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domenica 18 marzo 2018

Charles Bukowski. Solo Tu. Nessuno può salvarti se non tu stesso.





La gente si aggrappava ciecamente a tutto quello che trovava: comunismo, macrobiotica, zen, surf, ballo, ipnotismo, terapie di gruppo, orge, ciclismo, erbe aromatiche, cattolicesimo, sollevamento pesi, viaggi, solitudine, dieta vegetariana, India, pittura, scultura, composizione, direzione d’orchestra, campeggio, yoga, copula, gioco d’azzardo, alcool, ozio, gelato allo yoghurt, Beethoven, Bach, Budda, Cristo, meditazione trascendentale, succo di carota, suicidio, vestiti fatti a mano, viaggi aerei, New York City, e poi tutte queste cose sfumavano e non restava niente. La gente doveva trovare qualcosa da fare mentre aspettava di morire. Era bello avere una scelta: Io l’avevo fatta da un pezzo la mia scelta. Alzai la bottiglia di vodka e la bevvi liscia. I russi sapevano i fatti loro.
Charles Bukowski, “Pulp. Una storia del XX secolo”


Invece dovrei imparare a sparire, a un certo punto, perché tanto alle persone piace sentire la mancanza di qualcuno, più della sua presenza. Fanno così: dicono che vorrebbero qualcuno che non se ne vada mai, poi lo trovano e sai a chi pensano? A chi non c’è.
Charles Bukowski


Non mi fido molto delle statistiche, perché un uomo con la testa nel forno acceso e i piedi nel congelatore statisticamente ha una temperatura media.
Charles Bukowski



Ti ho dato tante di quelle occasioni che avresti dovuto portarmi via parecchio tempo fa.
Charles Bukowski



Questa è la debolezza che mi ha procurato più guai: 
cercando di essere gentile con gli altri 
spesso mi ritrovo con l'anima a fettucce.
Charles Bukowski


Mi hanno piantato dentro così tanti coltelli 
che quando mi regalano un fiore 
all’inizio non capisco neanche cos’è. 
Ci vuole tempo.
Charles Bukowski




Ben venga il caos
perché l'ordine non ha funzionato.
Charles Bukowski


Stai diventando quello che hai sempre odiato?
Charles Bukowski


Passai accanto a duecento persone e non riuscii a vedere un solo essere umano.
Charles Bukowski


Quando tutti si è uguali, tutti si è nessuno.
Charles Bukowski

Le persone mi spaventano, le folle di persone. Sono tutti così sani di mente.
Sanno tutti cosa fare, cosa dire. Quei coglioni mi terrorizzano.
Charles Bukowski

Attenti a quelli che cercano continuamente la folla, da soli non sono nessuno.
Charles Bukowski

Finchè ti preoccupi di ciò che pensano gli altri, appartieni a loro.
Charles Bukowski



Prima di distruggere qualcosa assicuratevi di avere qualcosa di meglio per sostituirlo.
Charles Bukowski


La gente è il più grande spettacolo del mondo. 
E non si paga il biglietto.
Charles Bukowski

A volte mi sento come fossimo tutti prigionieri di un film. 
Sappiamo le battute,sappiamo dove metterci,come recitare, 
manca solo la macchina da presa. 
Però non possiamo uscire dal film. Ed è un brutto film.
Charles Bukowski


Non voglio molto, ma non riesco ad avere nemmeno quel poco che voglio.
Charles Bukowski


La vita era davvero insopportabile, solo che alla gente era stato insegnato a fingere che non lo fosse. Ogni tanto c'era un suicidio o qualcuno entrava in manicomio, ma per la maggior parte le masse continuavano a vivere fingendo che tutto fosse normalmente piacevole.
Charles Bukowski


Sento il dolore che mi si arrampica addosso. 
È come una seconda pelle. Vorrei potermela sfilare come fanno i serpenti.
Charles Bukowski


Caddi in uno dei miei patetici periodi di chiusura. Spesso,con gli esseri umani, buoni e cattivi, i miei sensi semplicemente si staccano, si stancano: lascio perdere. Sono educato. Faccio segno di si. Fingo di capire, perché non voglio ferire nessuno. Questa è la debolezza che mi ha procurato più guai. Cercando di essere gentile con gli altri spesso mi ritrovo con l'anima a fettucce, ridotta ad una specie di piatto di tagliatelle spirituali. Non importa… Il mio cervello si chiude. Ascolto. Rispondo. E sono troppo ottusi per rendersi conto che io non ci sono…”
Charles Bukowski


Solo Tu.
Nessuno può salvarti se non tu stesso.
Sarai continuamente messo in situazioni praticamente impossibili.
Ti metteranno continuamente alla prova con sotterfugi, inganni e sforzi per farti capitolare, arrendere e/o morire silenziosamente dentro.
Nessuno può salvarti se non tu stesso e sarà abbastanza facile fallire davvero facilissimo ma non farlo, non farlo, non farlo.
Guardali e basta.
Ascoltali.
Vuoi diventare così?
Un essere senza volto, senza cervello, senza cuore?
Vuoi provare la morte prima della morte?
Nessuno può salvarti se non tu stesso e vale la pena di salvarti.
È una guerra non facile da vincere ma se c’è qualcosa che vale la pena vincere è questa. Pensaci su.
Pensa al fatto di salvare il tuo io.
Il tuo io spirituale.
Il tuo io viscerale.
Il tuo io magico che canta e il tuo io bellissimo.
Salvalo.
Non unirti ai morti-di-spirito.
Mantieni il tuo io con umorismo e benevolenza e alla fine se necessario scommetti sulla tua vita mentre combatti, fottitene del prezzo.
Fallo!fallo!
Allora saprai esattamente di cosa sto parlando.
Charles Bukowski


Cresciamo con i danni,
non con gli anni.
Charles Bukowski


Ma forse un giorno tu busserai ancora alla mia porta ed io, mi amerò così tanto da non aprire.
Charles Bukowski



C’è abbastanza perfidia, odio, violenza, assurdità nell’essere umano medio
per rifornire qualsiasi esercito in qualsiasi giorno

E i migliori assassini sono quelli che predicano la vita
E i migliori a odiare sono quelli che predicano l’amore
E i migliori in guerra – in definitiva – sono quelli che predicano la pace

Quelli che predicano Dio hanno bisogno di Dio
Quelli che predicano la pace non hanno pace
Quelli che predicano amore non hanno amore

Attenti ai predicatori
Attenti ai sapienti
Attenti a quelli che leggono sempre libri
Attenti a quelli che o detestano la povertà
o ne sono orgogliosi
Attenti a quelli che sono sempre pronti ad elogiare
poiché hanno loro bisogno di elogi in cambio
Attenti a quelli pronti a censurare
hanno paura di quello che non sanno
Attenti a quelli che cercano continuamente
la folla; da soli non sono nessuno
Attenti agli uomini comuni alle donne comuni
attenti al loro amore,
Il loro è un amore comune
che mira alla mediocrità

Ma c’è il genio nel loro odio
c’è abbastanza genio nel loro odio per ucciderti
per uccidere chiunque.
Non volendo la solitudine
non concependo la solitudine
cercheranno di distruggere tutto ciò
che si differenzia da loro stessi.
Non essendo capaci di creare arte
non capiranno l’arte.
Considereranno il loro fallimento, come creatori,
solo come un fallimento del mondo intero.
Non essendo in grado di amare pienamente
considereranno il tuo amore incompleto
e poi odieranno te
e il loro odio sarà perfetto.

Come un diamante splendente
Come un coltello
Come una montagna
Come una tigre
Come cicuta

La loro arte più raffinata.

