore di sillabe,
aria e acqua, parole che non pesano:
ciò che fummo e siamo,
i giorni e gli anni, questo istante,
tempo senza peso, pesantezza enorme,
ascoltami come chi ascolta piovere,
lampeggia l’asfalto umido,
il vapore si alza e cammina,
la notte si apre e mi guarda,
sei tu e il tuo sembiante di vapore,
tu e il tuo volto di notte,
tu e i tuoi capelli, lento lampo,
attraversi la strada ed entri nella mia fronte,
passi d’acqua sopra le mie palpebre,
ascoltami come chi ascolta piovere,
l’asfalto lampeggia, tu attraversi la strada,
è la nebbia errante nella notte,
è la notte addormentata nel tuo letto,
è l’ondeggiare del tuo respiro,
le tue dita d’acqua bagnano la mia fronte,
le tue dita di fiamma bruciano i miei occhi,
le tue dita d’aria aprono le palpebre del tempo,
sgorgare di apparizioni e resurrezioni,
ascoltami come chi ascolta piovere,
passano gli anni, ritornano gli istanti,
senti i tuoi passi nella stanza vicina?
non qui né là: li senti
in un altro tempo che è proprio ora,
ascolta i passi del tempo
inventore di spazi senza peso né luogo,
ascolta la pioggia scorrere per la terrazza,
la notte è ormai più notte fra gli alberi,
fra le foglie si è annidato il fulmine,
vago giardino alla deriva
– entra, la tua ombra copre questa pagina.
Octavio Paz, Come chi ascolta piovere, da Albero interiore (1976-1987), in Octavio Paz, Il fuoco di ogni giorno, Garzanti



sabato 16 febbraio 2019

La filastrocca dell’autostima in rima. Stefania Contardi

“La filastrocca dell’autostima in rima”.
Pubblicato da Stefania Contardi il 16 Aprile 2018

Non dirmi ‘sciocco’ oppure ‘somaro’.
Sono parole dal gusto amaro.
Non dirmi ‘aspetta, ti rispondo dopo’.
Se lo chiedo ora, ci sarà uno scopo.
Non chiedermi sempre e solo perché.
Ne sono certo, lo sai già perché.
Se poi non mi urli tutti i santi giorni,
sarò più felice quando ritorni.
Non chiedermi cose sotto ricatto,
o imparerò il prezzo di averlo fatto,
non per amore, ma per esser costretto
e non di certo perché ci rifletto.
Se sono stanco e non capisco niente,
è perché stanca è anche la mente.
Non mi gridare se rovescio il latte,
chissà, da piccola, quante ne hai fatte.
Non dirmi mai che non si può fare.
Tra il dire e il fare non sempre c’è il mare.
O che non posso cambiare il mondo
e lo crederò in un nanosecondo.
Se aggiungi sempre ‘ma, ‘forse’, ‘‘però’,
stai pur sicura non ce la farò.
Poi, se lo posso fare da solo,
non aiutarmi e prenderò il volo.
Mostrami invece parole belle
e t’assicuro, toccherò le stelle.

(scritta a più piccole, grandi mani – Stefania Contardi & figli,  2016


La filastrocca dalle 100.0000 e più condivisioni in un solo mese. …Miracoli del web 🙂


Riguardo a Stefania Contardi
Sono mamma di tre bambini in età scolare: una splendida dislessica dallo spiccato pensiero divergente, una discalculica alla quale scappano i numeri e un potenziale plusdotato al quale scappa sempre la pipì nei momenti meno opportuni. Ma, ecco, non mi piacciono le etichette e preferisco essere mamma e basta di tre bambini speciali (come lo sono tutti i bambini) e come tale sono soprattutto colf tuttofare, autista, cuoca, infermiera di PPS (primissimo pronto soccorso), psicologa, sociologa, pedagogista, “docente” di filosofia domestica spiccia, sognatrice, eccetera, eccetera. Esattamente come tutte le mamme del mondo. Poi, per divertimento insegno inglese e scrivo. Ma prima ho girato un po’ di multinazionali europee, ma non sono un animale aziendale.
Sono nata nella bella città di Genova, un po’ di tempo fa, quanto basta per non dirlo. Vivo vicino a Bassano del Grappa, ma è di Genova e della Liguria che mi porto dentro il blu del mare, il vento sulla faccia e il profumo…della focaccia! La passione per la scrittura nasce con i primi pensierini delle elementari e da allora non ricordo giorno in cui non abbia scritto qualcosa. Scrivo un po’ di tutto: poesia, racconti, fiabe, filastrocche, romanzi, articoli tematici. Ovviamente amo leggere di tutto e soprattutto leggere ad alta voce. Mi diverte tantissimo! Leggo presso scuole, biblioteche, associazioni. Con grande soddisfazione, a volte, leggo anche i miei libri.
Sono finalista in diversi premi letterari con pubblicazione di alcuni miei racconti e poesie, tra cui le antologie edite da Historica edizioni e da Giovane Holden.
Ho pubblicato il romanzo breve "Memorie e riscatto di un pigro viaggiatore", il saggio “Quando la comunicazione va a ramengo. La comunicazione interrotta” e alcuni libri illustrati per bambini e ragazzi. Tutte storie di bambini in un mondo, ahimè, a misura di adulto: “Il bambino che non voleva parlare”, “Il Chupacarta, ladro di compiti”, “Nel paese di Pitagòria”. Ma c’è sempre qualcosa “in forno”. Da qualche anno studio anche il meraviglioso mondo divergente dei DSA (Disturbi Specifici di Apprendimento: dislessia, disgrafia, disortografia e discalculia) o come li chiamo io: Diverse Strategie di Apprendimento. Da qui nascono anche molte delle mie storie.
Ora qualcosa di nuovo bolle in pentola…
La mia formazione accademica:
MA Applied Linguistics (University of Reading, UK)
Laurea in Lingue e Letterature Straniere Moderne (Università di Genova)
Master Professional per HR
Master Outdoor Management Training
Master “I disturbi specifici di apprendimento, una didattica per tutta la classe” (AID-USR Veneto)
Workshop “Io studio con le mappe” (Canalescuola, Parma)
“Musica e dislessia” (Conservatorio di Castelfranco Veneto)


https://stefaniacontardi.it/2018/04/16/267/

Spinoza (Francesco Lorenzoni)

BARUCH SPINOZA (1632-1677) 1

Olandese di nazionalità, nasce ad Amsterdam. È ebreo ma viene scomunicato dalla comunità ebraica per il suo pensiero giudicato eretico. Conduce una vita appartata, da emarginato, facendo il levigatore di lenti.

