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venerdì 30 giugno 2017

La rivolta di Nika: sport e politica all'epoca di Giustiniano.

LA RIVOLTA DI NIKA: 
SPORT E POLITICA ALL’EPOCA DI GIUSTINIANO.

La passione sportiva e l’agonismo infiammavano gli animi già degli antichi, che spesso sfogavano le loro accese rivalità e il tifo più sfrenato in risse e zuffe, come il celebre episodio raccontato da Tacito (Annales, XIV, 17) avvenuto a Pompei, nel 59 d.C., che vide Pompeiani e Nocerini protagonisti di una sanguinosa rivolta nell’Anfiteatro della città. La gravità dell’episodio è sottolineata dal fatto che fu lo stesso imperatore (all’epoca Nerone) a portare la vicenda in Senato, che deliberò l’interdizione dello stadio e lo scioglimento dei collegia, organizzazioni che coniugavano finalità sportive e l’adesione ai principi dell’ideologia politica.

Il connubio tra agonismo sportivo e ideologia politica era presente anche a Costantinopoli, presso il cui Ippodromo si tenevano le appassionanti, e pericolose, corse dei carri, tra le competizioni più popolari e diffuse nell’antichità greco-romana.

Fatto erigere da Costantino I (274-337 d.C.) contestualmente alla fondazione della nuova capitale, che sorse sul luogo dell’antica Bisanzio e che prese il suo nome, l’Ippodromo era anche lo specchio fedele della realtà politica della città e dei suoi schieramenti.

Le scuderie, e i rispettivi tifosi, protagoniste delle corse con i carri erano suddivise in gruppi noti come fazioni, erano presenti già da prima dell’epoca di Nerone, del quale era nota la smisurata passione per queste competizioni. Nate probabilmente come gruppi di amici e patrocinatori delle scuderie da corsa, durante il regno di Nerone conobbero una particolare crescita, tanto da arrivare a sottrarsi al controllo imperiale.

Le fazioni erano principalmente quattro: 
le più antiche erano quelle dei Rossi e dei Bianchi, e in seguito nacquero anche quelle degli Azzurri e dei Verdi. I colori delle fazioni caratterizzavano anche le vesti identificative degli aurighi.

Secondo quanto trasmessoci da Tertulliano all’inizio del III secolo d.C. (De spectaculis, 9.5), i Rossi erano associati a Marte e all’estate, i Bianchi a Zefiro e all’inverno, i Verdi alla Madre Terra e alla primavera, e infine gli Azzurri erano associati al cielo, al mare e all’autunno.

L’imperatore Domiziano (51-96 d.C.) creò due nuovi fazioni, quelle degli Oro e dei Porpora, che però non ebbero molta fortuna e scomparvero molto presto.

A Costantinopoli le fazioni erano sostanzialmente due, quelle degli Azzurri e dei Verdi, che avevano prevalso sulle altre due, fino a oscurarle del tutto.
Le fazioni, tuttavia, non limitavano l’agonismo e il contrapporsi fisicamente all’ambito sportivo e ai confini dell’Ippodromo. Il loro fanatismo sfociava infatti anche in dispute religiose, assumendo anche forti connotazioni politiche e arrivando addirittura a una parziale militarizzazione.  

Le fazioni giocavano un ruolo da protagoniste anche all’interno della vita politica della città, e in cambio del loro sostegno all’uno o all’altro schieramento politico usufruivano di particolari agevolazioni nella distribuzione dei compensi e degli incarichi, a cominciare dall’ambito degli spettacoli.

All’epoca di Giustiniano I (imperatore bizantino dal 527 al 565), in particolare, gli Azzurri rappresentavano il partito popolare (dei cosiddetti “Miserabili”) che sosteneva l’imperatore, nel quale a loro volta trovavano appoggio e impunità per i frequenti atti di violenza da loro compiuti. Giustiniano e l’imperatrice Teodora, addirittura, avevano sostenuto e incoraggiato la violenza e la turbolenza nelle strade cittadine, sfruttandola per salire al potere.

I Verdi, di contro, oltre a sostenere, in campo religioso, il Monofisismo, rappresentavano anche l’opposizione legittimista in campo politico, in quanto sostenevano i nipoti di Anastasio I, che aveva regnato prima di Giustiniano. La fazione dei Verdi formava quindi il partito aristocratico, o dei “Contribuenti”.

La politica di tolleranza, se non addirittura di lassismo, da parte di Giustiniano aveva fatto sì che le azioni violente e criminali (delitti e vendette private o di gruppo) non fossero perseguite e rimanessero quindi impunite. Gli Azzurri, in particolare, approfittavano del sostegno imperiale per mettere in atto vere e proprie devastazioni della città; non paghi di dare sfogo al loro fanatismo all’Ippodromo, di notte infatti si riunivano in bande e percorrevano le strade e i vicoli di Costantinopoli terrorizzando la popolazione, con rapine e omicidi (soprattutto a danno dei membri della fazione dei Verdi). Come racconta Procopio nella sua “Historia Arcana”, essi si distinguevano anche nell’abbigliamento e nell’aspetto: erano soliti portare i capelli “alla Unna” (con una frangia sulla fronte, le tempie rasate e capelli lunghi sulla nuca), oltre a portare barba e baffi, come i barbari o i persiani.

Di fronte al crescere di violenze e devastazioni, tuttavia, Giustiniano decise di cambiare atteggiamento e si decise infine a mettere un freno al’indipendenza delle due fazioni. Per suo volere, quindi, il prefetto Eudemone procedette all’arresto di alcuni tra i membri più facinorosi delle fazioni, alcuni dei quali si erano resisi colpevoli di omicidio. Giustiniano ignorò le richieste di clemenza da parte delle fazioni e il 10 gennaio del 532 si procedette quindi alle esecuzioni.

A questo punto le due fazioni, messe da parte (almeno temporaneamente le rivalità), si coalizzarono contro l’autorità dell’imperatore, oltre che contro la sua politica fiscale (giudicata particolarmente vessatoria, serviva a finanziare le numerose imprese previste dalla politica imperiale), e l’11 gennaio del 532 diedero inizio alla rivolta che è passata alla storia come rivolta di Nika, dal grido di “Nika, Nika!” (“Vinci, vinci”) con il quale il popolo era solito incitare gli aurighi durante le corse dei carri.

La rivolta ebbe inizio dall’Ippodromo di Costantinopoli, per poi diffondersi a macchia d’olio per tutta la città.

Giustiniano rimase per tre giorni rinchiuso nel suo palazzo, meditando di fuggire dalla capitale (in gran segreto aveva già fatto caricare il tesoro imperiale su una nave). La rivolta andava peggiorando, e durante la rivolta anche la basilica di Santa Sofia fu data alle fiamme

Nel frattempo Ipazio, uno dei nipoti di Anastasio I, era stato proclamato imperatore al posto di Giustiniano.

L’imperatrice Teodora, tuttavia, gli fece presto abbandonare i propositi di fuga, esortandolo invece a reagire. A salvare la situazione, e il regno di Giustiniano, vi furono gli interventi dei due generali dell’imperatore, Narsete e Belisario. Il primo, tramite alcuni negoziati con gli Azzurri, riuscì a incrinare l’unità degli insorti, mentre Belisario, al comando di truppe fedeli all’imperatore, fece irruzione nell’Ippodromo e fece strage degli insorti, ponendo così fine alla rivolta.

Giustiniano, tornato al potere, richiamò i funzionari che in un primo tempo aveva dovuto allontanare a causa della pressione popolare. Oltre al prefetto Eudemone, furono quindi richiamati Triboniano e Giovanni di Cappadocia, figure chiave del governo giustinianeo ai quali si deve anche parte della redazione del Codice di Giustiniano.

Al posto della distrutta Santa Sofia, l’imperatore fece erigere lo splendido edificio che ancora oggi possiamo ammirare, e al cui interno è ancora oggi presente la cosiddetta “colonna piangente”, una colonna in marmo da cui si dice che stillino le lacrime dei rivoltosi uccisi (più semplicemente, la pietra porosa della colonna assorbe per capillarità l’acqua presente in una falda acquifera sotterranea).

Dell’Ippodromo di Costantinopoli, cuore della rivolta di Nika, oggi rimangono poche rovine. 

Sono tuttavia ancora presenti alcuni monumenti, come l’obelisco di Teodosio e la Colonna Serpentina. Facevano parte dell’apparato decorativo dell’Ippodromo anche i famosi cavalli di bronzo che decorano la facciata della basilica di San Marco di Venezia, anche se oggi gli originali (attribuiti allo scultore greco Lisippo) sono stati sostituiti da alcune copie (gli originali possono essere ammirati nel Museo della basilica).