 Bukowski





Charles Bukowski, Giorni come rasoi, notti piene di ratti.
Quando ero molto giovane
dividevo equamente il mio tempo tra bar e biblioteche;
come poi riuscissi a provvedere agli
altri miei normali bisogni resta un mistero;
boh, semplicemente non me ne preoccupavo più di tanto -
se avevo un libro o qualcosa da bere allora non pensavo troppo
e tutto il resto – gli scemi riescono a crearsi un paradiso
tutto loro.
Quando stavo al bar, pensavo di essere un duro, spaccavo le cose, facevo a botte con gli altri, ecc.
Nelle biblioteche era un’altra storia: me ne stavo zitto, giravo
da una sala all’altra, i libri non li leggevo tanto per intero
ma a pezzetti: medicina, geologia, letteratura e
filosofia, psicologia, matematica, storia,
e quelle cose lì mi davano la nausea.
E per la musica ero più interessato alla musica vera e propria
e alle vite dei compositori che agli aspetti tecnici…
Comunque, era con i filosofi che sentivo un senso di fratellanza:
Schopenhauer e Nietzsche e, anche se era difficile da leggere, pure il vecchio Kant;
trovavo che Santayana, che al tempo era parecchio famoso, fosse
fiacco e noioso, con Hegel invece ti dovevi fare un vero mazzo, soprattutto
se la sera prima avevi bevuto; c’è tanta gente che ho letto e che mi sono scordato,
e probabilmente non mi sono perso niente, ma mi ricordo di un tizio che ha scritto un
libro intero nel quale dimostrava che la luna non c’è
e ci riusciva così bene che alla fine tu pensavi, quest’uomo
ha assolutamente ragione, la luna non c’è.
Come poteva un ragazzo degnarsi di andare a lavorare
otto ore al giorno quando non c’era più nemmeno la luna?
Cos’altro ti potevano togliere?
E non mi piaceva tanto la letteratura quanto piuttosto i critici
letterari; erano dei veri cazzoni, quei tizi; usavano
un linguaggio raffinato, a suo modo splendido, per dire agli altri
critici, agli scrittori, che erano dei rottinculo.
Mi rincuoravano.
ma erano i filosofi che soddisfacevano
quel bisogno
che si celava da qualche parte nella mia testa confusa: immergendomi
nei loro eccessi e nel loro
farraginoso vocabolario,
spesso mi
incantavano
saltavano fuori
con affermazioni azzardate infiammate che mi sembravano
verità assoluta o maledettamente vicine
alla verità assoluta,
e questo tipo di sicurezza era quello che cercavo per la vita
di ogni giorno, che assomigliava molto di più
a un pezzo di cartone.
Quei tizi erano dei grandi, mi hanno fatto sopportare
giorni come rasoi e notti piene di ratti; mentre le donne
tiravano sul prezzo come banditrici venute dall’Inferno.
I miei fratelli, i filosofi, loro mi parlavano come
nessun altro per strada o in giro aveva fatto mai; riempivano
un vuoto immenso.
Che bravi ragazzi, oh, davvero dei bravi ragazzi!
Eh sì, le biblioteche sono state utili; ma nel mio altro tempio, nei
bar, era un’altra storia, più semplificata, le parole
e i comportamenti erano diversi…
i giorni in biblioteca, le notti al bar.
Le notti erano simili,
hai qualcuno seduto vicino, e magari non è
neanche un tipo cattivo, ma a me non ispira per niente,
c’è un’orribile aria di morte lì dentro – penso a mio padre,
ai miei professori, alle facce che stanno sulle monete e le banconote,
ai sogni popolati da assassini con occhi spenti; be’,
in un modo o nell’altro io e questo tizio prendiamo a scambiarci delle occhiate,
una rabbia violenta inizia lentamente a montare: siamo nemici, cane e
gatto, prete e ateo, acqua e fuoco; la tensione cresce,
mattone su mattone, in attesa del crollo; le mani
giunte e poi sciolte, beviamo, adesso, finalmente abbiamo uno scopo:
si gira verso di me:
“Amico, c’è qualcosa che non va?”
“Come no, sei tu”.
“E ci vogliamo fare qualche cosa?”
“Sicuro”.
finiamo di bere, ci alziamo, e usciamo sul retro del
bar, fuori nel vicolo; ci giriamo
e siamo uno di fronte all’altro.
io gli dico: “Tra noi due non c’è altro che questa distanza: a te
ti va di eliminarla?”
lui mi si getta addosso e in qualche modo è soltanto una parte della parte della parte.

Da “Le poesie dell’ultima notte della Terra”




Libero arbitrio. Che tutti gli uomini nascono liberi è un sacrosanto principio giusnaturalistico recepito nelle Costituzioni figlie dell'Illuminismo. Ma se dal piano dei diritti si passa a quello dell'analisi della psiche dei singoli individui il "libero arbitrio" funziona solo in ambito religioso, ed è cioè un articolo di fede. Nasciamo "gettati nell'esistenza" in una situazione che non scegliamo e con la quale dobbiamo fare i conti essendo da essa, al di là delle nostre eroiche illusioni, profondamente determinati per tutto il corso della nostra vita.


Destino e/o libero arbitrio..

"Proprio come siamo inclini ad ammettere che il mondo sia come noi lo vediamo, così si suppone anche ingenuamente che gli uomini siano come noi ce li immaginiamo. ... Chiunque si crea in tal modo una serie di rapporti più o meno immaginari fondati essenzialmente su queste proiezioni...

L'uomo che lascia straripare la sua libido fissata all'ambiente dell'infanzia e non la libera per incanalarla verso mete più alte, cadrà in potere di una coazione inconscia. Ovunque egli sia, l'inconscio tornerà sempre a creargli l'ambiente infantile a causa della proiezione dei suoi complessi, ristabilendo così,di continuo e contro i suoi interessi vitali,la stessa dipendenza e la stessa carenza di libertà che in passato caratterizzavano il suo rapporto con i genitori
Il suo destino non è più nelle sue mani."
C.G.Jung 
da "La libido,simboli e trasformazioni"


“Non facciamo quello che vogliamo, ma tuttavia siamo responsabili di quel che siamo"
Jean Paul Sartre

Alessandra Govoni
Si potrebbe riassumere il discorso con questa frase di Sartre...
Siamo dotati di intelletto e raziocinio, teoricamente vige il libero arbitrio...
In verità siamo anche dotati di un corredo genetico complesso e siamo influenzabili dal nostro ambiente.. Imitiamo quello che ci circonda, possiamo anche contrapporci, elaborare e distinguerci.. 
Sta di fatto che nella maggioranza delle persone non vedo la consapevolezza e l‘analisi a 360 gradi delle proprie azioni..Molti sono marionette che si adattano ai vissuti parentali e all‘ambiente esterno, con l‘aggravante dell‘egoismo ben sviluppato...
Figli del proprio tempo che se l‘aggiustano a proprio piacimento..

Paolo Gentili 
A parte il fatto che il destino (cos'è?) non è mai nelle nostre mani, a meno non decidiamo di suicidarci (e allora lo è solo nel momento fatale) rimanere con un inconscio infantile può essere meraviglioso, quando se ne è consapevoli, e le terapie se non c'inguaiano (ma io non ne ho mai fatte, parlo scherzosamente, epperò col massimo rispetto per chi è sotto cura) non modificano nulla, credo, al massimo ci rendono un po' più consapevoli di noi stessi. 
Almeno questo è il parere di un "puer aeternus"...😊


Mauro Errico 
Per Jung il destino è prodotto dall'inconscio
E quindi attraverso la consapevolezza l'uomo ha la possibilità di autodeterminare la sua vita.
Il destino è il nome che si dà alla vita che l'inconscio decide per chi ne è inconsapevole.
Maggiore è la consapevolezza maggiore l'auto determinazione e di conseguenza la libertà. 
Concetti comunque da intendersi sempre relativamente e non in senso assoluto. 
L'inconscio comunque esiste.

Renato Solinas 
Il destino non esiste! E' una forma strutturata di superstizione
Credere nel destino può fare comodo a chi non è capace di assumersi la responsabilità dei propri comportamenti e delle proprie scelte. 
In realtà noi scegliamo sempre
i nostri successi li chiamiamo "fortuna", 
i nostri insuccessi "scalogna", "sfiga" ecc.
Credere che ci sia un "destino" che governa la vita delle persone è come credere al gatto nero che ci attraversa la strada, inutile e sciocca superstizione. Dovremmo tutti assumerci la responsabilità delle nostre azioni e di quello che producono, troppo comodo attribuirne la colpa al destino.🍀🍀


Renato Solinas 
L'uomo è libero [...]. Il fatto che l'uomo può essere prigioniero di condizionamenti che ne determinano le scelte è solo incidentale. Il concetto di "libero arbitrio" la dice lunga sulla nostra possibilità di scelta. Tutti nasciamo liberi, poi il processo di socializzazione a cui siamo sottoposti nell'età evolutiva e le dinamiche familiari ci creano dei vincoli che condizionano le nostre scelte. Il primo passo da compiere per tornare ad essere liberi è quello di assumerci le responsabilità delle nostre azioni e superare l'illusione del fatalismo.

Paolo Gentili 
Non sono d'accordo Renato. 
Che tutti gli uomini nascono liberi è un sacrosanto principio giusnaturalistico recepito nelle Costituzioni figlie dell'Illuminismo. Ma se dal piano dei diritti si passa a quello dell'analisi della psiche dei singoli individui il "libero arbitrio" funziona solo in ambito religioso, ed è cioè un articolo di fede. Nasciamo "gettati nell'esistenza" in una situazione che non scegliamo e con la quale dobbiamo fare i conti essendo da essa, al di là delle nostre eroiche illusioni, profondamente determinati per tutto il corso della nostra vita. L'unico relativo spazio di libertà è quello (potentissimo) della nostra immaginazione, da cui derivano l'arte e la conoscenza (anche quella scientifica e tecnica) nostri unici strumenti di "libertà" .


Paolo Gentili 
Se ti cade una tegola in testa è determinato dall'inconscio?  🤔😆

Mauro Errico 
Paolo Gentili ho detto prima che il discorso non va inteso in senso assoluto. 
La tegola no. È un incidente. Ma chi hai sposato si. E alcuni lo considerano destino.



Paolo Gentili
Sartre dice che l'uomo è "condannato ad essere libero" nel senso che gettato nell'esistenza deve per forza fare delle scelte, anche quella costante di restare in vita o suicidarsi. S. quindi mette in evidenza l'assurdo dell'esistenza. Personalmente a lui preferisco Camus: ma il discorso è troppo lungo. Buonanotte! 😊



Paolo Porcina 
Chissà cosa ne penserà Gustav di queste nostre riflessioni/interpretazioni!!