Opere principali: Trattato sull'emendazione dell'intelletto umano; Trattato teologico-politico; e, soprattutto, Etica, ordine geometrico demonstrata.

L’emendazione dell’intelletto umano.
Insieme alla metafisica e gnoseologia, Spinoza coltiva forti interessi etici, volti alla ricerca delle verità capaci di dare senso e valore alla vita umana. Cartesio manteneva distinti intelletto e volontà, Spinoza ritiene che il conoscere sia sempre anche un volere ciò che si conosce e che verità e bene coincidano. La filosofia è considerata lo strumento per giungere al vero e al bene tenendo conto tuttavia, rispetto alla filosofia antica, della nuova cultura maturata con la rivoluzione scientifica. Con Spinoza l'Occidente, dopo tanti secoli, cessa di essere soltanto cristiano. Egli è il primo filosofo dell'età moderna che respinge in modo esplicito la concezione biblico-cristiana di Dio, inteso come persona e creatore del mondo mediante un libero atto di volontà mosso da amore, per adottare invece una concezione immanentista e panteista: Dio non è trascendente né è persona; è diffuso in tutta la natura; tutta la natura è divina. 

Gli scopi etico-morali del suo filosofare hanno accentuata espressione nell’opera "Trattato sull'emendazione dell'intelletto umano". Spetta alla filosofia di trovare quella verità che coincide col bene, di modo che l'uomo possa acquisire quell'umana beatitudine e perfezione che, come si vedrà, si raggiunge con l’"amor Dei intellectualis", l'amore di Dio cui l’intelletto sospinge allorquando, comprendendo che Dio è lo stesso ordine geometrico del mondo, vien fatto, per la sua perfezione, oggetto d’amore. L'uomo aspira alla felicità la quale, diversamente dalla filosofia greca antica, socratica in particolare, non consiste nella sola conoscenza ma risiede soprattutto nella vita etica, che aiuta a intendere il senso del vivere e del mondo. Il bene autentico non sta nelle cose terrene , finite, provvisorie e spesso deludenti, bensì nell'essere attratti da ciò che è infinito ed eterno. L'infinito e l’eterno si identificano con il cosmo e con il suo ordine divino e la felicità per l'uomo è l'unione della mente con la divina natura del cosmo.

Ethica, ordine geometrico demonstrata 
L’“Ethica, ordine geometrico demonstrata” (L'etica dimostrata attraverso la comprensione dell'ordine geometrico della natura) è il capolavoro di Spinoza. Il tema di fondo rimane pur sempre quello del bene supremo, l'unione di mente e natura, accompagnato tuttavia da robuste speculazioni metafisico-gnoseologiche. Nel dimostrare i propri concetti, Spinoza procede secondo il metodo con cui sono dimostrati i teoremi geometrici (da ciò il titolo dato all'opera), partendo da postulati e quindi proseguendo attraverso ragionamenti e dimostrazioni deduttivi. Lo stile adottato è influenzato non solo dalla moda dell'epoca di celebrazione della matematica, ma anche e soprattutto dalla convinzione che la realtà tutta è costituita secondo una rigorosa struttura di tipo geometrico. 
Senza preamboli, l'opera si apre con una serie di definizioni sull'essere, vale a dire sulla sostanza di fondo della realtà. La definizione di sostanza è esplicitamente il punto di partenza. Per la filosofia greca classica esiste una molteplicità di sostanze gerarchicamente ordinate: il mondo sovrasensibile delle idee e quello sensibile delle cose in Platone, oppure, in Aristotele, le forme, cioè il sostrato invisibile che sta al di sotto delle qualità apparenti, visibili, di ogni cosa ed in virtù del quale ognuna è in sé stabilmente distinguibile dalle altre ancorché nel suo divenire e trasformarsi esteriore. Per Cartesio, si è visto, le sostanze sono realtà autonome, non derivanti da qualcosa d'altro, e ne individua tre: Dio come sostanza prima, nonché il pensiero (res cogitans) e l'estensione (res extensa), ovvero la materia e i corpi materiali, come sostanze seconde. Spinoza è assai più radicale; non accetta la triplicità cartesiana delle sostanze ed il conseguente dualismo tra res extensa e res cogitans ma, convenendo anche lui che la sostanza è ciò che esclusivamente è causa di sé (“causa sui”), ne afferma con rigore l’unicità. La sostanza fondamentale del mondo è una sola; è essa stessa causa della propria esistenza, dei suoi attributi e proprietà e, per esistere, non ha bisogno di altri esseri. Gode di una completa autonomia ontologica e concettuale.