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Giustiniano I e la sua corte, mosaici della chiesa di San Vitale (Ravenna). 

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Colonna piangente



 Claudia Scienza 
http://www.milanoplatinum.com/la-rivolta-di-nika-sport-e-politica-allepoca-di-giustiniano.html

Carl Gustav Jung. Studi sull'Alchimia. L'intelletto infatti nuoce all'anima quando pretende di diventare l'erede dello spirito (come è accaduto nella storia dell'uomo occidentale), compito al quale non è affatto abilitato in quanto lo spirito è qualcosa di più elevato dell'intelletto, comprendendo in sé, oltre a quest'ultimo, anche il sentimento.

L'intelletto infatti nuoce all'anima quando pretende di diventare l'erede dello spirito (come è accaduto nella storia dell'uomo occidentale), compito al quale non è affatto abilitato in quanto lo spirito è qualcosa di più elevato dell'intelletto, comprendendo in sé, oltre a quest'ultimo, anche il sentimento
C.G. Jung; Studi sull'Alchimia

giovedì 29 giugno 2017

Melita Cavallo. I segreti delle madri.

Introduzione.

Il valore della verità 

Parte prima.
Segreti in famiglia

1. La madre bambina
Napoli, fine anni Settanta
Napoli, quindici anni dopo
Roma, aprile 2005

2. La dimensione dell'attesa
Napoli, primi anni Ottanta
Roma, primi anni Duemila

3. Scavalcare il destino
Antefatto
Napoli, fine anni Settanta
Napoli, sedici anni dopo

4. Il colore della verità
5. Oscurantismo materno
6. Storie incrociate

Parte seconda.
Il segreto sulle origini

7. Ritrovarsi per caso
8. Il filo mai spezzato
9. Ti ringrazio di avermi detto sì
10. Il silenzio nell'incontro
11. Così vicine così lontane
12. Rintraccio "fai da te"

Appendice
1. Il diritto alla conoscenza delle origini
2. Il rintraccio tic Ila madre biologica


Introduzione.

Il valore della verità.
Le persone mentono con grande disinvoltura e spesso in maniera molto convincente, perché la menzogna produce sicuramente un vantaggio, o evita uno svantaggio, almeno nel breve periodo. Persino il bambino impara molto presto a mentire, per difendersi, ad esempio, dall'accusa di aver preso i cioccolatini messi da parte per gli ospiti; e il ragazzo che ha rubato dal portafoglio del padre una banconota da 50 euro per portare la ragazza in pizzeria lascerà che il padre sospetti della domestica. Per i bambini e i ragazzi infrangere la regola e mentire è fenomeno diffuso, perché l'immaturità non consente di resistere al vantaggio immediato. E allora si può ben comprendere e non colpevolizzarli oltre misura: in questi casi va perciò inflitta una punizione minima, ma che riaffermi con forza la regola di lealtà e trasparenza nei rapporti intrafamiliari, valori indispensabili per tenere unita la famiglia nel tempo.

Mi sembra di poter dire che questa tendenza -direi quasi connaturata alla natura umana- a procurarsi vantaggi con la menzogna viene oggi non solo tollerata ma anzi esaltata dalla dilagante cultura dell'apparire, e questo provoca progressivamente nelle persone danni a volte irreversibili. Se infatti la spontaneità diventa difficile, per il timore di non piacere; se i sentimenti devono essere continuamente repressi, per il timore che possano infastidire; se il bisogno di essere se stessi deve essere perennemente controllato, per il timore di possibili svantaggi nel breve periodo; se insomma tutta la vita diventa una recita, allora tutte queste finzioni erodono progressivamente l'autostima e causano quel malessere che oggi vediamo in aumento persino nei bambini: 
depressione, ansia, panico.

Ma coprire un comportamento insincero ha dei costi non solo in termini umani, correlati alle energie psichiche per sostenerlo, ma anche materiali e finanziari, variabili da caso a caso. Pensiamo, ad esempio, a tutte le problematiche che quotidianamente si trascina dietro il castello di bugie teso a nascondere una relazione extraconiugale; o alla fatica fisica e psicologica, e ai costi finanziari connessi con quella grande menzogna che è l'alienazione parentale, in cui uno dei genitori agisce nei confronti dell'altro cercando di farlo apparire come violento, persecutorio, e nei casi più gravi persino abusante nei confronti del figlio, per giustificare la richiesta di interruzione di rapporti con lui, in quanto persona indegna di esercitare il suo ruolo, e sentirsi così libero di iniziare un percorso con un nuovo partner senza perdere il bambino, inteso come possesso e come vittoria verso l'altro genitore.

Ma allora, dire la verità in famiglia conviene? 
Alla luce della mia lunga esperienza nell'ambito della giustizia minorile, e quindi da un osservatorio particolare e privilegiato per l'analisi dei comportamenti dei membri delle famiglie in situazioni di conflitto, la risposta è sì. Certo, è una risposta che guarda al lungo termine, e che richiede spesso la disponibilità a sacrificare qualcosa nell'immediato.

Ricordo, a questo proposito, un caso di cui mi sono occupata: 
una convivenza che durava da molti anni e appariva stabile perché fondata su reciproci rapporti di stima, fiducia e affetto franò rovinosamente perché l'uomo apprese da vecchi conoscenti che la donna, madre dei suoi tre figli, prima di iniziare la convivenza con lui aveva avuto una relazione significativa con un altro uomo, da molti anni trasferitosi in Brasile. Lei non aveva ritenuto di doverglielo dire perché si trattava del suo passato: ciò che importava era l'essergli stata fedele nel corso della convivenza con lui e l'essere sempre stata madre impareggiabile per i suoi tre figli. Ma il compagno era convinto che un rapporto fondato su una menzogna - perché tale riteneva essere una verità sottaciuta - non poteva proseguire; e perciò iniziò un procedimento per chiedere la decadenza della compagna dalla responsabilità genitoriale e l'affidamento dei figli, motivando questa decisione con il superiore interesse dei figli stessi perché prima o poi la madre avrebbe ingannato anche loro. Il Tribunale affidò i figli al padre, in quanto la madre era nel frattempo caduta in forte depressione, stabilendo tuttavia rapporti stabili e continui madre-figli.
Con tutta probabilità, se la donna avesse rivelato al compagno, nel corso della iniziale frequentazione, la pregressa convivenza, il fatto sarebbe stato elaborato serenamente.

Ma per rinunciare ai vantaggi a breve termine assicurati dal sottacere la verità, o coprirla con una menzogna, sono necessarie intelligenza e lungimiranza, una profonda autostima, la capacità di liberarsi dai pregiudizi e dalla paura del giudizio altrui, che è uno dei motivi, forse quello più importante, che causa la menzogna. In tal modo sarà possibile l'accettazione di fatti accaduti o l'affermazione nella pratica di idee e principi ai quali si è in astratto culturalmente aderito, rifiutando compromessi di comodo più o meno meschini, a volte moralmente riprovevoli, comunque poco o nulla dignitosi.

Ne discende che, se la famiglia deve essere un'istituzione da salvaguardare nel lungo termine, i rapporti interpersonali al suo interno non possono che essere improntati alla massima sincerità a tutti i livelli. In altri termini, il rispetto e la ricerca della verità si concretizzano, nell'ambito dei rapporti intrafamiliari. in una cultura di lealtà e fiducia reciproche, veri valori fondanti del nucleo nel lungo periodo. Diventa così naturale condividere su valori comuni la responsabilità educativa dei figli, impostare la vita del nucleo su una progettualità a lungo termine, concordata e coerentemente perseguita, coinvolgere i figli in qualsiasi decisione che impatta sulla gestione familiare, compatibilmente con la loro età e il loro grado di maturità intellettiva e psicologica.

In particolare, la lealtà dei genitori nei confronti dei figli è il fondamento dell'educazione responsabile, perché esprime in modo chiaro la loro autorevolezza e la loro fiducia verso tutti i componenti della famiglia che, sentendosi rassicurati, rafforzano la propria autostima. In tal modo le relazioni diventano sempre più fluide, nell'ambito di un dialogo continuo e di senso che struttura e consolida l'assetto del nucleo.

In conclusione, c'è un rapporto tra la verità e la felicità? 
Forse possiamo dire che la verità non assicura la felicità, ma che senza di essa l'uomo è sicuramente infelice.

Il libro ripercorre dodici storie che hanno al cuore una verità non detta
Si tratta di storie ispirate a casi giudiziari da me trattati; luoghi, nomi e cognomi dei personaggi sono di fantasia, ed anche le circostanze hanno subito modifiche quando necessario per salvaguardare la privacy delle persone.