Rosanna Pizzo 
Ritengo che questo tema sia molto più diffuso di quanto non si creda, e che molta gente rimanga prigioniera degli apprendimenti che l'hanno condizionata nell'infanzia, con esiti diversi che vanno secondo un continuum dal disagio, dai disturbi dell' affettività che si manifesta in tanti modi fino alla omicidio-suicidio. Altrimenti, non risulterebbe comprensibile quanto ci riferiscono i mass media sul mondo che abitiamo e che ci circonda, un esempio é costituito, a mio avviso, dalle tragedie familiari, (l'ultima devastante, quella del carabiniere che ha ucciso le figlie e, ha tentato di uccidere la moglie per poi suicidarsi) dagli stessi femminicidi, ormai all'ordine del giorno che rinviano, spesso, ad appartenenze familiari pregresse , quindi attinenti le famiglie d'origine,dalle quali di fatto non si é mai usciti, in cui serpeggiano patologie coperte , che poi vengono messe in scena con atti eclatanti e distruttivi, le cui cause sono difficili da identificare, ovviamente... 
Proprio come dice Jung "L'uomo che lascia straripare la sua libido fissata all'ambiente dell'infanzia e non la libera per incanalarla verso mete più alte,cadrà in potere di una coazione inconscia.. Ovunque egli sia, l'inconscio tornerà sempre a creargli l'ambiente infantile a causa della proiezione dei suoi complessi, ristabilendo così,di continuo e contro i suoi interessi vitali,la stessa dipendenza e la stessa carenza di libertà che in passato caratterizzavano il suo rapporto con i genitori. Il suo destino non è più nelle sue mani."



Lucia Porcelli
Credo che ci si debba educare sin da piccoli al pensiero corretto, una volta si diceva che ogni sera ognuno di noi dovrebbe farsi un piccolo esame di coscienza sul vissuto della giornata e sembra oggi un richiamo infantile e invece penso che se siamo vittime del pensiero proiettivo è proprio perchè abbiamo un'anima rozza, immatura, incapace di porsi domande anche crudeli con se stessi. E' un esercizio continuo e una vocazione quella che ci porta alla libertà o al libero arbitrio sempre nei limiti dell'umano, la società ci ha insegnato invece a correre, ad anticipare, ad essere supponenti, a vincere, a tirare rapidamente le somme. La pulsione ha la meglio sul pensiero e la pulsione, lo scatto porta all'errore privo del pentimento che richiederebbe appunto un pensiero evoluto. Anche l'elaborazione del passato e la capacità di accogliere l'errore dei nostri genitori come elemento di analisi e di comprensione nonchè di strumento per una partenza individuale diversa nasce da una capacità perduta di quella lentezza profonda e piena di senso che gli orientali chiamano meditazione. L'Occidente è vittima di una irrecuperabile schizofrenia dovuta ad una strutturale ormai frattura cartesiana tra mente e corpo che nessuna psicoanalisi potrà guarire.


«Ciò che manca al nostro mondo è la connessione psichica, che nessun collegio di esperti, nessuna comunità di interessi, nessun partito, nessuno Stato potrà mai surrogare.» 
Jung


Chi percepisce contemporaneamente la propria ombra e la propria luce, vede se stesso da due lati e, in tal modo, raggiunge il centro » 
Jung Simbolo e Conoscenza pag 196


Ariella Williams 
Educare al pensiero corretto è un'utopia perché presume dei valori e delle modalità oggettive. Ciascuno è un prodotto unico, fatto di componenti altrettanto uniche, ciascuna l'effetto di un complesso di accidenti ed incidenti irriproducibili e unici anche loro. Il concetto di corretto dev'essere inteso solo relativamente e anche questo sarà comunque limitato all'ottica del momento e della persona/gruppo. Purtroppo troppi si sono accaparrati il ruolo di arbitres del corretto più per sete di potere che per motivi altruisti e disinteressati, e di questi sia la storia che la quotidianità ne sono piene.


Lucia Porcelli 
anche il nichilismo ha il suo potere e personalmente condivido con Galimberti quanto scrive a proposito dell'Ospite Inquietante


Ariella Williams 
 Lucia Porcelli sono d'accordo che bisogna allargarsi al concetto in senso lato, ma quando si parla di comportamenti, atteggiamenti, senso di sé nel contesto che ci ospita, ecc., si parla sempre di costrutti artificiosi, seppure vissuti in buona fede, e quindi con un'infinità di varianti. Viviamo in una società, quella occidentale intendo, che è costruita sempre più sulla base del bisogno e dei modi per soddisfarlo, e questo porta progressivamente all'intorpidimento e all'atrofia di altre pulsioni più indipendenti e quindi implicitamente più critiche dello status quo e meno legate simbioticamente al paradigma do ut des, che ci lega sempre più a chi dà in cambio del nostro essere.

Lucia Porcelli 
bisogna allenarsi contro quell'intorpidimento e non darla vinta a questa società del do ut des .


Ariella Williams 
Per allenarsi ci vuole un coach che non sia nelle tasche di sponsors senza scrupoli. Basta vedere come hanno approfittato le varie chiese quando sono state messe in quel ruolo

Lucia Porcelli 
ma lascia perdere le chiese pensa piuttosto al male che hanno fatto i cattivi maestri del relativismo manipolatorio


Ariella Williams 
Come si fa a lasciar perdere le chiese quando il peggior relativismo manipolatorio è sempre venuto da loro, al servizio del potente di turno? E continua ancora adesso, dietro la facciata del politically correct. Professionalmente parlando, i problemi presentati dai miei clienti/pazienti erano sempre inequivocabilmente causati da un'immagine di sé storpiata dalle ottiche altrui e da imperativi introiettati fin da piccoli perché le figure di riferimento li avevano educati così. Siamo tutti in un ingranaggio che mira a nascondere la vera essenza individuale a beneficio del nostro ruolo di consumatori



Sabrina Panini 
Il destino non esiste. Esistono le casualità che ci fanno nascere bianchi o neri, uomini o donne; che ci fanno appartenere a una cultura piuttosto che a un'altra. Con il nostro bagaglio di coincidenze che ci definiscono alla nascita, cominciamo il nostro viaggio fatto di scelte più' o meno libere, di decisioni più o meno consapevoli. Esiste il libero arbitrio dunque, ma la potenza con cui può essere esercitato varia a seconda della situazione di partenza che ne condiziona l'efficacia in termini di ricadute effettive sulla vita reale.


L’epistemologia convenzionale che chiamiamo “normalità”, esita a rendersi conto che le proprietà sono solo differenze e che esistono solo nel contesto, solo, nella relazione. Noi astraiamo dalla relazione e dalle esperienze di interazione per creare oggetti e dotarli di caratteristiche. Allo stesso modo esitiamo ad ammettere che il nostro stesso carattere è reale solo nella relazione. Noi astraiamo dalle esperienze di interazione e di differenza per dar vita a un sé che dovrà continuare (dovrà essere reale o cosale) anche al di fuori della relazione” .
Gregory Bateson, Verso un’ecologia della mente


Rosanna Pizzo 
Quindi, a mio avviso, come dice Bateson, la relazione è fondativa, dell’essere al mondo dell’uomo.
Infatti, l'uomo nasce nella relazione, tant'è che il cosiddetto apprendimento 2 o duedeutero-apprendimento, di batesoniana memoria, è una maniera di segmentare l'esperienza attraverso sequenze di relazioni apprese.
Esso non può essere verificato attraverso la realtà, non è né giusto, né sbagliato: è solo un modo di conoscere e strutturare delle abitudini di pensiero, durante l'infanzia, è inconscio e come tale inestirpabile. Per cui c'é un problema delle origini con cui dobbiamo fare i conti e quindi in parte il destino é l'appartenenza familiare e gli apprendimenti acquisiti all'interno di detto contesto da cui muoviamo nel bene e nel male.


Lucia Porcelli 
dotta disquisizione come sempre Rosanna ma io non condivido se non in parte, penso che gli intellettuali spesso chiudono quell'ipertesto che è la vita dalle infinite possibilità senza volerlo. Quando pensavo al pensiero corretto (espressione infelice) non intendevo un pensiero escludente ma un pensiero includente , un pensiero che accoglie il mistero ....unica salvezza, unica libertà, quell'amore che Jung disse di non essere riuscito a comprendere perchè ci induce a percepire contemporaneamente la propria ombra e la propria luce ma così facendo anche quella dell'altro uscendo dal proprio destino e dal pensiero proiettivo, stabilendo cioè quell'unica possibile relazione che chiamiamo anima. L'anima è relazione o non è. Prima di morire il più grande scienziato della modernità ci lasciò questo messaggio "se vi capita di cadere in un buco nero non vi rassegnate perchè una uscita esiste" e questo ci dice molte cose su cui riflettere e lavorare su noi stessi.













giovedì 15 marzo 2018

Miloš Forman, Qualcuno volò sul nido del cuculo. Ma ricorda una cosa: non ero stato io a cominciare a fingermi sordo: era stata la gente a comportarsi come se io fossi troppo stupido per udire, o vedere, o dire qualsiasi cosa.

Cuckoo’s Nest” in americano significa “manicomio” e “cuckoo” sta per “pazzo”. 
C’è una nota filastrocca che ci riporta a questo nome: 
“Three geese in a flock, one flew East,one flew West, one flew over the cuckcoo’s nest” 
(“Uno stormo di tre oche, una volò ad est, una volò ad ovest, una volò sul nido del cuculo“). 
Il destino, l’imprevedibilità e la casualità della vita porta qualcuno a diventare pazzo o ad essere considerato tale. 
http://www.cameralook.it/web/camera-psycho-qualcuno-volo-sul-nido-del-cuculo-lamara-filastrocca-di-milos-forman/


"Il nido del cuculo" (the cuckoo's nest) al quale si fa riferimento nel titolo è una delle molte espressioni del gergo americano che indicano il manicomio
Esiste anche una filastrocca che ha un verso che suona così: 
Three geese in a flock, one flew East, 
one flew West, 
one flew over the cuckoo's nest 
"Uno stormo di tre oche, 
una volò ad est, 
una volò ad ovest, una volò sul nido del cuculo". 