Dalla definizione di sostanza Spinoza ricava una serie di sue proprietà basilari:
1. la sostanza è increata poiché essa soltanto è unica causa di sé; la sua essenza implica per definizione e necessariamente anche la sua esistenza;
2. poiché increata, la sostanza, quindi, è anche eterna;
3. è infinita perché, se fosse finita, limitata, da tali limiti sarebbe condizionata e dipendente, mentre non deriva e non dipende da niente altro;
4. è unica poiché, essendo infinita, è ovunque e non c'è spazio od occasione per altre sostanze.
Questa sostanza increata, eterna, infinita ed unica, e dunque anche indivisibile, non può essere che l'Ente supremo, cioè Dio o l'Assoluto. Fin qui Spinoza sembra poco originale rispetto ai pensatori precedenti. In realtà si differenzia nettamente da gran parte della vecchia metafisica, in particolare dalla concezione ebraico-cristiana, per il suo panteismo ed immanentismo quali sopra evidenziati. Qui sta la sua originalità: Dio e mondo non costituiscono due realtà separate ma una medesima entità; sono compenetrati. Spinoza usa l'espressione "Deus sive Natura" ("Dio cioè la Natura", "Dio=Natura"). Coincidendo con la natura, Dio è l'ordine geometrico del mondo, è il principio, la legge universale che regola e dà ordine al mondo. Poiché la sostanza è unica, la medesima sostanza divina si ritrova anche in tutte le cose del mondo, che ne sono la manifestazione in atto. Vale l'equivalenza: Sostanza=Dio=Natura=Ordine geometrico. Il Dio-Natura è principio ed origine prima del mondo e da esso tutte le cose dipendono e derivano ma non per creazione. La creazione è un atto libero del Dio persona che potrebbe anche non compiere, mentre per Spinoza il Dio-Natura, l’Assoluto, è impersonale ed è libero solamente nel senso che non è condizionato da niente altro. E’ libero da coazione però non possiede la "libertà da necessità". Egli causa e produce le cose necessariamente, per cui le cose non possono stare senza Dio e Dio non può stare senza le cose. Ogni cosa è dal Dio-Natura rigidamente necessitata e determinata ad essere ciò che è (determinismo). Non vi è alcuna contingenza ma regna ovunque la più rigida necessità. Il Dio-Natura non è neppure forza, energia, che genera il mondo e le cose inconsciamente, per sovrabbondanza di potenza, come in Plotino, ma è l'ordine razionale e necessario del cosmo, da cui le cose discendono per rigorosa concatenazione di causa-effetto. Pur usando il linguaggio metafisico-teologico tradizionale (sostanza, attributi, modi, essenza, ecc.), il pensiero di Spinoza si inquadra pur sempre nel contesto della rivoluzione scientifica. Di conseguenza il suo panteismo è una forma rigorosa, matematizzata e geometrizzata, di naturalismo (visione matematico-geometrica della natura). L’ordine geometrico è principio primo sostanziale immanente nella natura, è come un teorema eterno da cui tutto scaturisce in modo necessario, così come dalla definizione di triangolo segue necessariamente che la somma dei suoi angoli interni è uguale a due angoli retti.

Tommaso Hobbes.

TOMMASO HOBBES (1588-1679).
Di nazionalità inglese, studia ad Oxford. Diventa precettore dei conti di Devonshire e anche del futuro re Carlo II Stuart allorquando era in esilio a Parigi, ove Hobbes dimora a lungo. Compie frequenti viaggi in Europa, avendo l’occasione di conoscere Cartesio e di diventare amico di Galilei. Muore a Londra.

Opere principali: la trilogia: "De corpore" (Il corpo); "De homine" (L'uomo); "De cive" (Il cittadino) nonché, soprattutto, "Il Leviatano".

Hobbes è l'iniziatore dell'empirismo ed il maggior teorico dello Stato assoluto. 
La sua filosofia è nominalistica nella logica, materialistica e meccanicistica nella fisica e nella gnoseologia, utilitaristica nella morale e nella politica.

Egli vive durante un periodo assai tormentato della storia dell'Inghilterra, sconvolta dalla guerra contro la Spagna, dalla guerra civile, dalla dittatura di Cromwell. Sua aspirazione è che finalmente ritorni la pace. A tal fine considera lo Stato assoluto, autoritario e dotato di immane potere sui sudditi, l'unico rimedio contro la guerra e la violenza e l'unica garanzia di pace, pur comportando la rinuncia alla libertà e ai diritti individuali.

Il fine prevalente della filosofia di Hobbes è dunque politico. Scopo della filosofia è di essere utile, capace di trovare le regole in base a cui fondare una comunità ordinata e pacifica. Per contro, una filosofia squisitamente metafisica è ritenuta incapace di fornire indicazioni per fondare una comunità civile. L’intento è di costruire una filosofia puramente naturale e razionale, antimetafisica ed antispiritualistica, e tale inoltre da escludere qualsiasi valore attribuibile all'autorità degli autori antichi, nei quali è scorto solo un amore del sapere ma non ancora un sapere. Gli autori cui si deve attingere sono invece indicati in Cartesio, Bacone, Galilei. E Hobbes, espressamente, vuole essere il Galilei della scienza politica. Affinché sia davvero utile, bisogna applicare alla filosofia le medesime regole del metodo scientifico, sviluppando in particolare la filosofia morale e politica per trovare criteri sicuri di spiegazione delle azioni umane così da poter distinguere quelle giuste da quelle ingiuste. Per l'esaltazione della "luce della ragione" la concezione filosofica di Hobbes è di sapore illuministico: la filosofia è il frutto di una ragione prettamente umana e non di riflessioni metafisiche. Consegue una rigorosa separazione tra scienza e religione, tra ragione e fede.

La logica.
Prima di esporre la sua filosofia Hobbes rappresenta la propria posizione in ordine alla logica, in quanto scienza preliminare che studia le regole del corretto modo di pensare. Definisce dapprima il nome dal punto di vista logico. I nomi, afferma, sono segni convenzionali prodotti dall'uomo allo scopo di indicare le cose o i relativi concetti. Diversamente dalla logica aristotelica, ma anche da quella dei filosofi razionalisti volti a cogliere l'essenza o sostanza della realtà e degli enti, per Hobbes definire una cosa vuol dire soltanto spiegare il significato attribuito al vocabolo usato per indicare la cosa stessa. I concetti, a loro volta, sono solo "nomi di nomi", solamente nomi collettivi, nostri modi di pensare che non esistono nella realtà perché in essa vi sono soltanto le singole cose concrete e individuali (non c'è "l'albero" ma solo i singoli alberi concreti). Trattasi di evidente concezione nominalistica. I concetti sono peraltro utili poiché consentono generalizzazioni ed economicità del linguaggio.

L'insieme dei segni, cioè dei nomi, forma il linguaggio. Ed è il linguaggio, più che la ragione, che differenzia l'uomo dagli animali, dato che anch'essi possiedono un certo grado di ragione e sanno imparare dall'esperienza. L'uomo però, grazie al linguaggio e diversamente dagli animali, può prevedere e progettare a lunga scadenza i propri comportamenti, nonché individuare i mezzi più idonei per raggiungerne gli scopi.