Spesso in famiglia il conflitto esplode e si palesa quando, per i motivi più disparati, il velo di menzogne si squarcia. Custode della verità è spesso la madre. A volte per paura, a volte per debolezza, spesso con le migliori intenzioni, è la donna che più di frequente si illude di poter salvaguardare l'integrità della propria famiglia continuando a mantenere un segreto. Ma quasi sempre si rivela un errore. Di questo trattano le storie raccolte nella prima parte del libro.

La seconda parte racconta storie legate a un particolare segreto, quello sulle origini delle persone adottate non riconosciute alla nascita. Nell'ultimo anno della mia attività ho raccolto le domande di molti figli adottivi alla ricerca di notizie sulla loro nascita, per conoscere il nome della madre biologica e poterla incontrare. Sono storie con una forte carica emotiva, in gran parte a lieto fine.

E interessante notare che le protagoniste di queste ultime sei storie sono tutte donne, di diversa età, la qual cosa dipende sicuramente dal fatto che. nel periodo considerato, le domande presentate da donne sono state molto più numerose di quelle presentate da uomini. 

Una possibile interpretazione è che le donne, molto più che gli uomini, sono ancestralmente legate alle radici esistenziali, come custodi antiche dei valori tradizionali e familiari; e nel Ventunesimo secolo questo legame determina nei moderni angeli del focolare l'incomprimibile bisogno di conoscere le negate origini biologiche.

https://books.google.it/books?id=iCclDwAAQBAJ&pg=PT3&hl=it&source=gbs_toc_r&cad=2#v=onepage&q&f=false






Libro assolutamente da leggere per far riflettere chi nella nostra epoca crede che si possa vivere sereni dando alla luce figli di una madre frammentata (una che fornisce l'utero e l'altra l'ovocita) per evitare l'attaccamento e che crede che sia possibile mantenere un simile segreto. Se ne è parlato tanto qui sulla rete nascondendo la spazzatura sotto al tappeto e ignorando il più grande dei dolori. Nascondere la paternità è un altro dei segreti impossibili e crudeli. Non so quali siano le dodici bugie e le dodici verità di cui parla il libro so però che nessuno rinuncerà mai a quel viaggio di ritorno a Itaca che da senso e poi pace a tutti i lestrigoni e gli amori che abbiamo incontrato.


Le proprietà mediche dell’argento. L’argento è un potente antibiotico naturale usato per migliaia di anni.

Le magiche proprietà dell’argento.

Il bicchiere d'argento per bambini.
"Vespasiano nacque in Sabina in un modesto villaggio oltre Rieti, chiamato Falacrine. Venne educato in campagna, vicino a Cosa (nei pressi di Orbetello), sotto la guida della nonna materna e, per questo, anche da imperatore, tornava spesso nei luoghi della sua infanzia, avendo lasciato la villa come era a quei tempi per non cambiare nulla di quel che i suoi occhi avevano fissato nel ricordo; e aveva una tale venerazione per la memoria della nonna che nei giorni festivi e solenni, sempre beveva nel suo piccolo bicchiere d'argento
Svetonio, Vita dei Cesari, Vespasiano, n.2



Quest'uso del bicchierino d'argento per bambini, rimasto in vigore almeno fino alla metà del secolo scorso, è dunque più antico di quanto si poteva immaginare. La sua diffusione andò molto oltre i confini d'Italia. Bertrand Russell ricorda nella sua autobiografia di aver chiesto allo scrittore Joseph Conrad, di cui aveva grandissima stima personale anche morale, di esser padrino al battesimo del suo primo figlio, John-Conrad. Lo scrittore acconsentì e, meticoloso come era in tutte le sue cose, corse subito ad ordinare il rituale bicchierino d'argento.


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L’argento è un potente antibiotico naturale usato per migliaia di anni
Le proprietà mediche dell’argento erano già conosciute ai tempi dell’antica Grecia. 
Si era notato che nelle famiglie in cui si mangiava utilizzando utensili in argento ci si ammalava meno e le infezioni erano rare

Questa conoscenza si è tramandata tra Re, Imperatori, Zar, Sultani, tra i loro familiari e tra i membri di corte. Si mangiava su piatti in argento, si utilizzavano posate in argento, il cibo veniva conservato in contenitori d’argento e, nel tempo, delle piccole quantità d’argento si mescolavano ai cibi. Così si è osservato che dopo una o due generazioni, i benefici dell’argento rendevano praticamente immuni a qualsiasi malattia infettiva

Questi lignaggi reali venivano chiamati “Sangue Blu” per la caratteristica tinta bluastra del loro sangue dovuta alle tracce minime di argento puro. La comune gente dal sangue rosso, invece, mangiava da piatti in terracotta utilizzando utensili in ferro e si ammalava spesso, mentre i reali non erano soggetti a malattie infettive, addirittura fin dal concepimento. 

L’argento ha proprietà antibatteriche molto potenti
basta la presenza di una piccola parte di argento in una soluzione per avere un’efficace azione antimicrobica. Gli ioni d’argento reagiscono e si legano con gli enzimi della cellula del microbo, inibendone l’attività e portandoli rapidamente alla totale estinzione; mentre non hanno effetti sulle cellule umane in vivo. L’argento colloidale è stato comunemente usato soprattutto in America dalla fine dell’800 fino al 1938 e veniva prescritto per una vasta quantità di malattie ed infezioni: Acne, artrite, ustioni, avvelenamento del sangue,herpes, infezioni oftalmiche, influenza, lupus, malaria, tumori della pelle, etc, etc...

Il nostro più potente germicida”.
“Grazie ad illuminate ricerche, l’argento sta emergendo come una meraviglia della moderna medicina. Un antibiotico può eliminare forse una mezza dozzina di organismi nocivi, mentre l’argento ne uccide circa 650. Non si sviluppa resistenza. Inoltre l’argento è praticamente non tossico.”
Jim Powell scrisse nella rivista Science Digest (marzo 1978)


- In Canada, Svizzera ed USA I medici utilizzano vari tipi di argento per curare molteplici infezioni.

- Negli USA l’argento è usato nella chirurgia delle ossa.

- Naturopati e Omeopati usano l’argento colloidale per il 70% degli ustionati gravi.

- Anche nella medici na cinese, nell’Ayurveda e nell’omeopatia i terapeuti usano regolarmente l’argento nei loro trattamenti.

- In Svizzera I biochimici stanno studiando le capacità dell’argento di interrompere la replicazione delle cellule HIV (AIDS) nei vari stadi.

- La NASA utilizza un sistema di purificazione dell’acqua con argento sugli Space Shuttle, la stessa cosa fanno I russi.

- Le compagnie aeree Air France, Alitalia, British Airways, Canadian Pacific, Japan Air Lines, KLM, Lufthansa, Olympic, Pan Amaro Svedese, SAS e Swissair utilizzano filtri d’acqua in argento per circoscrivere le infezioni batteriche.

- L’argento viene utilizzato spesso nelle piscine al posto del cloro (che comunque si è dimostrato tossico!).

- Aziende giapponesi usano l’argento per rimuovere ossido cianidrico e nitrico dall’aria.

Sebbene i batteri non fossero ovviamente conosciuti, gli effetti antibatterici e curativi di alcuni metalli erano noti fin dall’antichità.

Per esempio l’utilizzo dell’argento come purificante è riconosciuto da circa 6000 anni quando gli Egizi lo utilizzavano nell’acqua delle cisterne per ridurre le malattie causate dall’acqua contaminata.

- Gli stessi Fenici (1200 A.C.) utilizzavano l’argento per mantenere inalterate le caratteristiche dell’acqua, del vino e dell’aceto durante il trasporto.

- Plinio il Vecchio (78 D.C.) descrive le proprietà dell’argento per rimarginare le ferite.

- Gli antichi romani per primi documentarono le “Magiche proprietà curative” dell’argento che veniva applicato sulle loro ferite. Si narra che i grandi condottieri non permettevano la partenza delle loro truppe per la guerra senza avere a disposizione contenitori in argento per il trasporto dell’acqua, perché sapevano che così si sarebbe mantenuta pulita e quindi potabile per lungo tempo. Inoltre gli ufficiali dell’esercito romano godevano costantemente di una salute migliore rispetto ai soldati, il che era forse dovuto al fatto che anche le pietanze venivano servite loro su piatti d’argento mentre i soldati si nutrivano su piatti di metalli meno nobili.

- Anche gli Imperatori Cinesi (700 D.C.) utilizzavano utensili in argento per prevenire la trasmissione delle malattie.

- Nel Medioevo i nobili si spostavano con le loro “Navicelle”, preziosi cofanetti al cui interno si trovavano un calice in argento, le prime preziosissime posate e addirittura un rametto di rosmarino da usare come stuzzicadenti.