Tuttavia di questa filastrocca non c'è traccia nel film, 
mentre costituisce uno degli elementi essenziali del romanzo di Kesey.

https://it.wikipedia.org/wiki/Qualcuno_vol%C3%B2_sul_nido_del_cuculo



Ma ricorda una cosa: non ero stato io a cominciare a fingermi sordo:
era stata la gente a comportarsi come se io fossi troppo stupido
per udire, o vedere, o dire qualsiasi cosa.
Miloš Forman, Qualcuno volò sul nido del cuculo, 1975


L'ultima volta che l'ho visto era ubriaco fradicio, gli occhi bruciati dall'alcool.
Ogni volta che portava la bottiglia alla bocca, non era lui che la beveva:
era la bottiglia che gli beveva il cervello.
Miloš Forman, Qualcuno volò sul nido del cuculo, 1975



“Oggi non soffro più però sono un vegetale”.
“Però hanno reso afoni i miei sentimenti”
“Uscire dal manicomio è già di per se un miracolo”
“Bartolini disse”Il manicomio è dolore inutile”
“Un demente morto in manicomio non passerà davvero alla storia”
(Dall’intervista di Guido Spaini 1991 ad Alda Merini, in “Alda Merini – Elettroshock” Ed.Fiabesca)

La rivolta dalmato-pannonica (6-9 d.C.). Quando infine Tiberio gli chiese come mai avesse condotto i Dalmati in quella guerra, Batone rispose che la colpa era dei Romani stessi, che per guardare le loro greggi (ovvero i popoli sottomessi) non avevano inviato né cani né pastori, ma lupi. La guerra era finalmente finita. Come commenta Dione Cassio, fu una guerra che comportò ai Romani una enorme spesa di denaro e di uomini, dalla quale non si potè ricavare che un magro bottino. Anche la mancata spedizione marcomannica per portare totalmente il confine dello Stato al fiume Elba, non era ormai che un lontano ricordo. Un trionfo che potè essere celebrato solo molto più tardi. Non si fece in tempo a dare notizia della vittoria in Dalmazia, che appena cinque giorni dopo giunse la terribile notizia che, molto più a nord, era appena avvenuto il massacro di tre legioni romane, in quella che passò alla storia come clades Variana: Teutoburgo.

Burebista.
Le fonti storiche lo ricordano come il più grande e temibile sovrano di Dacia, capace di radunare sotto i suoi vessilli, secondo Strabone, 200 mila guerrieri. Stiamo parlando di Burebista, contemporaneo di Caio Giulio Cesare e suo acerrimo nemico. Regnò sulla Dacia, l’odierna Romania, dal 70 al 44 a.C.: accumulò ricchezze sfruttando gli enormi giacimenti minerari della regione e donò nuova prosperità al suo popolo, determinando una crescita demografica straordinaria.

Ma dopo aver riformato lo Stato, egli rivolse la sua attenzione ai confini:
unificò i popoli della Tracia sotto il suo comando, conquistò i centri romani sul Mar Nero, assoggettò parte dell’Illiria e infine, risalendo il Danubio, espanse i suoi domini fino alla Pannonia, odierna Ungheria. Questa politica estera aggressiva portò alla necessaria migrazione di molti popoli semi-nomadi che si erano stanziati nella zona dei Balcani. In particolare dopo la conquista del Lago Balaton, in Pannonia, avvenuta nel 58 a.C., Boi e Taurisci, popoli di origine celtica, migrarono verso il Norico, l’odierna Austria, e la regione degli Elvezi, ovvero l’altopiano svizzero. 

Nel frattempo, soltanto un anno prima, Caio Giulio Cesare era divenuto proconsole della Gallia Cisalpina e dell’Illirico, che comprendeva la regione di Aquileia e la costa della Dalmazia. L’imponente migrazione dei Boi costrinse Cesare ad approntare misure difensive per impedir loro di sfondare la linea delle Alpi Carniche ed entrare nella penisola. Tre legioni vennero stanziate presso Aquileia, pronte a marciare verso i Balcani. Di fronte ad un tale dispiegamento di forze i Boi ripiegarono verso le rive del Danubio e allo stesso modo i Daci di Burebista preferirono limitarsi a consolidare il controllo della Pannonia, senza offrire all’ambizioso Cesare un valido pretesto per muovere loro guerra. Ma ben presto si presentò al condottiero l’occasione di conquistarsi la fama militare cui tanto ambiva. Spinti dalla migrazione dei Taurisci, gli Elvezi decisero di spostarsi, marciando in armi verso la Gallia Narbonense, provincia romana dal 121 a.C. Cesare, approfittando dell’improvvisa morte del proconsole, si fece affidare la regione e, con il pretesto di difenderla dall’invazione elvetica, diede inizio alla campagna militare che lo porterà, nel 50 a.C., alla conquista dell’intera Gallia.

Ma la politica d’espansione di Burebista non aveva smesso di minacciare i confini romani.
Tra il 56 e il 55 a.C. Cesare era impegnato in Belgio, da dove progettava di sbarcare in Britannia.
Nel frattempo la pressione di Burebista costrinse Pirusti e Giapidi, popoli dell’Illirico, a migrare verso la penisola. Le loro scorrerie si spinsero fino al castrum di Tergeste, che venne saccheggiato e distrutto. Cesare, vedendo minacciate le regioni che si era lasciato alle spalle e rischiando di vedere interrotti i suoi contatti con la penisola, inviò il suo luogotenente Tito Labieno al comando delle Legio XV per risolvere il conflitto. Sconfitti Pirusti e Giapidi, Cesare elevò il castrum di Cividale al rango di Forum Iuli Transpadanorum, per il controllo delle Alpi Carniche e ordinò la ricostruzione di Tergeste, dapprima con il rango di municipium e poi di colonia. Cesare diede così vita alla Regio X Venetia et Histria, che aveva in Tergeste il suo avamposto strategico più liminare.

Trieste sorge in una zona abitata fin dal X secolo a.C. da popolazioni paleovenete, alle quali, volendo dar fede ai linguisti, deve la sua fondazione (-este è il suffisso tipico dei toponimi venetici). Deve la sua fortuna proprio alla politica estera aggressiva di Burebista, che costrinse i Romani a fortificare la regione e a fare di Trieste uno snodo di difesa cruciale. Dapprima semplicemente assoggettati, i tergestini furono costretti a subire dalla metà del I secolo a.C. la colonizzazione romana, ovvero lo stanziamento di cittadini romani in città. In cambio la città ottenne notevole prestigio e i privilegi concessi ai cittadini pleno iure. La fortezza del primo nucleo abitativo romano si trovava probabilmente presso il colle di San Giusto. La pacificazione della regione in età augustea favorì la nascita dei commerci: Tergeste divenne un porto fiorente. Lo sviluppo urbano che coinvolse la città verso la fine del I secolo ne è testimonianza: vengono costruiti il Foro, il Teatro, l’Arco di Riccardo e una prima cinta muraria. La città raggiungerà la sua massima espansione sotto Traiano, il princeps che nel 106 d.C. conquisterà definitivamente proprio la Dacia, causa incosapevole delle fortune di Trieste. Strane coincidenze della Storia.

http://www.loppure.it/burebista-cesare-e-tergeste/



Il programma di espansione di Augusto.


Liceo Classico Giulio Cesare - Roma
Flavia Giontella Francesca Mariani Beatrice Marsili - V E.

La Romanizzazione fu un processo attraverso il quale Roma riuscì ad integrare culturalmente e politicamente i popoli che aveva vinto. Il fenomeno fu più profondo in occidente perché l’oriente era già largamente “ellenizzato”.

Il Reno e il Danubio si configurano come frontiera che divide il cosmo civilizzato dei Romani dal caos della “Barbarie”. Il Reno respinge i Germani, ”gente avida di guerra”, e fissa un limite per contenere quelle terre inquiete e arginare l’aggressività delle sue tribù:
“…Rhenus Germaniae modem faciat…”
(Seneca Nat. Questiones, praef. 9)

Il Reno, per le sue dimensioni, impressiona i Romani. Giulio Cesare è il primo a descriverne il corso, lo definisce “…latissimo atque altissimo…” (B.Gall. I. 2,3). Anche il freddo clima nordico diventa una caratteristica specifica del fiume e diviene transitabile per il gelo: una delle tante anomalie in cui i Romani s’imbattono nell’esplorazione di quel mondo straordinario. “Rhenus gelu pervius.”

Cesare “doma” il Reno.
Il primo Romano che attraversa quella frontiera “liquida”, oltre il quale si apre “il vuoto della barbarie” (Borca), fu Giulio Cesare. Fu il primo a farlo con un esercito dopo aver unito le sponde con un ponte in modo straordinario.

Cesare scrive che molte sono le ragioni per passare il Reno, ma la più legittima, “iustissima causa” è far comprendere ai Germani che l’esercito Romano ha la capacità e il coraggio di attraversare il fiume. Il ponte fu costruito nel 55 a C., in una località (Neuwied) a 15 km a valle di Coblenza ed a sud di Bonn. Descritto da Cesare, il ponte era costruito in modo tale da sfruttare la spinta delle acque del fiume per stabilizzare la sua struttura. Nel tentativo di svelarne l’assetto architetti come Alberti e matematici come Cardano formularono ipotesi, ma nessuno arrivò alla soluzione.
Fu Andrea Palladio a ricostruirne la struttura (1570).