Due sono le principali funzioni del linguaggio:
1. permette di comunicare;
2. ma, soprattutto, permette il ragionamento in virtù di quelle generalizzazioni che sono i concetti.
Il ragionamento è per Hobbes "un calcolare", ossia un sommare o sottrarre tra loro più nomi o concetti. Ad esempio: uomo=corpo+animato+razionale; animale= corpo+animato-razionale. È possibile sommare un nome o un concetto ad un altro per induzione oppure sottrarlo per deduzione. La forma generale del ragionamento è il sillogismo ipotetico. Ad esempio: se qualcosa è uomo è anche animale; se qualcosa è animale è anche corpo; allora se qualcosa è uomo è anche corpo. Il ragionamento (o sillogismo ipotetico) deduttivo consente una dimostrazione scientifica, ossia certa, perché è un ragionamento a priori, che parte dalla causa per spiegarne gli effetti. È però applicabile solo quando la causa o le cause siano note e le cause sono davvero note solo quando esse sono prodotte direttamente dall'uomo: noi possiamo veramente conoscere solo ciò che produciamo direttamente (è un concetto simile a quello che si troverà anche in Giambattista Vico). Ma l'uomo produce direttamente soltanto la matematica e la propria storia politica e sociale nonché il comportamento morale. Perciò le dimostrazioni scientifiche certe sono possibile unicamente nelle scienze matematiche, nelle scienze storiche e politiche e nelle scienze morali. Le cose naturali sono invece prodotte da Dio; perciò gli uomini non ne conoscono davvero le cause. Intorno ad esse non è dunque possibile una dimostrazione scientifica deduttiva a priori ma soltanto una spiegazione induttiva a posteriori. Sennonché tale dimostrazione non è certa ma solo probabile giacché il medesimo effetto può essere prodotto da cause diverse.

Il materialismo meccanicistico.
Mentre la concezione del mondo di Cartesio è materialistica e meccanicistica per quanto riguarda la natura fisica (la res extensa) e spiritualistica per quanto riguarda il pensiero (la res cogitans), la concezione di Hobbes è invece totalmente materialistica e meccanicistica anche per quanto riguarda il pensiero e la conoscenza.

Nella realtà del mondo, secondo Hobbes, esistono solo i corpi materiali e i loro movimenti. Conoscere una cosa significa individuarne la causa, tenuto conto che la ragione può conoscere le cause solamente dei corpi: le conosce a priori se si tratta di enti matematici e di eventi umani e storici; le conosce a posteriori se si tratta di corpi naturali. Tutto ciò che è sostanza spirituale, o comunque non è materia corporea, non è oggetto della filosofia. Di Dio e delle sostanze spirituali potranno occuparsi semmai la religione e la teologia. La filosofia è perciò scienza dei corpi: esistono solo corpi materiali e tutto ciò che accade, ovvero le trasformazioni dei corpi, che si generano, si sviluppano e periscono, è effetto del movimento meccanico dei corpi stessi. Il corpo, la materia, è l'unica realtà ed il movimento dei corpi è l'unica causa e principio di spiegazione di tutti i fenomeni naturali.

I corpi si dividono in corpi naturali (gli oggetti inanimati, le piante, gli animali, gli stessi uomini) e in corpi artificiali, costruiti dall'uomo (la società civile, lo Stato). In corrispondenza vi sono due tipi di filosofie: la filosofia naturale e la filosofia civile. Quest'ultima si divide a sua volta in etica, che studia le emozioni, i bisogni e i costumi degli uomini, e in politica, che studia i doveri civili degli uomini e le forme della convivenza sociale.

Poiché i corpi materiali sono l'unica realtà, allora anche l'anima, la coscienza umana, è corporea. I processi conoscitivi hanno natura materiale e si svolgono in modo meccanico. La conoscenza deriva esclusivamente dalla sensazione, la quale non è qualcosa di spirituale ma è invece un movimento materiale e meccanico prodotto dall'oggetto percepito che modifica i sensi del soggetto, il quale reagisce alla sensazione con un altro movimento. Gli stessi sentimenti (piacere, dolore, desiderio, amore, odio, ecc.) sono movimenti corporei e materiali poiché causati anch'essi dal movimento di corpi esterni (la paura, ad esempio, è causata dal movimento di una cosa spaventosa che avanza verso di noi e che ci troviamo davanti). E’ pertanto giudicato errato il ragionamento di Cartesio allorquando, dall'affermazione "io sono una cosa che pensa", passa all'altra affermazione che dice “perciò io sono una sostanza pensante immateriale, spirituale”. Per Hobbes non è affatto necessario che il pensiero sia immateriale. E’ invece considerato funzione biologica e fisiologica del corpo, in particolare di quella parte del corpo che è il cervello. Non c'è res cogitans, anima o pensiero come sostanze spirituali, ma solo res extensa, solo materia e corpi materiali.

Il materialismo etico.
Altrettanto materialistica e meccanicistica in Hobbes è la concezione dell'etica. Le valutazioni morali di ciò che è bene e ciò che è male sono puramente soggettive: cambiano da persona a persona. Viene chiamato bene ciò che si desidera e viene chiamato male ciò che si odia, ma ognuno può desiderare od odiare cose diverse. Non c'è una norma in grado di distinguere in modo assoluto il bene dal male. Il bene e il male non esistono in sé, non sono entità autonome ma sono relativi come sostenevano i sofisti. Non esiste un'etica oggettiva che prescinda dalle inclinazioni soggettive.
Non c'è neppure libera volontà, libero arbitrio. Se tutta la realtà è costituita da corpi materiali ed il movimento è loro unico principio di spiegazione, anche la nostra volontà, allora, non è libera ma determinata e causata dal movimento di un corpo su di essa. I nostri desideri non nascono liberamente da noi ma sono sempre determinati meccanicamente dai fatti esterni che ci capitano. Non c'è dunque libertà di volere; semmai vi può essere una certa libertà di fare, una certa libertà di azione, poiché, quando una causa esterna determina in me una volizione, ho la possibilità di decidere se soddisfarla o meno. Non ci accorgiamo dell’inesistenza della libera volontà solo perché si ignora tutta la concatenazione delle cause esterne che predetermina la volontà.