- In tempi più vicini a noi, dal 1300 la stessa Chiesa Cattolica scelse specificatamente l’argento per i suoi calici e per le vaschette dell’Eucarestia per prevenire il diffondersi delle malattie tra preti e praticanti. 

- Nel 1850 i pionieri mettevano monete d’argento nei contenitori dell’acqua e del latte per prevenire la crescita di batteri ed alghe

- Nel 1881, Carl Crede, medico tedesco utilizza per primo gocce di nitrato d’argento negli occhi dei neonati per prevenire pericolose infezioni agli occhi

- Karl Wilhelm Von Nagel, botanico svizzero, nel 1893 pubblica una ricerca dove si dimostrano le proprietà antibatteriche dell’argento

- Nel 1900 appaiono sul mercato numerosi prodotti medici compresi antibiotici a base di argento

- È tradizione per gli inglesi regalare ai neonati cucchiai e bicchieri in argento così i bimbi, che ancora non hanno sviluppato anticorpi, non correranno il rischio di contrarre malattie da contatto di saliva (TBC, mononucleosi…). 

Sempre gli antichi romani avevano già capito una delle pecurialità chimiche più incredibili dell’argento: la sua capacità di esaltare il profumo ed il gusto delle bevande ( e degli alimenti), senza alterarle. Già duemila anni fa, infatti, era d’uso relativamente comune l’inserimento negli otri di vino di alcuni grani d’argento (che poi venivano opportunamente filtrati per non essere ingeriti). In questo modo le caratteristiche gustolfattive del liquido erano esaltate. Ecco perché il tastavino dei sommeliers è fatto d’argento. L’argento (e non il silver plated ) ha infatti la proprietà di catalizzare i solfiti separandoli dal vino. Ed ecco anche perché la posateria migliore è d’argento e non d’oro

I popoli del passato apprezzavano molto i metalli preziosi, sia per l’effetto scintillante e lussuoso che donavano alla tavola, che per il senso di nitore conferito al cibo.

Sulle tavole dell’antica Roma, quale simbolo di splendore e purezza incorruttibile, facevano bella mostra di se vasi e piatti in argento e oro. L’argento e l’oro sono stati usati e si usano tuttora nella preparazione di alcuni cibi: a Milano, il Corio, descrive il banchetto offerto nel 1386 da Galeazzo Visconti in occasione del matrimonio della figlia Violante, citando storioni dorati, ricoperti con una sottile foglia d’oro come si usa per i confetti e che la profusione d’oro e d’argento a scopo decorativo non risparmiò in quella circostanza quaglie, pernici, anatre, carpe, trote e neppure un vitello intero.

A Venezia, il Sanudo, ricorda la sera del 16 novembre 1561 ad una festa in Canal Grande in onore del principe Bisignano dove furono serviti il pane e le ostriche ricoperti di foglia d’oro.

Forse è a quell’epoca che risale il modo di dire popolare “mangiare il pan d’oro” per significare una vita signorile e deliziosa.

In India, in occasione di matrimoni importanti, il famoso biryani viene ricoperto con una sottile foglia d’oro o d’argento commestibile.

I dolci, legati alla celebrazione del Ramadan, a base di latte di bufala concentrato (khoya), zucchero e spezie sono spesso decorati con fogli di oro o argento.

Nelle migliori pasticcerie della Old Delhi potrete trovare dolci al latte in foglia d’argento (barfi).


Veniamo ora ad un’altra importantissima qualità:
la conducibilità del calore.

L’argento è il migliore conduttore di calore ed elettricità fra tutti i metalli.

Se ad esempio immergete un cucchiaino in una tazzina di caffè bollente, dopo pochi istanti scotta, mentre se fosse d’acciaio inox rimarrebbe freddo.

Vi elenco la predisposizione alla temperatura di alcuni materiali:

MATERIALI W/m°K
Argento 420
Rame 392
Alluminio 225
Ferro 60
Acciaio inox 16
Vetro da fuoco 0,95
Terracotta 0,80

Come potete vedere l’argento è uno straordinario conduttore di calore:
a parità di spessore questa capacità è il doppio di quella dell’alluminio e superiore di ben 26 volte a quella dell’acciaio.

Non ci sono pertanto dubbi sui pregi dell’argento in cucina, tanto da trovarne antiche testimonianze d’uso già in epoca romana: apprezzato per la sua attitudine a non cedere i sapori (contrapponendosi ai tegami in terracotta, che possono addirittura alterare significativamente il sapore delle pietanze).

L’argento era infatti utilizzato per le casseruole sin dall’antichità:
all’epoca dei romani e nel XVIII secolo in Europa, le cucine più ricche usavano pentole in argento. Perché l’argento è un eccellente conduttore di calore, è atossico, battericida, fungicida e non cede o assorbe sapori.

In argento vengono realizzate pentole professionali soprattutto per l’esecuzione della “cucina veloce”. Non appena l’argento tocca il fuoco si distribuisce uniformemente il calore fermando il sapore di ogni singolo ingrediente.

“Un punto in più in mano al cuoco” ha detto l’amico chef Luca Pecorini.
Lo chef Quique Da Costa è affascinato dal mondo minerale (oro, argento titanio) ed è convinto che mineralizzare i cibi ne esalti l’intrinseca componente salata.

Per pulire poi la vostra pentola d’argento usate il “bianco di Spagna” (carbonato di calcio, si compra in farmacia od in drogheria); ridonerà quel bel colore bianco lunare tipico dell’argento.

Ma oltre al calore in cucina possiamo apprezzare il freddo in tavola: 
L’acqua ed il vino contenuti in brocche e bicchieri d’argento manterranno la temperatura di servizio fino al termine della cena.

Credetemi, è un vero piacere bere freddo nell’argento!
Non solo per il gusto, ma anche per la vista: con il freddo l’argento “s’imperla”.

L’argento è il metallo più bianco e brillante esistente.
Ottimo conduttore di elettricità e sensibile alla luce, è molto usato nell’industria elettrica e fotografica. Per le sue caratteristiche di alta atossicità, viene impiegato in medicina per gli strumenti 
chirurgici e gli inserti ortopedici. 

L’argento è inoltre molto gradevole al tatto e il suo biancore non è mai freddo. 

In condizioni normali è inalterabile, ma al contatto con ozono, acido solfidrico e tracce di composti di zolfo presenti nell’aria si ossida, per cui in zone con atmosfera inquinata o salmastra, tende ad assumere riflessi gialli, bluastri ed infine neri, eliminabili però con facilità. 

Oggi l’argento grazie alle sue proprietà antibatteriche, fungicide, igienizzanti e di conduzione di calore ed elettricità viene utilizzato in vari campi: 

Condizionatori d’aria - Riscaldamento - Ventilazione - Produttori di ghiaccio - Filtri d’aria e d’acqua - Climatizzatori - Lavatrici - Frigoriferi - Materassi - Tessile - Abbigliamento sportivo e calzature - Pannelli antibatterici per bagni e cucine - Rubinetterie - Specchi e decorazioni - Odontoiatria - Nano-tecnologia in campo sanitario - Fotografia - Fabbricazione di cuscinetti - Saldature - Batterie - Computer - Spazzolini per denti - Additivi alimentari (E174). 

Occorre pertanto ricordare che parte dell’argento utilizzato nell’industria non è recuperabile e viene perso per sempre. 

In conclusione se avete la fortuna di possedere questo metallo eccezionale usatelo con disinvoltura: per la vostra salute e per la gioia dei vostri occhi e, perché no, per i vostri ospiti. Usandolo tutti i giorni scurirà meno in quanto sarete costretti a lavarlo (anche in lavastoviglie basta che non tocchi altri metalli).

Bombonato gioielli.
http://www.bombonatogioielli.it/Bombonato%20argento.pdf

Ostracismo. Plutarco ci racconta un simpatico aneddoto accaduto ad Aristide. “Intanto che si scrivevano gli òstraka, si narra che un uomo analfabeta e che aveva sempre vissuto in campagna, avendo dato l’òstrakon ad Aristide, come a uno di quelli che si trovavano lì per caso [per aiutare coloro che non sapevano scrivere ad esprimere il proprio voto n.d.r.], gli chiese di scrivere proprio il nome di Aristide. Meravigliandosi e chiedendo cosa mai avesse fatto di male Aristide contro di lui, rispose: “Nulla, non conosco quell’uomo ma mi sono stufato di sentirlo chiamare ovunque –il Giusto-”. Si dice che Aristide, avendo sentito ciò, non disse nulla, scrisse il proprio nome sull’òstrakon e glielo consegnò. :) (Plutarco, Aristide, VII, 5-6)

L’OSTRACISMO.
L’ostracismo fu una procedura introdotta ad Atene da Clistene intorno al 510 a.C., per scongiurare una nuova tirannide, mediante la quale, una volta all'anno, in una seduta apposita che si teneva tra gennaio e febbraio, ogni componente dell'ekklesìa (assemblea di tutti i cittadini maschi adulti), poteva scrivere su un òstrakon (coccio di terracotta) il nome di un personaggio considerato pericoloso per lo stato. Se un cittadino otteneva almeno 6000 voti, costui doveva allontanarsi dalla città entro dieci giorni e rimanere esiliato per dieci anni. Non perdeva però alcun diritto civile e non era colpito da nessuna sanzione pecuniaria; poteva in più essere richiamato prima dei dieci anni, tramite una nuova delibera popolare.