Attraversato e “domato” il Reno, l’esplorazione al nuovo mondo germanico può dirsi iniziata.
Cesare “inventò” il Reno come confine etnico e culturale “ineliminabile” (Zecchini); da una parte i Galli sottomessi e integrati in una struttura provinciale, dall’altra un mondo vago e indefinito, lontano dai “mores Romani”.

Una catena di castelli difensivi e accampamenti militari fu tesa tra Moguntiacum e Colonia Agrippina. Dopo la conquista delle Tres Galliae da parte di Cesare (51-58 a.C.), la linea del Reno avrebbe dovuto essere la base per nuove operazioni.

Con Augusto (63 a.C-14 d.C.) i Romani progettano di espandere i loro confini sino all’Elba (Albis).

Dopo le campagne di Agrippa (38 e 25 a.C.), fu Druso nel 13 a.C. ad intraprendere un vasto programma di conquista, e costruì un canale: la Fossa Drusi (dalla foce del Reno al lacus Flevus/Zuiderzee), per agevolare le manovre della flotta, la Classis Germanica, nel Mare del Nord e numerosi castra fino all’Elba.

La Germania era il nome della provincia romana costituita dopo le prime campagne di Druso del 12-9 a.C., sotto Augusto, ad oriente del fiume Reno, nei territori che i Romani identificarono con il nome di Germania Magna. Il suo confine coincideva con il fiume Elba, fino a comprendere il potente regno boemo dei Marcomanni.

L’Aliso latina (Haltern am See) era il centro amministrativo della nuova provincia di Germania. Posizionato lungo la riva settentrionale del fiume Lippe, era formato da una serie di campi militari costruiti all'epoca di Augusto, nell'ambito del progetto di occupazione della Germania.

Abbandonato il proposito di conquista ed impostata una linea difensiva, i romani non rinunciarono ai rapporti economici con i Germani, con il conseguente “migrare” di forme e prodotti delle due culture. Si arrivò alla partizione del comando militare.
Le province, territorialmente limitate, sorsero a protezione delle Gallie.

Decumates Agri.
L'unica testimonianza antica del nome Agri Decumates proviene da Tacito.
Denominazione data dai romani ad un territorio della provincia della Germania Superior, situato sulla riva destra del Reno e comprendente la Foresta nera e il bacino del Neckar. Sull’origine della parola “decumates” sono state avanzate diverse ipotesi: per alcuni storici, i romani si rifacevano all’antico termine celtico designante la divisione politica e organizzativa dell’area in dieci cantoni o distretti; per altri, invece, il nome deriva dal fatto che ai coloni galli veniva consentito di insediarsi dietro il pagamento di una decima. Il territorio venne colonizzato durante la dinastia Flavia (69- 96 d.C.), nel corso della quale vi si costruirono fortificazioni e strade, favorendo la comunicazione tra le legioni, la difesa territoriale e la crescita sociale e economica.
I romani controllarono quest’area fino alla seconda metà del III secolo d.C.


Limes e Castra.
I confini dell’impero Romano erano in gran parte segnati da barriere naturali:
di tipo fluviale, montuoso o desertico. Barriere artificiali con agger di terra, palizzate o muri, fossati. Lungo questa “linea” i dispositivi di difesa militare erano articolati in maniera assai varia.
Ad intervalli regolari era presidiata da fortezze legionarie (castra), da forti (castella) e fortini (burgi) ausiliari, oltre che da torrette (turres) e stazioni di avvistamento (stationes).

Artigiani, fabbri, mercanti e prostitute cominciarono ad affluire ed a stabilirsi attorno ai maggiori centri militari (delle legioni e degli auxilia), prima in modo precario e poi in modo stabile, costruendo fucine, fornaci, abitazioni, horrea e lupanari.

Erano nuclei di fondamentale importanza non solo ai fini del commercio, ma anche e soprattutto un modo per civilizzare e acculturare le genti appena sottomesse o le vicine popolazioni oltre il limes, attraverso il processo noto come “romanizzazione”.
Alcune di queste s’ingrandirono al punto da essere riconosciute prima come Municipii e poi come Coloniae, tanto che, una volta divenute vere e proprie città, furono dotate di impianti termali e anfiteatri.





http://www.liceogiuliocesare.it/public/documenti/romanizzazione%20della%20germania%20PDF%20GCesare.pdf




La battaglia di Teutoburgo. Perchè Roma lasciò la Germania.
I legionari romani procedono nel profondo della foresta germanica.
Gli scudi con le insegne, il gladio che dondola su un fianco, i calzari che calpestano la terra gelata e fradicia. Sono impegnati a raggiungere la loro destinazione, circondati da alberi altissimi, cespugli verde scuro e uccelli selvatici. In un attimo, i nemici urlano, i cespugli si muovono in modo incomprensibile, è una pioggia di sassi, dardi e proiettili di ogni tipo quella che si scatena sulle loro teste, con una ferocia inaudita. Gli scudi non bastano a proteggerli.

I soldati romani capiscono in pochi attimi di essere vittime di un’imboscata, e non hanno modo di reagire né di schierarsi: continueranno, disperatamente, a marciare, bersagliati sui fianchi da un nemico invisibile. Qualcuno di loro sarà riuscito a riconoscere un rialzo di terra costellato di graticci, attraverso cui gli viene lanciato di tutto. La conoscono bene quella tecnica, è quella del terrapieno, l’hanno inventata loro. E sono consapevoli che non c’è scampo. Vengono bersagliati per due giorni; il terzo i superstiti, costretti a battaglia, vengono annientati. Ancora oggi, in alcuni musei tedeschi, si possono vedere i teschi di quegli uomini, orrendamente perforati.

Il loro generale, Publio Quintilio Varo, già ferito, quando capisce che la battaglia è perduta, si toglie la vita. Un ultimo gesto di onore. I Germani infieriscono sul suo corpo fino a staccargli la testa; che viene inviata a Marobod, re dei Marcomanni per invitarlo ad unirsi agli insorti. Gli unici a salvarsi sono una manciata di uomini che divengono però schiavi e pastori dei greggi nemici.
Tre legioni vengono inghiottite dalla foresta. E’ la disfatta di Teutoburgo.

Siamo nel 9 dopo Cristo, e dopo anni di guerra civile tra Marco Antonio e Ottaviano, quest’ultimo, diventato Augusto, ha riformato lo Stato per garantire la pace. In politica estera il lavoro è molto, bisogna rettificare i confini dell’impero, e si utilizzano sistemi diversi, Con il regno orientale dei Parti si alterna la forza e la diplomazia. In Germania invece, si conducono numerose campagne militari per pacificare le regioni tra i fiumi Reno ed Elba. Il figli di Livia, Druso prima, Tiberio poi ottengono ottimi risultati, sottomettendo le popolazioni locali, disarticolando l’organizzazione dei nemici e arrivando a conquistare apparentemente quel territorio ostile e impenetrabile.

Ma la disfatta di Teutoburgo è una doccia gelata, sull’onore soprattutto, dell’esercito romano.
Quando si verifica Augusto è un 72enne stanco, che ha visto e talvolta segnato di persona la morte di parenti ed amici, stremato dal potere, al quale non rimane altro che disperarsi. La barba cresce lunga, l’urlo “Varo, Varo, rendimi le mie legioni” risuona nei corridoi della sua residenza. Nel testamento, cinque anni dopo, impone di lasciare il confine sul Reno, non facendo menzione della sconfitta.

Germanico Giulio Cesare.
Con 8 legioni affrontò i Cherusci di Arminio, annientandoli e vendicando l'onore di romani.

Ma i Romani devono riscattare l’onore e soprattutto impedire che si formi una coalizione germanica contro di loro. Il compito spetta al suo successore, Tiberio.

A 6 anni dalla sconfitta, uno dei più formidabili generali romani, Germanico, assieme al suo luogotenente Cecina, 40 anni di esperienza, ritorna con 8 legioni in quei luoghi, con il preciso scopo di ottenere una ultio per Teutoburgo, di vendicare cioè l’onore di Roma. Riescono infine a sconfiggere le popolazioni dei Marsi e dei Catti, ma soprattutto arrivano nei pressi del fiume Weser.

Si trovano faccia a faccia con l’ex ausiliario dell’esercito romano che li ha traditi, un Germano passato dalla parte dei suoi, che si chiama Arminio, l’ispiratore del massacro di Teutoburgo.

La campagna si svolge all’inizio con un gioco di movimenti, il tentativo di attirare Cecina in un’altra imboscata, che per poco non si trasforma in una nuova ecatombe. Ma alla fine i legionari ottengono quello che vogliono: si arriva alla battaglia campale contro gli uomini di Arminio. Erano sicuri di ripetere la loro impresa, i Germani, tanto che si erano portati delle catene per avvincervi i Romani dopo la vittoria, e invece l’organizzazione dei legionari ha la meglio e i Germani, come ci riporta Tacito, vengono annientati.