L’originario stato di natura dell’uomo e il sorgere dello Stato
Se per Hobbes le valutazioni morali su ciò che è bene e male sono soggettive e relative e non vi sono autonome regole morali e sociali, com’è possibile allora realizzare una società civile, uno Stato pacifico e ordinato in cui ognuno senta il dovere morale di rispettare gli altri? 

Hobbes risponde che le regole morali e sociali non derivano da leggi o principi morali esterni, oggettivi, e comunque innati ed insiti nella natura umana, bensì da un calcolo di convenienza puramente artificioso, in base al quale gli uomini sono indotti a stipulare fra di essi un patto o contratto sociale per salvaguardare il loro primo bene che è quello della vita e della sua conservazione. 

Non è la natura umana ma la ragione umana che convince gli uomini a mettersi d'accordo per costituire uno Stato che, con le sue leggi, garantisca un'esistenza pacifica. Quindi non c'è, come diceva Aristotele, un istinto naturale negli uomini a stare e a vivere pacificamente insieme. L'uomo non è un animale sociale per sua propria natura, per suo istinto.

Hobbes, si è visto, ha inteso costruire la sua filosofia politica come scienza, analogamente alla geometria fondata su pochi principi, pochi postulati. Così come predeterminata è la volontà umana, altrettanto predeterminata per Hobbes è la volontà politica, l’operare politico. E’ possibile pertanto scoprire i postulati che stanno alla base dell'agire politico, dai quali dedurre con certezza tutta la scienza politica, l'intero sistema politico e la sua complessiva organizzazione.

Due sono le condizioni predeterminanti l’azione politica:
1. la bramosia naturale, per la quale ogni uomo pretende tutto per sé a discapito degli altri;
2. l'istinto di conservazione, in forza del quale ognuno teme la morte violenta come il peggiore dei mali naturali.

L'originario stato di natura dell'uomo, caratterizzante l'uomo primitivo, è appunto la bramosia, l'egoismo, ovvero la pretesa di aver diritto a tutto; da ciò deriva la sopraffazione, la prepotenza e, quindi, una continua lotta per prevalere sugli altri, una continua guerra di tutti contro tutti (bellum omnium contra omnes). L'uomo non è naturalmente buono ma aggressivo come un lupo nei confronti degli altri uomini (homo homini lupus). Non c'è una giustizia naturale, un amore spontaneo dell'uomo verso gli altri uomini. Esso potrà semmai venire in seguito, col progredire della civiltà e dell'educazione sociale. Lo stato originario di natura dell'uomo è invece quello della legge del più forte, ma anche il più forte troverà, prima o poi, un altro più forti di lui. In questa situazione è costantemente messa a rischio la vita, la sopravvivenza. Diventa inoltre sempre più impraticabile e difficile la vita lavorativa per procurarsi ciò di cui si ha bisogno perché i frutti del lavoro possono essere derubati a causa della prepotenza altrui.

Dall’originaria e perigliosa umana condizione di natura si può uscire solo facendo ricorso alla ragione, unico strumento capace di calcolare gli svantaggi derivanti dalla primitiva situazione di guerra permanente fra tutti e di indicare, quindi, la scelta alternativa più conveniente. La ragione calcola e fa comprendere che, allo scopo di conservare la vita e non essere soppressi dal più forte, conviene limitare il naturale egoismo individuale, rinunciare alla pretesa di aver diritto a tutto, scegliendo tutti di osservare alcune precise regole (Hobbes ne indica 19), di cui tre sono le più importanti:

1. occorre sempre cercare la pace e, quando non è possibile, difendersi con tutti i mezzi perché la difesa della vita, questo sì, è un diritto naturale, tale cioè che non deriva dalla ragione umana ma fa parte della condizione naturale dell'uomo, mentre alla ragione spetta di trovare i mezzi per garantirlo;

2. l'uomo deve spontaneamente rinunciare alla pretesa di aver diritto a qualunque cosa ed accontentarsi di aver tanta libertà quanta egli stesso ne riconosce agli altri; questa, dice Hobbes, è la "legge del Vangelo" applicata alla politica, alla società civile: non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te;

3. bisogna stare ai patti, rispettarli: questa è la condizione necessaria per la convivenza pacifica, per entrare nella società civile e nello Stato; da questa regola nasce il diritto, la legge, la giustizia civile.
E’ in base a queste regole fondamentali che gli uomini convengono di stipulare fra di loro quel contratto o patto sociale da cui sorge lo Stato. Lo Stato non ha quindi un'origine divina o naturale, come si credeva o si voleva far credere, bensì un'origine artificiale; è un prodotto degli uomini. Se è un prodotto umano, sono note allora le cause per cui lo Stato viene realizzato. Di conseguenza, applicando il metodo deduttivo a priori, è possibile passare dalle cause generali concernenti l'origine dello Stato (le tre regole di cui sopra) alla spiegazione certa degli effetti particolari che ne derivano, alla spiegazione cioè della struttura e delle caratteristiche peculiari dello Stato. In tal senso è da Hobbes giustificata la sua concezione della politica come scienza.

Lo Stato assoluto: il Leviatano.
Non può tuttavia costituirsi uno Stato che perduri solo in virtù di un patto sociale se non viene creato anche un "potere" che costringa ogni uomo a rispettare le regole del patto stipulato. Con il patto sociale gli uomini di una comunità rinunciano ai loro diritti, alla loro pretesa su tutto, tranne il diritto della difesa della vita, e li cedono ad un sovrano: un re o una Assemblea. Ne discende che il patto sociale è stipulato fra i sudditi tra loro e non tra i sudditi ed il sovrano, il quale dunque è al di sopra delle regole del patto medesimo, al di sopra delle leggi dello Stato. Il sovrano è l'unico a mantenere gli originari diritti dello stato di natura, il diritto su tutto, eccetto il diritto sulla vita altrui. Lo Stato sorto dal contratto sociale, perciò, riunisce su di sé un potere enorme. Solo nel caso in cui lo Stato non difenda e non rispetti la vita dei sudditi essi hanno, allora, il diritto di ribellarsi.
Hobbes, massimo teorico dello Stato assoluto, lo definisce "per metà uomo e per metà Dio mortale" perché è subito al di sotto del Dio immortale e quasi altrettanto potente. Lo Stato assoluto, così mostruosamente potente, è paragonato al “Leviatano”, il mostro invincibile di cui narra la Bibbia.