Il primo ostracismo si ebbe nel 487. 
Molti personaggi di grande rilievo subirono l'ostracismo, tra cui Temistocle, Cimone e Pericle, anche perché questa pratica venne spesso utilizzata come strumento di lotta politica, per disfarsi dei concorrentiNegli scavi della città di Atene sono stati trovati migliaia di òstraka.

Plutarco ci racconta un simpatico aneddoto accaduto ad Aristide.
“Intanto che si scrivevano gli òstraka, si narra che un uomo analfabeta e che aveva sempre vissuto in campagna, avendo dato l’òstrakon ad Aristide, come a uno di quelli che si trovavano lì per caso [per aiutare coloro che non sapevano scrivere ad esprimere il proprio voto n.d.r.], gli chiese di scrivere proprio il nome di Aristide. Meravigliandosi e chiedendo cosa mai avesse fatto di male Aristide contro di lui, rispose: “Nulla, non conosco quell’uomo ma mi sono stufato di sentirlo chiamare ovunque –il Giusto-”. Si dice che Aristide, avendo sentito ciò, non disse nulla, scrisse il proprio nome sull’òstrakon e glielo consegnò. :)
(Plutarco, Aristide, VII, 5-6)

γραφομένων οὖν τότε τῶν ὀστράκων λέγεταί τινα τῶν ἀγραμμάτων καὶ παντελῶς ἀγροίκων ἀναδόντα τῷ Ἀριστείδῃ τὸ ὄστρακον ὡς ἑνὶ τῶν τυχόντων παρακαλεῖν, ὅπως Ἀριστείδην ἐγγράψειε. Τοῦ δὲ θαυμάσαντος καὶ πυθομένου, μή τι κακὸν αὐτὸν Ἀριστείδης πεποίηκεν, ‘οὐδέν,’ εἶπεν, ‘οὐδὲ γιγνώσκω τὸν ἄνθρωπον, ἀλλ᾽ ἐνοχλοῦμαι πανταχοῦ τὸν Δίκαιον ἀκούων.’ Ταῦτα ἀκούσαντα τὸν Ἀριστείδην ἀποκρίνασθαι μὲν οὐδέν, ἐγγράψαι δὲ τοὔνομα τῷ ὀστράκῳ καὶ ἀποδοῦναι.






Eratostene sapeva che a Siene (una città dell’antico Egitto, attuale Assuan) a mezzogiorno del solstizio d’estate il Sole illumina il fondo dei pozzi. Questo fenomeno dipende dal fatto che, trovandosi su un tropico, i raggi del Sole cadono esattamente perpendicolari alla città. Quindi, in quel momento, un bastone piantato verticalmente a terra non proietta nessuna ombra: il sole è allo zenit. Nello stesso giorno Eratostene fece misurare l’ombra dello gnomone ad Alessandria, una città che, secondo le sue conoscenze, si trovava a nord di Siene, sullo stesso meridiano, a una distanza di 5000 stadi. Grazie a tale misurazione egli stabilì che la direzione dei raggi solari formava un angolo di 7,2° con la verticale, cioè 1/50 di un angolo giro. Da questo esperimento Eratostene dedusse che la circonferenza della Terra doveva essere 50 volte la distanza tra Alessandria e Siene, quindi 250 000 stadi, equivalenti a 39 000 km.

"Filosofi geniali".
Nel III secolo a.C. Eratostene di Cirene (città che si trova nell’odierna Libia) misurò il raggio della Terra ottenendo una misura che differisce solo del 5% dal valore attualmente conosciuto.

Oggi la determinazione delle dimensioni del nostro pianeta è facilitata dalle sonde spaziali. Ma come era possibile, più di duemila anni fa, calcolare le dimensioni del nostro pianeta se le distanze in gioco erano enormi per quei tempi e la prima circumnavigazione della Terra era ancora molto lontana?

Il merito di Eratostene fu proprio quello di effettuare una misura così precisa senza l’ausilio di nessun mezzo tecnologico. 
L’unico strumento di cui egli si servì è incredibilmente semplice: 
lo «gnomone», un bastone piantato verticalmente in un terreno perfettamente pianeggiante. Studiandone l’ombra si possono seguire i movimenti del Sole durante il giorno e durante l’anno.

Eratostene sapeva che a Siene (una città dell’antico Egitto, attuale Assuan) a mezzogiorno del solstizio d’estate il Sole illumina il fondo dei pozzi. Questo fenomeno dipende dal fatto che, trovandosi su un tropico, i raggi del Sole cadono esattamente perpendicolari alla città. Quindi, in quel momento, un bastone piantato verticalmente a terra non proietta nessuna ombra: 
il sole è allo zenit.

Nello stesso giorno Eratostene fece misurare l’ombra dello gnomone ad Alessandria, una città che, secondo le sue conoscenze, si trovava a nord di Siene, sullo stesso meridiano, a una distanza di 5000 stadi. Grazie a tale misurazione egli stabilì che la direzione dei raggi solari formava un angolo di 7,2° con la verticale, cioè 1/50 di un angolo giro.

Da questo esperimento Eratostene dedusse che la circonferenza della Terra doveva essere 50 volte la distanza tra Alessandria e Siene, quindi 250 000 stadi, equivalenti a 39 000 km.

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mercoledì 28 giugno 2017

Giovanni Della Casa. Galateo overo de' costumi. Trattato di messer Giovanni della Casa, nel quale sotto la persona d'un vecchio idiota ammaestrante un suo giovanetto, si ragiona de modi, che si debbono o tenere, o schifare nella comune conversatione, cognominato Galatheo overo de costumi.

Giovanni Della Casa, Galateo overo de' costumi.
Titolo completo:

Galateo overo de' costumi

TRATTATO DI MESSER GIOVANNI DELLA CASA.

Nel quale, sotto la persona d'un vecchio idiota ammaestrante un suo giovanetto, si ragiona de’ modi
che si debbono o tenere o schifare nella comune conversazione, cognominato

"Trattato di messer Giovanni della Casa, nel quale sotto la persona d'un vecchio idiota
ammaestrante un suo giovanetto, si ragiona de modi, che si debbono o tenere, o schifare
nella comune conversatione, cognominato Galatheo overo de costumi".
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.


Chi sa carezzar le persone, con picciolo capitale fa grosso guadagno.
Giovanni della Casa, Galateo overo de' costumi.


"L'eleganza del comportamento è conseguenza di un sereno dominio delle inclinazioni naturali..." 
Giovanni della Casa, Galateo overo de' costumi.

"Non istà bene a fregarsi i denti con la tovagliuola, e meno col dito, che sono atti difformi. 
Né risciacquarsi la bocca e sputare il vino, sta bene in palese. Né in levandosi da tavola portar lo stecco in bocca, a guisa d’uccello che faccia suo nido, o sopra l’orecchio, come barbiere, è gentil costume [...] Sconvenevo costume è anco, quando alcuno mette il naso in sul bicchier del vino che altri ha.".
Giovanni della Casa, Galateo overo de' costumi.


"Troverai di molti, che mentono, a niun cattivo fine tirando né di proprio loro utile, né di danno o di vergogna altrui; ma perciò che la bugia per sé piace loro; come chi bee, non per sete, ma per gola del vino".
Giovanni della Casa, Galateo overo de' costumi.


"Tra coloro che di ricchezze e d'autorità diseguali sono,... non è amore, ma utilità".
Giovanni della Casa, Galateo overo de' costumi.


"Schernire non si dee mai persona, quantunque inimica; perché maggior segno di dispregio pare che si faccia schernendo, che ingiuriando; con ciò sia che le ingiurie si fanno o per istizza o per alcuna cupidità; e niuno è che si adiri con cosa o per cosa che egli abbia per niente, o che appetisca quello che egli sprezza del tutto".
Giovanni della Casa, Galateo overo de' costumi.