Una sola battaglia, però, non basta. Sul Vallo Angrivariano la situazione si ripete.
Il destino vuole che i due eserciti non abbiano più alcuna possibilità di movimento, non possano arretrare o spostarsi per via delle condizioni naturali. Vincere o morire. E sono di nuovo i Romani ad avere la meglio, grazie alla loro superiorità tecnica. La sconfitta di Teutoburgo è vendicata.
Il nemico è vinto. Ma poi, poco dopo, direttamente da Roma, l’imperatore Tiberio comanda a Germanico di tornare indietro. Lo accusa di aver commesso degli errori, nella gestione soprattutto politica della campagna. E la conquista della Germania si interrompe.

Nasce così un quesito: perché i Romani hanno rinunciato? Fu un problema militare? 
La scarsa convenienza di insistere nella conquista di un territorio tutto sommato povero? 
Cosa sarebbe successo se fossero riusciti nella loro impresa? 
E nelle discussioni degli uomini di oggi, trovi italiani che rivendicano la grandezza dell’impero romano, e tedeschi che vedono nella battaglia di Teutoburgo un esempio di eroismo, un evento attorno a cui costruire il proprio sentimento nazionale. Gli orgogli nazionali, che appartengono più o meno ad ognuno di noi, riemergono con visioni contrapposte. Tipo Italia – Germania 4 a 3.

Per avere una risposta, ci siamo rivolti a Giovanni Brizzi, professore di storia romana all’Università di Bologna. Il viso da studioso, il rassicurante accento emiliano, la disponibilità a parlare.
L’intervista si è svolta in un pomeriggio del venerdì dal telefono di casa sua.

Cerchiamo di capire la politica romana del tempo.
Augusto viene a patti con i Parti, mentre in Germania avvia una serie di campagne di conquista.
Si può dire che l’obiettivo iniziale dei Romani fosse conquistare fino al fiume Elba?

Alla fine sì. Bisogna distinguere tra le due realtà.
L’impero dei Parti veniva sentito come una entità organizzata, in fondo simile a Roma, e quindi come un interlocutore con cui si poteva trattare. La Germania era un coacervo di tribù ancora prive di un’identità statuale precisa; e non offriva un interlocutore unico Cherusci e Marcomanni erano, per esempio, rivali.

Si parte da un episodio, il massacro di un gruppo di mercanti romani, seguito da un’incursione al di qua del Reno, con la sconfitta di una legione e -gravissimo- la perdita di una insegna. E’ il motivo per cui si scatena una guerra “giusta”, una guerra di pacificazione.

L’obiettivo diverrà quello di arrivare al fiume Elba; linea che, una volta ricollegata al medio Danubio, già raggiunto da Roma, avrebbe consentito un confine più razionale.

Augusto sapeva che Varo era non un generale, ma un burocrate?
Come può avergli affidato tre legioni? lui che raramente ha sbagliato una mossa?

Bisogna contestualizzare il momento.
Augusto è certamente uno degli uomini politici più grandi di tutti i tempi, forse non solo in Occidente. Ma, da quando ha assunto definitivamente il potere è stato costretto ad affidare gli incarichi, soprattutto quelli militari di maggiore importanza, a membri della famiglia, della cui fedeltà sia certo (Druso e Tiberio, essenzialmente).

Ora Druso è morto, Tiberio è impegnato altrove; e, grazie alle misure non solo militari prese negli anni precedenti, la Germania pare sicura. Varo, un giurista legato ad Augusto per matrimonio, è il giurista che dovrebbe organizzarla; e anche in questo commette errori gravissimi. Quanto ad Augusto, si tratta di un uomo provato da decenni di guerre e di lotte per il potere
(almeno dal 44 a.C., dalla morte di Cesare).

Ha 72 anni, è sfinito dalla morte, oltre che di Agrippa, amico e genero, di Druso e dei nipoti, figli della figlia che ha dovuto esiliare. L’errore è dovuto, tra l’altro, ad una percezione errata della situazione, trasmessagli probabilmente proprio Varo. La successiva rinuncia è la scelta di un uomo grandissimo, ma mortalmente stanco.

Quali sono stati gli errori di Varo?
Varo ha veramente infilato una lunghissima catena di errori. 
Sul piano politico ha irritato i locali pretendendo di imporre senza elasticità le forme economiche e giuridiche romane. Ha poi ignorato segnali precisi e preoccupanti. Il suocero di Arminio, Segeste, capo della fazione filoromana lo ha avvertito del complotto e gli ha fatto i nomi di quanti erano coinvolti. Se Varo li avesse arrestati, la congiura sarebbe fallita sul nascere; ma il governatore romano ritiene che la voce sia una semplice calunnia.

Sul piano militare, poi, le decisioni sono tragiche:
ha solo tre legioni (le altre due –e per fortuna!- sono in Gallia…); e parte tardi, in autunno, in un momento climaticamente sfavorevole. Infine, anzichè percorrere strade sicure, come l’asse attrezzato lungo la Lippe, si infila (solo gli dei sanno perché…) nel Teutoburgiensis saltus dove sarà impossibile proteggersi e l’imboscata sarà agevolata al massimo. Infine trascina con sé su carriaggi, per essere ancor più impedito, le donne, i figli e i beni degli auxilia.

La disfatta di Teutoburgo ha fermato militarmente i Romani?
In altre parole, si può dire che i Romani non ebbero la forza di riconquistare la Germania?

Dipende da cosa si vuol sostenere. Certo, mancò poi la volontà politica. Uno dei massimi storici tedeschi viventi, Werner Eck, un’autorità sul tema, ha affermato che la Germania era stata, allora, effettivamente conquistata fino all’Elba; ed era già, in sostanza, una provincia dell’impero. Teutoburgo ha rappresentato una battuta d’arresto seria; ma militarmente non sarebbe stato un evento irreparabile.

Per quanto possa apparir tragica, la sconfitta non è certamente una delle peggiori tra quelle che i Romani hanno subito nel corso della loro storia. Dobbiamo pensare che sono state perse tre legioni su 27 operative, per un totale di neppure 20 mila uomini. Di fronte alla rivolta scoppiata in Giudea sotto Nerone i Romani inviano dapprima 35 mila uomini circa; sconfitti i quali (con la perdita di 5780 uomini) riprendono il controllo della regione impiegando senza particolari sforzi o problemi ben 60 mila soldati.

Bisogna ricordare poi anche un altro particolare importante. Druso e Domizio Enobarbo erano riusciti, durante le loro campagne, a costruire un’infrastruttura concepita per la conquista -strade difese e fortificazioni- che costituivano le basi per muoversi nel territorio. Intendo dire che le strutture per recuperare il terreno perduto esistevano già ed erano ancora funzionanti. Certamente c’erano da superare le difficoltà dell’ambiente e del clima. Ma si trattava di un problema, secondo me, risolvibile. Comunque sia, in battaglia campale i Romani sono tuttora superiori.

E allora perché i Romani hanno rinunciato alla riconquista della Germania?

Le ragioni di questa scelta debbono essere ricondotte ad opzioni politiche. Al di là del testamento di suo padre Augusto, che imponeva di rimanere sul Reno, ovviamente un monito importante anche sul piano psicologico -contraddire la politica del padre sarebbe stato difficile anche a livello personale- bisogna considerare che la riconquista di quei territori avrebbe richiesto un progetto a lunghissimo termine, per cui si sarebbero dovute consegnare a Germanico forze imponenti per un tempo congruo (per conquistare l’intera Spagna erano occorsi 180 anni!), con poteri ovviamente speciali.

E questo avrebbe potuto compromettere la stabilità politica dell’impero. In altre parole, Tiberio avrebbe dovuto concedere una delega importante a qualcuno che poteva finir per essere una minaccia nei suoi stessi confronti.

Agrippina, la moglie di Germanico. Dimostrava un attitudine al potere e una concezione di comando in stile orientale.
Agrippina, la moglie di Germanico. Dimostrava un attitudine al potere e una concezione di comando in stile orientale.

Da non dimenticare, in tal senso, la figura di Agrippina, la moglie di Germanico: una donna legata al mondo delle province settentrionali e al mondo degli eserciti, che girava incinta tra i legionari con il piccolo Caio Caligola in braccio, avendo grande prestigio fra le truppe e ostentando una concezione tutta orientale del potere, in aperto contrasto con quella di Augusto (e di Tiberio…).

Per cui non è escluso che Tiberio si sia sentito in una posizione politicamente insidiosa o almeno dubbia, in cui più importante di nuove conquiste era mantener saldo il potere.

In teoria Tiberio (generale forse migliore dello stesso Germanico…) avrebbe potuto prendere direttamente lui il comando delle operazioni, aveva dimostrato di averne le capacità. Ma l’impero era un’entità nata da poco, allontanarsi per molti anni da Roma era rischioso. Siamo lontani dai tempi di Traiano o Diocleziano, che potevano gestire l’impero senza nemmeno fare ingresso a Roma.

Per tutta questa serie di motivi, e anche perché l’onore dei Romani era stato riscattato, Tiberio, già critico verso le soluzioni ‘politiche’ di Germanico, finì per richiamarlo.

Teutoburgo quindi ha fermato i Romani in senso politico…

Sì, si può dire che Teutoburgo segni, per l’esercito romano, una sconfitta decisiva non militarmente, ma politicamente, mettendo in crisi la volontà di riconquistare la Germania. Anche a fronte di tutta una serie di situazioni interne all’impero, con cui i Germani non hanno nulla a che fare.

Ma dopo quella decisione i Romani non superarono mai più il fiume Reno? Si può dire che temessero di superarlo?