Lo Stato assoluto possiede un potere veramente smisurato poiché:
1. il patto sociale è irreversibile ed unilaterale, in quanto, si è visto, stipulato tra i sudditi e non tra i sudditi e il sovrano, che sta al di sopra;
2. il potere del sovrano è indivisibile, non ammette separazione fra potere legislativo, esecutivo e giudiziario poiché, altrimenti, lo Stato ne verrebbe svigorito e verrebbe pertanto indebolita la difesa della vita dei sudditi;
3. il bene e il male, il giusto e l'ingiusto, sono stabiliti dalla legge emanata dal sovrano, restando con ciò confermato il concetto hobbesiano che non esiste una morale naturale, non c'è il bene e il male in sé, ma bene e male è solo ciò che è prescritto dalla legge dello Stato;
4. la sovranità dello Stato deve pretendere l'obbedienza assoluta dei propri sudditi, anche per gli ordini ritenuti ingiusti, tranne il caso in cui sia messa in pericolo la vita; la stessa Chiesa è sottomessa allo Stato, che ha il diritto di intervenire anche in materia religiosa: la religione diventa religione di Stato e la Chiesa è al servizio dello Stato.

Bisognerà attendere l'avvento delle monarchie costituzionali e la filosofia di Locke, il teorico dello Stato costituzionale, perché lo Stato assoluto venga superato e nascano forme più democratiche di governo. Ma il periodo in cui visse Hobbes era così pieno di guerre e di lotte che per lui l'unico rimedio in grado di consentire la pace e la difesa della vita poteva essere solo uno Stato potentissimo ed autoritario: uno Stato assoluto.

Schopenhauer. (Francesco Lorenzoni)

ARTHUR SCHOPENHAUER (1788-1860) 
Nel primo Ottocento la filosofia di Hegel diventa quella prevalente. 
Non mancano tuttavia, seppur minoritari, filosofi contemporanei ad Hegel, in particolare Schopenhauer e Kierkegaard, che si oppongono alla filosofia hegeliana. 

Negano che la realtà sia costantemente razionale poiché, spesso, è invece irrazionale ed ingiusta. Perciò non va sempre giustificata ma bisogna anche cambiarla e migliorarla. L'ottimismo e la visione finalistica hegeliana della storia come continuo progresso sovente non corrisponde alla realtà effettiva. Affermano altresì che la filosofia non deve occuparsi di concetti generali ed astratti, quali i concetti di Idea o Spirito, ma deve soprattutto interessarsi delle condizioni di vita degli uomini concreti e non della generica umanità. L'Idealismo, con la sua concezione astratta di unità tra finito ed infinito, non riuscirà mai a spiegare la vita, l'ansia, l'angoscia e la sofferenza del singolo individuo finito. Al contrario di Hegel, il finito non è pensato congiunto all'infinito: tra finito ed infinito permane una differenza, un contrasto insuperabile.

Schopenhauer nasce a Danzica. 
Studia filosofia e segue le lezioni di Fichte. Insegna presso l'università di Berlino, conducendo corsi di studio in aperta polemica con Hegel ma con poco successo di pubblico. Viaggia in Italia ed infine si stabilisce a Francoforte, ove muore.

Opera principale: Il mondo come volontà e rappresentazione.

La filosofia di Schopenhauer è influenzata soprattutto dalla filosofia di Kant ma anche dalla filosofia orientale, indiana e buddista.

Animato da forti sentimenti romantici, Schopenhauer non si occupa, come Hegel, di questioni logico-metafisiche teoriche, ideali, bensì dei problemi tangibili dell'esistenza individuale, della pena, dell'insicurezza e precarietà della vita. Considera un'illusione l'idea del continuo progresso della storia. Contrappone all'ottimismo di Hegel un profondo pessimismo, un pessimismo "cosmico" come in Leopardi. Accusa Hegel di essere un'"sofista", cioè di fare filosofia al solo scopo di successo e di guadagno personale. Compito della filosofia non è di illudere l'uomo con false concezioni ottimistiche, ma di comprendere il male dell'esistenza per offrire all'uomo consolazione e liberazione dal dolore.

Il mondo come volontà e rappresentazione.
Il mondo, afferma Schopenhauer, è come noi lo vediamo, come ce lo rappresentiamo; è una nostra rappresentazione e non possiamo sapere se esso, in realtà, è proprio come percepito oppure diverso: nessuno di noi può uscire da se stesso, dal modo in cui vede le cose per osservare come in effetti siano e coglierle in sé. La rappresentazione nasce dal rapporto fra soggetto ed oggetto della rappresentazione. Per impostare in modo corretto il problema della conoscenza si deve dunque ritornare, ad avviso di Schopenhauer, al dualismo intrecciato di soggetto-oggetto della filosofia kantiana. L'oggetto della rappresentazione è condizionato dalle forme a priori dello spazio e del tempo e dalla categoria della causalità, che sono i modi in cui la sensibilità e l'intelletto umano operano e conoscono i fenomeni. Dalle forme a priori deriva la pluralità: ogni cosa esiste nello spazio e nel tempo suo proprio. Conseguono quindi rappresentazioni di cose molteplici e fra di esse diverse. Il soggetto è invece intero ed unico; è fuori dello spazio del tempo, che sono soltanto sue modalità mentali, suoi modi di rappresentarsi la realtà, tant’è che lo svanire del soggetto porterebbe con sé lo svanire del mondo come rappresentazione. Soggetto ed oggetto sono dunque distinti ma inseparabili: ognuno dei due termini non ha senso né esiste in sé se non attraverso l'altro. E’ condivisa in sostanza la gnoseologia kantiana che Schopenhauer, ammiratore di Kant, fa sua, sia pur riducendo le dodici categorie a quella di causalità, ritenuta la principale.

In conformità a dette premesse è perciò criticato sia il materialismo, perché non riconosce l'autonomia del soggetto, sia l'idealismo, perché non riconosce l'autonomia dell'oggetto, ovvero l'esistenza di cose indipendenti dalla mente, ma sia anche il realismo che ritiene la realtà essere proprio così come ce la rappresentiamo, mentre non possiamo invece sapere se è davvero tale: il mondo come rappresentazione è un mondo di soli fenomeni.