"E come i piacevoli modi e gentili hanno forza di eccitare la benivolenza di coloro co’ quali noi viviamo, così per lo contrario i zotichi e rozzi incitano altrui ad odio et a disprezzo di noi". 
Giovanni della Casa, Galateo overo de' costumi.


Nei primi capitoli si dice che un gentiluomo [...] non deve mai menzionare, né fare, né pensare cose spiacevoli che invochino nella mente dell'interlocutore immagini disdicevoli; da qui, evitare di far vedere che si è in procinto o si è appena tornati dal bagno, soffiarsi il naso e guardare nel fazzoletto se vi siano diamanti o pietre preziose, sputare, sbadigliare in pubblico e punzecchiare col gomito

[...] comportamenti riguardanti il favellare: 
bisogna parlare di argomenti graditi a tutti i presenti e mostrare rispetto verso tutti; se si inizia a parlare di un determinato argomento e ci accorgiamo che gli altri non sanno di che cosa si stia parlando, è buon costume cambiare oggetto della conversazione; l'oggetto però non deve essere né se stessi né la propria famiglia.

[...] mai Dio sarebbe stato chiamato in causa in una discussione se non per lodarlo. 
Essendo molto religiosi non avrebbero nemmeno dovuto mentire o ingannare le altre persone perché significava andare contro il volere di Dio. 

Ad un certo punto, nel capitolo XIV si parla del modo il cui ci si pone alle altre persone e la prima cosa che l'autore sottolinea è che il mal costume riguardo al quale è in procinto di parlare non è italiano, bensì è stato importato in Italia da un altro popolo, quello spagnolo.

Non dobbiamo dimenticare che già la parte meridionale della penisola faceva parte del S.R.I., e che nemmeno un decennio dopo la stesura di questo libro, con il trattato di Cateau Cambresis del 1559, il settentrione sarà ufficialmente sotto il dominio spagnolo. 

Il costume in questione è il cerimoniare le altre persone; questo comportamento per l'autore è indice di vanità e non meno grave del mentire. [...] 
Altro affare è se le cerimonie ci vengono fatte: 
mai rifiutarle perché potrebbe essere preso come segno di arroganza. 
Gli stessi princìpi devono essere osservati nelle lettere cartacee. 

Dopo questa piccola parentesi, il Della Casa torna ad illustrare i costumi del favellare. 
Ci dice che mai si devono usare termini vili o sconvenevoli in un discorso, neanche se il fine del quale è il riso e che, non tanto se la discussione è breve ma per lo più quando si ha intenzione di portarla avanti, si deve usare un linguaggio il più possibile “ordinato e ben espresso” in modo tale che l'uditore possa essere in grado di immaginare le cose con cui lo si sta intrattenendo. Oltre alla chiarezza delle parole usate, è importante anche che queste abbiamo un bel suono.

In più, prima di parlare di un qualsiasi argomento, è bene saperlo nella propria mente
Non sta bene né interrompere qualcuno mentre sta parlando, né tantomeno aiutarlo a trovare le parole se in difficoltà perché significherebbe incentivarlo alla pigrizia

Al capitolo XXV il Della Casa paragona il suo manuale con il ben più antico Canone di Policleto: evidenzia anche il fatto che a differenza del grande maestro greco lui non possa fornire un esempio concreto, ma può solo augurarsi che le persone, le quali leggeranno questo suo libro, mettano in pratica i suoi consigli.

Secondo l'autore i cattivi costumi sono da considerarsi come le malattie, e più in là con gli anni si va e più è difficile liberarsene; infatti consiglia di iniziare la pratica delle buone maniere fin da piccoli perché “la tenera età, sì come pura, più agevolmente si tigne d'ogni colore”. 

Negli ultimi tre capitoli l'autore ci parla di alcuni comportamenti generali: 
tutto ciò che si fa non deve solo essere giusto, ma deve anche essere fatto con leggiadria; il gentiluomo non deve mai correre o camminare troppo lentamente; inoltre, secondo la visione dell'autore "non abbiamo potere di mutar le usanze a nostro senno, ma il tempo le crea" quindi, ovunque ci troviamo, è giusto e doveroso adattarsi ai costumi locali.

Il Della Casa ci riporta anche dei comportamenti da tenere a tavola, come il non grattarsi, non riempirsi troppo la bocca, non pulirsi i denti con il tovagliolo, né tantomeno con lo stuzzicadenti e non sputare, prendendo in questo esempio da quei popoli di cui aveva tanto sentito parlare, i persiani, che non avevano mai avuto quest'abitudine. 

Altra cosa che sconsiglia caldamente è l'offrire da bere, altra “malattia” d'oltralpe, ma che per fortuna, non si è ancora radicata in Italia. Il lavarsi le mani in pubblico è accettabile solo prima di pranzo e dinnanzi ai commensali, così che possano essere sicuri che la persona con cui divideranno il cibo è pulita; infatti nel XVI secolo era ancora diffuso il dividere il piatto e il bicchiere con un'altra persona e l'uso delle posate non era ancora ben radicato.

Contesto
L'opera si inserisce nel filone umanistico e didascalico che, prendendo le mosse dall'opera allegorica di Brunetto Latini e dal Fiore dantesco, attraverso le speculazioni degli Umanisti del Quattrocento raggiunge i suoi culmini con il Cortegiano (1513-1518) di Baldassarre Castiglione, gli Asolani (1505) e le Prose della volgar lingua (1525) di Pietro Bembo. [...] 


[Aneddoto di Messer Galateo e del Conte Ricciardo]
[...] Avenne che, passando in quel tempo di là un nobile uomo, nomato Conte Ricciardo, egli si dimorò più giorni col Vescovo e con la famiglia di lui, la quale era per lo più di costumati uomini e scienziati. E percioché gentilissimo cavaliere parea loro e di bellissime maniere, molto lo commendarono et apprezzarono; se non che un picciolo difetto avea ne' suoi modi; del quale essendosi il Vescovo – che intendente signore era – avveduto et avutone consiglio con alcuno de' suoi più domestichi, proposero che fosse da farne aveduto il Conte, comeché temessero di fargliene noia. Per la qual cosa, avendo già il Conte preso commiato e dovendosi partir la matina vegnente, il Vescovo, chiamato un suo discreto famigliare, gli impose che, montato a cavallo col Conte, per modo di accompagnarlo, se ne andasse con esso lui alquanto di via; e, quando tempo gli paresse, per dolce modo gli venisse dicendo quello che essi aveano proposto tra loro. Era il detto famigliare uomo già pieno d'anni, molto scienziato et oltre ad ogni credenza piacevole e ben parlante e di grazioso aspetto, e molto avea de' suoi dì usato alle corti de' gran signori: il quale fu e forse ancora è chiamato M(esser) Galateo, a petizion del quale e per suo consiglio presi io da prima a dettar questo presente trattato. Costui, cavalcando col Conte, lo ebbe assai tosto messo in piacevoli ragionamenti; e di uno in altro passando, quando tempo gli parve di dover verso Verona tornarsi, pregandonelo il Conte et accommiatandolo, con lieto viso gli venne dolcemente così dicendo: – Signor mio, il Vescovo mio signore rende a V(ostra) S(ignoria) infinite grazie dell'onore che egli ha da voi ricevuto; il quale degnato vi siete di entrare e di soggiornar nella sua picciola casa. Et oltre a ciò, in riconoscimento di tanta cortesia da voi usata verso di lui, mi ha imposto che io vi faccia un dono per sua parte, e caramente vi manda pregando che vi piaccia di riceverlo con lieto animo; et il dono è questo. Voi siete il più leggiadro et il più costumato gentiluomo che mai paresse al Vescovo di vedere; per la qual cosa, avendo egli attentamente risguardato alle vostre maniere et essaminatole partitamente, niuna ne ha tra loro trovata che non sia sommamente piacevole e commendabile, fuori solamente un atto difforme che voi fate con le labra e con la bocca, masticando alla mensa con un nuovo strepito molto spiacevole ad udire. Questo vi manda significando il Vescovo e pregandovi che voi v'ingegniate del tutto di rimanervene e che voi prendiate in luogo di caro dono la sua amorevole riprensione et avertimento; percioché egli si rende certo niuno altro al mondo essere che tale presente vi facesse. – Il Conte, che del suo difetto non si era ancora mai aveduto, udendoselo rimproverare, arrossò così un poco, ma, come valente uomo, assai tosto ripreso cuore, disse: – Direte al Vescovo che, se tali fossero tutti i doni che gli uomini si fanno infra di loro, quale il suo è, eglino troppo più ricchi sarebbono che essi non sono. E di tanta sua cortesia e liberalità verso di me ringraziatelo sanza fine, assicurandolo che io del mio difetto sanza dubbio per innanzi bene e diligentemente mi guarderò; et andatevi con Dio.