Che lo temessero assolutamente no. Anzi, compirono diverse campagne punitive nei confronti dei Germani, nel momento in cui questi superavano i confini. Crearono in più occasioni campi e fortezze oltre Reno e vere e proprie zone cuscinetto. Nei secoli successivi verranno conquistati gli Agri Decumates, e Corbulone arriverà fino al Mar Baltico a combattere i pirati, e anche lui verrà richiamato. Anche le guerre marcomanniche, combattute da Marco Aurelio, vedono sostanzialmente una vittoria romana, anche se, alla lunga, nuovamente non decisiva.

Se fosse stata conquistata la Germania fino all’Elba l’impero romano non sarebbe caduto?

Dobbiamo parlare per ipotesi, però a mio parere il vantaggio sarebbero stato solamente quello di una linea difensiva più breve e dunque più gestibile. Il crollo dell’Impero Romano va attribuito, secondo me, alla fine del ruolo, tutto occidentale, del cittadino-soldato, responsabile di fronte allo Stato. È stata la trasformazione del cittadino in suddito, sul modello degli Stati orientali, a causare il crollo.

La conquista della Germania avrebbe cambiato la situazione solo nel senso che il nemico da affrontare sarebbe in parte almeno stato diverso: sarebbe stato costituito dalle ‘genti dei cavalli’, i popoli non solo sarmatici delle steppe, addirittura meno assimilabili dei Germani, ma forse anche meno portati ad un insediamento stabile sulle terre dell’impero.

« I Germani andavano dicendo che i Romani erano invitti, e che nessuna sciagura poteva piegarli, poiché distrutta la flotta, perdute le armi, le spiagge coperte di carcasse di cavalli e di cadaveri, erano tornati ad assalire con lo stesso indomito valore e fierezza, quasi che si fossero persino moltiplicati in numero.
(Cornelio Tacito, Annali II, 25.)

https://expoitalyart.it/battaglia-teutoburgo-roma-germania/





Bellum Batonianum: la rivolta dalmato-pannonica (6-9 d.C.)

Nel 6 d.C., il territorio conosciuto dai Romani come Germania era stato quasi del tutto conquistato.
Tiberio, che già tra l’8 e il 7 a.C. aveva allargato l’influenza di potere romana dal Reno portandola fino al fiume Visurgis (oggi il Weser), dopo essere rientrato dal suo esilio volontario a Rodi ed essere stato adottato da Augusto per succedergli sul seggio imperiale, tra 4 e 6 d.C. aveva quasi completato l’opera di sottomissione della Germania fino al fiume Albis (l’Elba).

Non mancava ormai che un ultimo passo per completare l’opera: 
la conquista del regno di Maroboduo, re dei Marcomanni, situato nel territorio della Boemia.
Ciò doveva avvenire con una magistrale operazione militare, una enorme manovra a tenaglia che avrebbe visto coinvolte da nord-ovest le legioni di Germania al comando di Saturnino, da sud le legioni dell’Illirico al comando di Tiberio stesso.

Ma, come commenta Velleio Patercolo, “la fortuna rompe i propositi degli uomini e talvolta indugia”. Il generale aveva già predisposto i suoi quartieri invernali sul Danubio, e sia lui che Saturnino si trovavano ormai a soli cinque giorni di marcia dal nemico, pronti a congiungersi per schiacciare del tutto Maroboduo, quando giunse notizia che Pannonia e Dalmazia, sottomesse proprio da Tiberio quindici anni prima, erano in rivolta.

Si apriva così quella che Svetonio definì la più dura e faticosa guerra che i Romani avessero fino a quel momento sostenuto dai tempi delle Guerre Puniche.


Le ragioni e i numeri della rivolta.
La rivolta dalmato-pannonica nacque probabilmente a causa della cattiva e rapace amministrazione romana del territorio.

Secondo Velleio Patercolo, fonte principale degli eventi con Cassio Dione e Svetonio, nei quindici anni che seguirono la prima conquista di Tiberio, i Dalmati erano rimasti quieti molto a fatica, dovendo versare tributi ingenti allo Stato romano

Tuttavia, la goccia che fece traboccare il vaso fu la richiesta di Marco Valerio Messalla Messalino, nel 6 d.C., di un certo numero (a noi ignoto) di reclute proprio dalla Dalmazia e dalla Pannonia, delle quali era governatore, in vista della campagna marcomannica contro Maroboduo. Già vedendo le proprie generazioni più giovani stroncate da quella guerra dalla quale si sentivano estranei, i Dalmati decisero che fosse tempo di farla finita con la dominazione romana, presto seguiti dai Pannoni.

I numeri della ribellione sono impressionanti: 
Velleio Patercolo riporta che la popolazione in rivolta ammontava a 800.000 persone, mentre i combattenti dei ribelli di entrambi i popoli assommavano a 200.000 fanti e 9.000 cavalieri. Guerrieri ai quali erano perfettamente note sia la disciplina che le tattiche di guerra romane, nonché la lingua latina, e che si sarebbero rivelati nemici durissimi da piegare.

rivolta_6 d.c.
rivolta_6 d.c.
I territori teatro della rivolta dalmato-pannonica. In marrone, i territori controllati dai Pannoni 
(tra la Sava e la Drava) e i Dalmati (a sud della Sava) nel 6 d.C., all’inizio della guerra.


L’inizio della rivolta e le prime risposte romane.
I primi a ribellarsi nel 6 d.C. furono i Dalmati Desiziati, guidati da Batone (che, insieme al suo omonimo in Pannonia, dà il nome a questa guerra). I Desiziati sconfissero le prime forze romane che tentarono di affrontarli, spingendo così il resto della Dalmazia alla rivolta. Si unirono ben presto alla ribellione i Pannoni Breuci, guidati da un altro Batone e da Pinnes –le fonti divergono, non è infatti chiaro esattamente se i Dalmati e i Pannoni fossero d’accordo sin dall’inizio o meno.

I primi attacchi di Dalmati e Pannoni furono contenuti a fatica dai Romani. 
I Pannoni si spostarono subito ad attaccare la città strategica di Sirmium, ma furono fermati e battuti sulla Drava dal governatore della Mesia giunto in soccorso, Cecina Severo, il quale però perse parecchi uomini delle sue tre legioni. I Pannoni presero quindi a dilagare nei Balcani, sino alla Macedonia, uccidendo cittadini e mercanti romani e annientando le guarnigioni isolate che trovavano lungo il cammino.

Batone il dalmata, intanto, invece di unirsi ai Pannoni, aveva condotto il suo esercito sino a Salona, restando ferito da una pietra lanciatagli dalle mura. Pur non potendo condurre di persona le operazioni, fece saccheggiare ai suoi le città costiere dalmate fino ad Apollonia, dove si susseguirono una sconfitta e un vittorioso scontro contro i Romani.

Secondo Velleio Patercolo, anche un uomo dall’animo saldo come Augusto fu estremamente scosso, e prese immediatamente provvedimenti drastici, temendo la calata in Italia dei ribelli: si procedette alla leva per reclutare nuovi soldati, si richiamarono i veterani, si giunse addirittura a far riscattare molti schiavi a famiglie facoltose, per poter disporre di ancora più uomini adatti alle armi (anche se, come annota Svetonio, “senza mescolarli ai soldati di origine libera e senza dar loro le stesse armi.”).

Mentre accadeva tutto questo, Tiberio era in procinto di dare l’assalto ai Marcomanni di Maroboduo. Con l’Italia stessa a rischio di invasione, l’impresa di Germania andava temporaneamente abbandonata, e la rivolta dalmato-pannonica soppressa a ogni costo: 
Tiberio fu richiamato per prendere il comando delle operazioni.

Probabilmente impegnato in affrettate trattative di pace con Maroboduo, Tiberio mandò avanti Messalla Messalino, il governatore delle regioni in rivolta, per bloccare un eventuale passaggio verso l’Italia ai rivoltosi. Saputo della calata di Messalino, Batone il dalmata avanzò per affrontarlo, seppur ancora ferito. Messalla Messalino, con un’azione eroica, con solo una legione a metà organico, circa 2.500 uomini, affrontò e mise in fuga 20.000 dalmati, dopodiché (forse perché poi battuto, come pare leggersi in Dione Cassio, o comunque non potendo sostenere oltre una lotta tanto impari) si ritirò nella città di Siscia, in attesa dell’arrivo di Tiberio.

Siscia e Sirmium, i due capisaldi romani della regione, erano dunque salvi, ma tutto il territorio in mezzo a questi due insediamenti era occupato dai ribelli.

Verso la fine dell’anno, finalmente anche Tiberio era giunto a Siscia. 
Pannoni e Dalmati, ora uniti, non osavano comunque affrontare Tiberio in campo aperto, e si asserragliarono sul mons Almus (attuale Fruska Gora), appena a nord di Sirmium. Da qui, oltre a continuare a devastare il territorio, riuscirono a opporsi duramente a Cecina Severo, che a un certo punto dovette tornarsene in Mesia, attaccata da razziatori Sarmati e Daci.

A fronteggiare Dalmati e Pannoni presso Sirmium rimase Remetalce, re di Tracia alleato dei Romani, con la sua cavalleria, giunto in soccorso. Dopo aver sconfitto i due Batoni in uno scontro minore, Remetalce colse una grande vittoria con il fratello Rescuporide contro Pannoni e Dalmati che cercavano di invadere nuovamente la Macedonia.