Sennonché per Schopenhauer il fenomeno, e qui diversamente da Kant, non è l'unico aspetto conoscibile della realtà perché, egli aggiunge, può essere anche colto, intuito, il noumeno fondamentale, la fondamentale cosa in sé, ovvero la sostanziale essenza del mondo. I fenomeni sono come ricoperti da un velo, che Schopenhauer denomina con l’appellativo di "velo di Maya", il velo ingannatore di cui parla la filosofia indiana, il quale nasconde l'essenza della realtà che soggiace ai fenomeni. Ma questo velo può essere sollevato e l'essenza del mondo, il noumeno fondamentale, può essere colto e avvertito, sebbene non in termini di conoscenza razionale bensì mediante un'intuizione diretta e immediata.

Per scoprire l'essenza della realtà e scoprire cosa c'è dietro le nostre rappresentazioni, cosa c'è al di là e al di sotto dei fenomeni, dobbiamo partire dal soggetto conoscente, da noi stessi, dall'uomo. L'uomo inizialmente conosce se stesso come corpo. Il corpo, così come tutti gli altri oggetti, è percepito e conosciuto come fenomeno allorché ci fermiamo ai soli aspetti fisiologici. Ma il corpo, precisa Schopenhauer, non è solo rappresentazione fenomenica. Del corpo, del "mio" corpo ho anche un'intuizione immediata, ne ho diretta coscienza che non è solo conoscenza fenomenica. Noi possiamo guardare al nostro corpo e parlarne come di un qualsiasi altro oggetto, ed in questo caso esso è fenomeno. Ma ascoltando noi stessi, riflettendo dentro di noi, sentiamo che nel nostro corpo esiste una forza profonda che guida tutti i nostri atti, sentiamo in noi una spinta ad esistere, a desiderare e a volere. Avvertiamo che dentro di noi agisce una volontà che è volontà di vivere, di affermarci, tesa ad imporre la propria superiorità sugli altri uomini, sulle cose e sul mondo; è quindi una volontà di vivere e realizzarci che è volontà di dominio. Intravediamo che il fondo del nostro essere, più che la razionalità, è proprio questa volontà che sentiamo come cosa in sé, come noumeno fondamentale, facendoci intuire la vera essenza di tutta la realtà e consentendo in tal modo di squarciare "il velo di Maya" che occulta ciò che sottostà alla molteplicità delle rappresentazioni fenomeniche. Di più, scopriamo che questa volontà di vivere e di dominio è l'essenza che caratterizza non solo l'uomo ma l’intera realtà, tutti gli esseri, viventi e non viventi. Riusciamo a scoprire e sentire che siamo parte di un'unica volontà universale, sottostante ai fenomeni, che è la vera causa del loro accadere poiché ogni essere, animato ed inanimato, è mosso e si trasforma per effetto proprio di questa volontà di affermarsi ed imporsi. E’ così chiarito il titolo dell'opera "Il mondo come volontà e rappresentazione": come fenomeno e apparenza il mondo è rappresentazione; come cosa in sé, nella sua essenza di fondo, esso è volontà, che si sostanzia come principio metafisico noumenico. 
Come noumeno, cosa in sé, l'universale volontà di vivere e di dominio è al di là dei fenomeni e al di fuori delle forme a priori di spazio, tempo e causalità. Essendo al di là dello spazio, questa volontà è infinita; essendo oltre il tempo è eterna, immutabile; essendo al di là del principio di causalità è anche incausata, priva di un'origine esterna. Per tutto ciò è allora unica, universale. È altresì volontà inconscia, colta per intuizione ma di cui l'intelletto non ha conoscenza razionale. Essa è impulso inconsapevole, energia che sospinge tutte le cose. La volontà di vivere e di dominio non ha alcun fine; suo unico scopo è solo di affermare ed imporre se stessa, di espandersi sempre di più. Perciò è una forza cieca, irrazionale, insaziabile e crudele che permea tutto l'universo. Da qui il pessimismo cosmico di Schopenhauer. La natura non possiede quella struttura razionale concepita dai filosofi platonici e dall'idealismo; è piuttosto una natura matrigna, così come concepita da Leopardi: la vita è dolore ed il piacere è solo momentanea scomparsa del dolore.

Questa volontà si manifesta nella natura in gradi diversi, da quelli inferiori a quello superiore costituito dall'uomo. Nel mondo inorganico si manifesta come forza di gravità e come forza di attrazione e repulsione; nel mondo vegetale si manifesta come istinto di nutrizione e di crescita; nel mondo animale si manifesta come sensibilità; infine, nell'uomo si manifesta come consapevolezza ma non contrastabile: l'uomo riesce a percepire l'esistenza di questa spietata volontà universale ma non riesce a controbatterla e vincerla. È questa volontà universale che ha comportato l'avvento del male nel mondo. Unica mira della natura è la sopravvivenza della specie anche attraverso il dolore e la prepotenza. 

Anche la filosofia di Schopenhauer dunque, come in Hegel e secondo la sensibilità romantica, ma in questo caso a differenza di Kant, mantiene un'impostazione metafisica volta a cogliere l’immanente principio infinito della realtà: in Hegel lo Spirito, la Volontà in Schopenhauer. Tuttavia, mentre per Hegel lo Spirito è razionalità e finalismo, per Schopenhauer la Volontà è invece principio irrazionale privo di fini.

La vita umana tra noia e dolore.
Nell'uomo la volontà universale si fa cosciente e si manifesta come dolore. Suscita continui desideri di affermazione e di dominio, ma ogni desiderio si presenta come mancanza di qualcosa e ciò produce sofferenza. La sofferenza cesserà con la soddisfazione del desiderio, però l'appagamento sarà di breve durata. Non appena il desiderio viene soddisfatto subentra la noia, l'insoddisfazione, e sorgono ulteriori desideri, quindi nuove sofferenze, finché non vengano anch'essi realizzati; e così via in un ciclo continuo giacché, essendo infinita la volontà di vivere e di possesso, saranno infiniti anche i desideri che essa suscita. Così tutta la vita, dice Schopenhauer, è come un pendolo che oscilla tra noia e dolore. Anche nel mondo della natura non vi è pace e felicità: ogni animale, ogni pianta, ogni cosa è spinta dalla medesima volontà universale a desiderare e a volere sempre di più. Anche ogni essere della natura lotta continuamente contro gli altri per la propria sopravvivenza e per prevalere; ovunque è conflitto e prepotenza.