V [A tavola: modi dei commensali e dei servitori]
[...] Dee adunque l'uomo costumato guardarsi di non ugnersi le dita sì che la tovagliuola ne rimanga imbrattata, percioché ella è stomachevole a vedere; et anco il fregarle al pane che egli dee mangiare, non pare polito costume. I nobili servidori, i quali si essercitano nel servigio della tavola, non si deono per alcuna condizione grattare il capo né altrove dinanzi al loro signore quando e' mangia, né porsi le mani in alcuna di quelle parti del corpo che si cuoprono, né pure farne sembiante, sì come alcuni trascurati famigliari fanno, tenendosele in seno, o di dirieto nascoste sotto a' panni; ma le deono tenere in palese e fuori d'ogni sospetto, et averle con ogni diligenza lavate e nette, sanza avervi sù pure un segnuzzo di bruttura in alcuna parte. E quelli che arrecano i piattelli o porgono la coppa, diligentemente si astenghino in quell'ora da sputare, da tossire e, più, da starnutire [...]. 

Quando si favella con alcuno, non se gli dee l'uomo avicinare sì che se gli aliti nel viso, percioché molti troverai che non amano di sentire il fiato altrui, quantunque cattivo odore non ne venisse. [...]


http://www.classicitaliani.it/index022.htm


https://it.wikipedia.org/wiki/Galateo_overo_de%27_costumi


http://www.letteraturaitaliana.net/pdf/Volume_5/t118.pdf

Jacopo Pontormo, Giovanni Della Casa


Luigi Pirandello, "I vecchi e i giovani". Mangia il Governo, mangia la Provincia; mangia il Comune e il capo e il sottocapo e il direttore e l'ingegnere e il sorvegliante... Che può avanzare per chi sta sotto terra e sotto di tutti e deve portar tutti sulle spalle e resta schiacciato?

«Ai miei figli, giovani oggi, vecchi domani» 
è la dedica di Pirandello


Mangia il Governo, mangia la Provincia; mangia il Comune e il capo e il sottocapo e il direttore e l'ingegnere e il sorvegliante... Che può avanzare per chi sta sotto terra e sotto di tutti e deve portar tutti sulle spalle e resta schiacciato?
Luigi Pirandello, "I vecchi e i giovani"


Sorte miserabile quella dell'eroe che non muore, 
dell'eroe che sopravvive a se stesso.
Luigi Pirandello, "I vecchi e i giovani"




Luigi Pirandello, I vecchi e i giovani.
[...] Pirandello inizia a scrivere I vecchi e i giovani nel 1906, e sono passati poco più di dieci anni dalla “materia” del romanzo, che è l’esplosione del movimento dei Fasci siciliani tra il 1892 e il 1894, cioè tra l’inizio degli scioperi nelle campagne e nelle zolfare – una cosa nuova che mai si è veduta prima – e le stragi di contadini e popolani fino all’instaurazione dello stato d’assedio e la repressione di massa, con l’arresto di tutti i dirigenti dei Fasci e centinaia e centinaia di militanti; lo stesso lasso di tempo che intercorre tra lo scandalo della Banca romana e la crisi del giolittismo, con l’avvento al governo di Francesco Crispi

[...] Non è solo emblematico il personaggio di Francesco D’Atri, che ricalca proprio Francesco Crispi, e decide da primo ministro di porre lo stato d’assedio e il tribunale militare, lui che gli stati d’assedio li aveva vissuti da patriota perseguitato, lui che aveva tuonato contro la legge Pica e i tribunali speciali; ma c’è Mauro Mortara, il personaggio del vecchio garibaldino tutto d’un pezzo, che fu costretto a rifugiarsi da esule a Malta e ormai vive una sorta di esilio in campagna, dove custodisce i ricordi del periodo eroico di speranze, a rappresentare il nodo delle contraddizioni di quel momento: ostile ai movimenti sociali, che considera un pericolo per l’unità della nazione – «Sbirro, vi giuro, andrei a farmi, vecchio come sono» –, fino a decidere di scendere in piazza con le sue pistolone per affrontarli, «armato come un brigante», finirà fucilato dall’esercito che lo scambiano per un rivoltoso: ormai i soldati sparano a tutto ciò che è rosso, come il gonfalone dei Fasci e come la camicia indossata da Mortara.
In questo stare dalla parte sbagliata, in questo morire dalla parte sbagliata, è tutta la problematicità del romanzo nei confronti del Risorgimento. Passando tra i cadaveri lasciati sulla strada, e rivoltando il corpo del vecchio sul cui petto scoprono le medaglie del suo valore, i soldati si chiedono: «Chi avevano ucciso?». Così si chiude il romanzo. Che forse è anche: «Cosa avevano ucciso?»: l’epopea garibaldina è ormai solo un lontano ricordo, un vecchio patetico e fuor di cotenna, disconosciuto, almeno per quei soldati

[...] in Verga e nella novella Libertà – in cui si narrano i fatti di Bronte e la repressione di Bixio, con cui Verga si schiera decisamente – la sua maggiore evidenza.

La novella [1883, Verga aveva non solo la distanza storica dai fatti, ma all’arrivo di Garibaldi si era arruolato nella Guardia Nazionale dove restò per tre anni] termina così: «Il carbonaio, mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: Dove mi conducete? In galera? O perché? Se non ho avuto nemmeno un palmo di terra! Se avevano detto che c‘era la libertà!» In qualche modo questo finale riecheggia in Giuseppe Cesare Abba, uno scrittore “italiano e patriottico” che nella sua Vita di Bixio [1905], raccontando proprio i fatti di Bronte scrisse: «Si parlava persino di divisione dei beni…». Ecco, questa cosa, la libertà della divisione delle terre – sebbene fosse il primo punto del proclama del 2 giugno di dittatura a Palermo di Garibaldi: «Con decreto dittatoriale è disposta la quotizzazione delle terre dei demani comunali tra coloro che si sono battuti per la patria e l’ereditarietà di tale diritto per i discendenti» –, proprio no.
[...] Verga, peraltro, si è iscritto al Partito nazionalista e si schiera decisamente con l’impresa d’Affrica: avevamo fame di terra e piuttosto che dividere quelle che c’erano qui doveva sembrargli più realistico andare a prendere quelle d’altrove. [...] 

Carlo Salinari, nel 1960, rivalutò il romanzo parlando di un triplice fallimento storico, del Risorgimento, dell’Unità, del socialismo
«Nel romanzo si ha acuta consapevolezza di tre fallimenti collettivi: 
quello del Risorgimento come moto generale di rinnovamento del nostro Paese, 
quello dell’unità come strumento di liberazione e di sviluppo delle zone più arretrate e in particolare della Sicilia e dell’Italia meridionale, 
quello del socialismo che avrebbe potuto essere la ripresa del movimento risorgimentale, e invece si era perduto nelle secche della irresponsabile leggerezza dei dirigenti e della ignoranza e arretratezza delle masse». 

[...] 
Al conflitto tra i vecchi e i giovani [«Ai miei figli, giovani oggi, vecchi domani» è la dedica di Pirandello] [...].

«Un manifesto era stato attaccato ai muri, ma il popolino lo ignorava; e, ignorandolo, al solito, come altrove, coi ritratti del re e della regina, un crocefisso in capo alla processione, gridando – Viva il re! Abbasso le tasse! – s’era messo a percorrere le vie del paese, finché, uscendo dalla piazza e imboccando una strada angusta che la fronteggiava, vi aveva trovato otto soldati e quattro carabinieri appostati. L’ufficiale che li comandava aveva preso questo partito con strategia sopraffina, perché la folla inerme, lì calcata e pigiata, alle intimazioni di sbandarsi non si potesse più muovere; e lì non una ma più volte, aveva ordinato contro di essa il fuoco. Undici morti, innumerevoli feriti, tra cui donne, vecchi, bambini. Ora, tutto era calmo, come in un cimitero». 
[Pirandello, I vecchi e i giovani, p. 237] 

La narrazione di Pirandello, cruda come un reportage, ripercorre la strage di Santa Caterina Villermosa del 5 gennaio 1894. Il 3 gennaio, a Palermo, il generale Morra di Lavriano in virtù dei poteri conferitigli da Crispi aveva decretato lo stato d’assedio, sciolto per legge i Fasci dei lavoratori e disposto l’arresto dei membri del Comitato centrale. 