Il secondo anno: l’arrivo di Germanico e un disastro mancato.
Al principio del 7 d.C., secondo anno di guerra, Augusto doveva essere particolarmente inquieto. Pensando che Tiberio avesse la forza necessaria a schiacciare in fretta il nemico, ma che stesse solo indugiando, il Princeps inviò presso di lui il giovane Germanico (nipote di Tiberio e da lui adottato nel 4 d.C.), che allora esercitava la carica di questore, con al seguito parte di quegli uomini, sia di origine libera che liberti, reclutati l’anno precedente, e con viveri per sei mesi.

Tiberio, probabilmente, non stava indugiando affatto, ma attendendo. 
Alle tre legioni di Mesia di Cecina Severo e alle forze alleate di Remeltace, infatti, si erano da poco unite due legioni di Plauzio Silvano, governatore di Panfilia e Galazia. Ora che queste cinque legioni sarebbero arrivate da occidente a rinforzo delle sue cinque, Tiberio poteva attuare una manovra a tenaglia tra Siscia e Sirmium, per impadronirsi della valle della Sava e tagliare i territori ribelli in due.

Ma ci mancò poco che i rinforzi da est non giungessero mai. 
Mentre una parte dei rivoltosi si era asserragliata sulle alture mons Claudius, nella Croazia settentrionale, una seconda forza assalì l’esercito di Severo e Silvano mentre poneva il campo presso le paludi Volcee, un luogo oggi non meglio identificato.

Lo scontro alle paludi Volcee andò vicino a essere un disastro: 
Remeltace e le alae di cavalleria ausiliaria furono messi in fuga, furono uccisi moltissimi ufficiali di ogni grado, l’esercito fu gettato nel caos. Fu soltanto lo sforzo eroico dei legionari a salvare la giornata: “Ma in questa occasione, rifulse più il valore nei soldati romani che dei comandanti. […] queste valorose legioni, spronandosi in circostanze così incerte, piombarono sul nemico e, non contente di sostenerne l’impeto, ne ruppero i ranghi e riportarono una vittoria insperata.”

Avendo evitato il disastro, Severo e Silvano poterono infine congiungersi alle forze di Tiberio. L’immenso esercito ora a disposizione di Tiberio era così composto, secondo Velleio Patercolo: 
dieci legioni, ovvero circa 50.000 uomini, settanta coorti ausiliarie di fanteria (35.000 uomini) e quattordici alae ausiliarie di cavalleria (7-8.000 soldati), più di 10.000 veterani, un gran numero di coorti volontariorum e i cavalieri di Remeltace.

Secondo Velleio, Tiberio stimò però di avere a disposizione una forza troppo grande per essere gestita correttamente e capace di mostrare la giusta disciplina, per cui si premurò di congedare le sue forze ausiliarie prima dell’inverno.

Ora che aveva il controllo della valle della Sava, il generale poteva combattere i Dalmati e i Pannoni separatamente, e divise allo scopo il suo esercito in varie forze, così da poter battere il territorio più velocemente e attaccare contemporaneamente i ribelli in più luoghi. Durante questo anno di guerra, il giovane Germanico ebbe già modo di distinguersi, sconfiggendo e devastando il territorio della tribù dalmata dei Mazei.

8 d.C.: guerra tra i due Batoni e la sottomissione della Pannonia.
Al principio del terzo anno della durissima guerra, Dalmati e Pannoni erano stremati, presi tra la carestia e un’epidemia di peste, ma pur desiderando la pace, rifiutavano comunque di arrendersi. Non si aspettavano certo pietà o perdono da parte dei Romani, cosa che li spronava, nonostante tutto, a continuare la lotta.

A sfiancare i ribelli, più che i Romani, furono le lotte intestine e i tradimenti. 
Batone il Pannone consegnò Pinnes ai Romani, diventando così capo dei Pannoni Breuci.

Il Batone capo dei Dalmati, venuto a sapere del tradimento, agì con fermezza, catturando e uccidendo il nuovo capo dei Breuci, causando però una rivolta tra i Pannoni. 

Silvano, visto il momento favorevole, agì contro i Breuci, sottomettendoli insieme a numerose altre tribù pannoni, mentre Batone decise di ritirarsi a sud, non senza prima aver saccheggiato la Pannonia, asserragliandosi tra i monti della Dalmazia.

I Pannoni, infine, dopo un periodo di brigantaggio combattuto da Silvano, decisero per la sottomissione, e presso il fiume Bathinus chiesero la pace.

Prima del ritiro presso i campi invernali, Tiberio affidò il comando generale dell’esercito in Dalmazia a Marco Emilio Lepido. Secondo una delle fonti, Tiberio per l’inverno decise di rientrare a Roma, probabilmente ormai sicuro della vittoria.

9 d.C.: la fine della rivolta.
All’inizio dell’estate, Lepido marciò in Dalmazia, attraversando territori di tribù non ancora toccate dalla guerra, che lo attaccarono. Lepido sconfisse questi popoli, sottomettendoli e restringendo sempre di più il territorio dei Dalmati.

Germanico continuò a distinguersi, catturando alcune città dalmate. 
A Raetinum fu colto in un’imboscata: penetrando in città, i soldati romani non si accorsero che i Dalmati, rinchiusi nella cittadella, avevano appiccato un incendio. Cercando di sfuggire alle fiamme, molti Romani si esposero ai tiri avversari provenienti dalla cittadella, mentre gli altri furono costretti a gettare i cadaveri dei compagni sulle fiamme, per crearsi una via di fuga. Alla fine, il fuoco si espanse a tal punto che anche i Dalmati dovettero fuggire dall’insediamento, usando un passaggio sotterraneo.

Dei Dalmati, solamente i Desiziati e i Pirusti, asserragliati sulle montagne, continuavano a essere praticamente impossibili da conquistare.

Bisognava sopprimere la rivolta una volta per tutte: 
Augusto inviò di nuovo Tiberio in Dalmazia, per farla finita con Batone e i ribelli.

Arrivato sul teatro delle operazioni, Tiberio si rese subito conto che anche i soldati ne avevano abbastanza di quella guerra lunga e logorante. Decise di dividere l’esercito in tre colonne: 
una fu affidata a Silvano, un’altra a Lepido, e tenne la terza per sé e Germanico.

Nonostante le prime due colonne vincessero ogni resistenza con facilità, e nonostante Batone fosse infine confinato ad Andetrio, presso Salona, la resistenza dei Dalmati continuava ad essere accanita.

Da Andetrio, un insediamento fortificato su un altro sperone di roccia, Batone decise di proseguire con una guerra di logoramento, con improvvise imboscate e cercando di tagliare i rifornimenti a Tiberio, che ora paradossalmente si ritrovava quasi nella condizione di assediato. Rifutando però di muoversi da dov’era, a un certo punto Batone volle chiedere la resa, ma non se ne fece nulla, poiché gli altri Dalmati si rifiutavano di arrendersi. Alla fine Tiberio decise di attaccare battaglia, e con un cruentissimo e difficile assalto attaccò e vinse i Dalmati, che si erano schierati fuori della fortezza.

Dopo Andetrio, Germanico si rivolse contro le ultime sacche di resistenza, e inviò una forza guidata da Vibio Postumo a occuparsi di liberare il litorale dalmata dai ribelli rimasti.

Batone realizzò che tutto era davvero perduto. 
Utilizzando il figlio Sceva come messaggero, mandò a dire a Tiberio che, se fosse stato accordato il perdono a lui e i suoi, si sarebbe arreso. Tiberio accettò, e quella notte ricevette Batone, il quale non chiese alcuna pietà per sé stesso, che aveva causato la rivolta iniziata ormai quattro anni prima, ma impiegò molte parole a favore dei suoi.

Quando infine Tiberio gli chiese come mai avesse condotto i Dalmati in quella guerra, Batone rispose che la colpa era dei Romani stessi, che per guardare le loro greggi (ovvero i popoli sottomessi) non avevano inviato né cani né pastori, ma lupi.

Una vittoria dal sapore amaro. 
La guerra era finalmente finita. Come commenta Dione Cassio, fu una guerra che comportò ai Romani una enorme spesa di denaro e di uomini, dalla quale non si potè ricavare che un magro bottino. Anche la mancata spedizione marcomannica per portare totalmente il confine dello Stato al fiume Elba, non era ormai che un lontano ricordo.

Germanico tornò a Roma a riferire della vittoria. Augusto e Tiberio furono acclamati entrambi imperator un’altra volta, e si procedette ai preparativi per il trionfo.

Un trionfo che potè essere celebrato solo molto più tardi. 
Non si fece in tempo a dare notizia della vittoria in Dalmazia, che appena cinque giorni dopo giunse la terribile notizia che, molto più a nord, era appena avvenuto il massacro di tre legioni romane, in quella che passò alla storia come clades Variana: Teutoburgo.
Posted on March 1, 2018 by Mattia Caprioli



Mattia Caprioli March 3, 2018 at 2:19 pm
Probabilmente la eco, soprattutto moderna, che ebbe il massacro di Teutoburgo, ha in grossa parte oscurato questa guerra. Ma d’altronde anche i Romani dell’epoca non ebbero neppure il tempo di festeggiare la, seppur magra, vittoria: la notizia di Teutoburgo li raggiunse appena cinque giorni dopo la fine della rivolta.


https://tribunus.it/2018/03/01/bellum-batonianum-la-rivolta-dalmato-pannonica-6-9-d-c/