Le forme di liberazione dalla volontà.
Scopo della filosofia deve essere allora quello di rendere l'uomo consapevole dell'infelicità dell'esistenza ed indicargli le vie della salvezza, i modi in cui potersi liberare dalla dipendenza dall'irrazionale e crudele volontà universale del mondo.
Se l'essenza della realtà e dell'esistenza è tale volontà, allora il suicidio potrebbe sembrare il rimedio al male della vita. Però il suicidio, in questo caso, non è la negazione della vita, non è il desiderio di non vivere più ma di vivere invece una vita diversa, senza noia e senza dolore: il suicidio quindi non sconfigge l'irrazionale volontà di vivere.
Altri sono i modi del rimedio: ci si può liberare dal dolore della vita causato dalla crudele volontà di vivere e di dominio solo con la negazione di questa stessa volontà di vivere, passando dalla volontà alla "nolontà" (non volontà), come da Schopenhauer chiamata, ossia al rifiuto di una vita basata sull'impulso, sulla forza irrazionale e malvagia della volontà universale. Tale salvezza è possibile per tre vie diverse: 1) attraverso l'arte; 2) attraverso la pietà, nominata etica della compassione; 3) attraverso l'ascesi o, appunto, la nolontà.

L'arte.
L'arte è per Schopenhauer espressione libera e disinteressata di sentimenti, capace di liberare l'individuo dai suoi desideri e dai suoi egoismi e, quindi, di liberarlo dalla crudele ed irrazionale volontà di prevalere.
La contemplazione artistica intuisce le idee eterne, che sono i modelli, le essenze delle cose (si noti l'influsso della filosofia di Platone), e pertanto si svincola dalle costrizioni della cieca volontà che rimane come annullata.
E’ stabilita una gerarchia delle arti in base alla loro capacità di distaccarci dalla perversa, dominante volontà. Si passa così dall'architettura alla scultura e poi alla pittura e alla poesia. Al di sopra di tutte c'è la musica, che è l'arte più universale.
Ma l'arte permette una liberazione solamente momentanea dalla volontà. Si passa così al secondo grado, al secondo modo di salvezza e di liberazione.

La pietà o etica della compassione.
L'arte, in fondo, è un estraniarsi dal mondo concreto. La morale è invece un impegnarsi nel mondo, un darsi da fare per migliorare il mondo. Quando ci rivolgiamo verso il nostro prossimo comprendiamo che anche gli altri uomini sono, come noi, vittime della medesima crudele volontà di vivere. Sentiamo che le loro sofferenze sono simili alle nostre e sorge verso di loro un sentimento di compassione, di pietà, grazie al quale possiamo liberarci dall'egoismo della volontà.
La morale si pone in contrasto con l'egoismo della volontà in due modi:
1. attraverso la giustizia, intesa come non fare il male;
2. attraverso la carità, intesa, ad un livello più alto, come volontà di fare il bene degli altri.
Ma anche nella compassione, nella giustizia e nella carità, rimane ancora un attaccamento alla vita, se non alla nostra a quella altrui, attaccamento che va eliminato per non offrire alcuna occasione di rivincita alla volontà di dominio. Il traguardo vero non è solo quello della liberazione dall'egoismo e dall'ingiustizia della vita, ma quello della totale liberazione e distacco dalla stessa volontà di vivere. Si passa perciò alla terza via, al terzo modo di salvezza.

L'ascesi o nolontà.
Il vero distacco dalla volontà di vivere, cieca e prevaricatrice, si raggiunge solo con l'ascesi, intesa come rinuncia ad ogni desiderio, ad ogni egoismo, ad ogni volontà. Un’ascesi che non è l’immedesimarsi in Dio ma totale negazione del mondo: è un misticismo ateo. L’asceta è colui che vive senza desiderare di vivere, distaccato completamente dalla vita terrena. Secondo le filosofie orientali, da cui Schopenhauer trae ispirazione, si giunge all'ascesi attraverso la meditazione, la povertà ed il rifiuto di ogni piacere della vita. Ebbene, quando l'uomo non vuole più niente, e giunge dunque alla nolontà, allora avrà davvero sconfitto la volontà di vivere. Quando l'asceta giunge a contemplare il mondo come un puro nulla (il nirvana delle filosofie orientali), allora la volontà di vivere viene soppressa. Giacché la volontà di vivere si manifesta nel mondo, di cui è l'essenza, ad essa è per contro impedita ogni manifestazione qualora il mondo sia concepito come un nulla. Il pessimismo di Schopenhauer giunge così a conclusioni di nichilismo drastico (il mondo non vale niente), ripreso poi in forma diversa da Nietzsche, suo discepolo.

Invero, la teoria orientalista dell'ascesi costituisce la parte più debole del pensiero di Schopenhauer. Se la volontà di vivere si identifica con la struttura essenziale del reale come si può ipotizzare il suo annullamento da parte dell'asceta? In che modo la volontà, la cui sostanza è appunto il volere, ad un certo momento può essere in grado di non volere, rinunciando al proprio voler prevalere? Per non dire, inoltre, che la fuga ascetica dalla vita è atto individuale che contrasta con l'ideale etico della compassione verso il prossimo.

Nella prima metà dell'Ottocento, allorquando prevaleva l'ottimismo della filosofia idealistica, il pessimismo e la filosofia di Schopenhauer non furono accettati ed ebbero poco successo. Ma il suo influsso si fece sentire in seguito, con la caduta delle illusioni che avevano fatto sperare nelle rivoluzioni del 1848 e col diffondersi di un nuovo clima culturale.
In campo filosofico l'ascendente di Schopenhauer è presente in Kierkegaard ed ancor più in Nietzsche in ordine alla tematica del nichilismo. Ispirò anche Bergson, Wittgenstein, Heidegger e Horkheimer. La sua influenza si estese anche alla letteratura e all'arte con Thomas Mann e Wagner.