[...] E ci furono anche [...] manifestazioni al grido di “abbasso Giolitti, viva Crispi”. Questo, certo, prima che Crispi desse pieni poteri al generale Morra. A quel punto restò ai contadini solo l’intercessione delle immagini del re e della regina, come santi da portare in corteo, insieme alla Vergine e al Cristo [...] a Santa Caterina Villermosa, 14 morti, di cui racconta Pirandello. Poi, appunto, la calma di un cimitero. [...] 

Il primo Fascio venne inaugurato a Messina nel 1888 da Nicolò Petrina, un giovane che si era molto distinto fondando la Croce rossa e portando soccorso alla popolazione durante il colera del 1884, e godeva di estrema popolarità. Petrina riunificò in un’unica sigla e un’unica organizzazione una radicata presenza di società e leghe di mutuo soccorso e resistenza operaia e artigianale. La denominazione “Fascio” non era nuova: era stata già usata, nel decennio precedente, da associazioni operaie romagnole, per rinvigorire simbolicamente il carattere di “società di resistenza” delle loro associazioni

L’esperienza di Petrina a Messina venne bruscamente interrotta dall’arresto e dal carcere e il fascio locale non resse a quest’assenza. Fu con De Felice Giuffrida a Catania, nel 1891, che i Fasci ebbero un impulso straordinario, diffondendosi dalla città alla campagna delle province. E la loro peculiarità. E la consacrazione nell’isola avvenne con l’occasione dell’Esposizione universale a Palermo del 1892. Gli guastarono la festa: in mille arrivarono da Catania, sfilando in corteo – “passeggiate”, le chiamavano i Fasci – per la città. Nacque il Fascio di Palermo, sotto la direzione di Bernardino Verro, un impiegato comunale espulso per le sue idee, e poi fu uno sviluppo rapido e impetuoso. Al processo del 1894 si favoleggiò di trecento Fasci capaci di mobilitare 350mila uomini, ma De Felice fu più modesto e precisò che si trattava “solo” di 175 Fasci in tutta la regione. Per Pirandello: «centosessantatré fermamente costituiti, trentacinque in via di formazione» [I vecchi e i giovani, p. 173].

[...] Una cosa nuova che la chiamavano sciopero [Sipala]. Una materia fantastica. Un’epopea.
Nei primi giorni di ottobre del 1893 giunge in Sicilia Adolfo Rossi, brillante e affermato giornalista autore di reportage di successo apparsi su diversi giornali e riviste. Vi è stato inviato da uno dei più diffusi quotidiani dell’Italia centro-meridionale, «la Tribuna», con l’incarico di compiere un’ampia inchiesta giornalistica sul fenomeno dei Fasci, le cui risultanze appariranno in undici puntate, tra l’8 ottobre e il 3 novembre 1893 [Fedele]. L’inviato della «Tribuna» volle conoscere di persona la realtà dei Fasci e animato da tale proposito compierà un giro, in ferrovia, a diligenza, a cavallo, visitando ampie zone dell’interno, nelle province di Palermo, Caltanissetta e Agrigento. Scenderà nelle miniere di zolfo e vedrà i carusi, veri schiavi del lavoro, ricavandone una pena infinita, parlerà direttamente con centinaia di contadini, artigiani, minatori. Rossi, che rimarrà colpito dalle «processioni», dai fuochi di paglia e dalle torce a vento nella notte per avvisarsi un paese con l’altro dell’arrivo di un “capo”, dalle fanfare e dai festoni, dalle carmagnole nere – una pellegrina, con un cappuccio che si chiudeva lasciando scoperti solo gli occhi, sorta di indumento da black bloc – e dai distintivi rossi, e dall’«alone di santità» che circonda alcuni dirigenti dei Fasci, riporta con stupore la significativa presenza femminile. È tutta una carrellata di donne contadine, combattive e determinate, ma alcune rimangono davvero impresse

Siamo al Domatë ë gghindevet cë scerbejn, che poi è il Fascio dei lavoratori di Piana degli Albanesi: «Vedete questa nostra compagna? Mi dissero poi mostrandomi una bella giovane diciottenne, formosa, dai grandi occhi neri, che col viso incorniciato dalla mantellina albanese di lana bianca aveva tutto l’aspetto di una vestale. – Durante l’ultimo tumulto ella si avanzò verso i soldati che avevano spianato le armi contro il popolo e disse loro: “Avreste il coraggio di tirare contro di noi?” Un soldato le rispose piano, per non farsi sentire dagli ufficiali: “Io per me ti do anche il fucile, se lo vuoi”. Il capitano poi le disse: “Invitate le vostre compagne e i vostri uomini a gridare: Viva il Re! Viva l’esercito! e tutto sarà allora finito”. Così infatti avvenne. Da quel momento noi abbiamo scelto questa compagna per portabandiera della sezione femminile del Fascio». 
Tra non molto non sarebbe bastato gridare Viva il re! e tutto il coraggio di una portabandiera. 

[...]  «Non voleva credere che le banche avessero largheggiato verso il Governo per fini elettorali, per altri più loschi fini coperti; e che, favore per favore, il Governo avesse proposto leggi che per le banche erano privilegi, e difeso i prevaricatori, proponendoli agli onori della commenda e del Senato. Ma non poteva negare che fosse stato aperto il credito a certi uomini politici carezzati, che in Parlamento e per mezzo della stampa avevano combattuto a profitto delle banche falsarie, tradendo la buona fede del paese; e che questi gaudenti avessero voluto occultare ciò che da tempo si sapeva o si poteva sapere; e che, ora che le colpe avventavano, si volesse percuotere, ma con la speranza che la percossa ai più deboli salvasse i più forti». 
[I vecchi e i giovani, p. 146] 

Lo scandalo della Banca Romana, e in generale la crisi del sistema bancario, fu causato dalla grave depressione iniziata nel 1887-88 e dagli eccessivi investimenti nel settore edilizio, dopo il trasferimento della capitale. Per coprire le perdite, l’istituto di credito della capitale non solo iniziò a emettere nuova moneta senza autorizzazione, ma arrivò addirittura a stampare due serie di biglietti con lo stesso numero di serie, in modo da raddoppiare l’emissione di moneta in circolazione: la Banca Romana, a fronte dei 60 milioni autorizzati, per cui possedeva sufficienti riserve auree, aveva emesso biglietti di banca per 113 milioni di lire, incluse banconote false per 40 milioni emesse in serie doppia

Il presidente del Consiglio Giovanni Giolitti promosse un’inchiesta e il governatore della Banca Romana Bernardo Tanlongo venne arrestato. Dal carcere, Tanlongo affermò di aver dato cospicue somme anche a diversi presidenti del consiglio, tra cui Giovanni Giolitti e Francesco Crispi.

Lo scandalo ebbe non soltanto enorme risonanza nell’opinione pubblica, ma anche pesanti ripercussioni sia a livello politico, sia sul sistema economico e bancario italiano. A seguito del caos finanziario, Giolitti pose mano rapidamente al riordino del sistema creditizio. Ancora tre decenni dopo l’Unità, in Italia vi erano ben sei banche centrali con la facoltà di emettere biglietti di banca intitolati al Regno d’Italia
la Banca Romana, la Banca Nazionale di Torino, il Banco di Napoli, il Banco di Sicilia, la Banca Nazionale Toscana e la Banca Toscana di Credito. Fu fondata la Banca d’Italia attraverso la fusione della Banca Nazionale con le due banche toscane e alla nuova banca fu affidata la liquidazione della Banca Romana. 

Il procedere del processo penale e dello scandalo derivato dalla vicenda, con il sospetto di coinvolgimento degli uomini politici e di occultamento delle prove, portò nel novembre 1893 a una crisi politica e alle dimissioni di Giovanni Giolitti da capo del Governo, sostituito in dicembre da Francesco Crispi. [Wikipedia] 

Certo, rispetto le raffinatezze dell’economia finanziaria di oggi appare un po’ primitivo e rozzo il sistema di stimulus inventato da Tanlongo – che si appoggiò a una tipografia londinese per raddoppiare le serie dei biglietti

Eppure, la “creatività finanziaria” – nove milioni di lire riapparvero in una notte, tramite un prestito virtuale fra collegate – costeggia sempre tra la violazione delle regole e l’agibilità in territori dove le regole non sono ancora vigenti. 

La bolla immobiliare della speculazione edilizia a Roma, soprattutto, ma anche a Napoli, Torino, Palermo, Firenze, in un ciclo di edificazione selvaggia che sembrava senza fine scoppiò ai primi segni di crisi, trascinandosi dietro il sistema finanziario. 
Non è una novità. 
La riorganizzazione del sistema creditizio finì con il produrre un aggravarsi della recessione economica. 
Non è una novità. 
[...] La novità, allora, furono i Fasci.

Emanuele Notarbartolo dal 1862 è prima reggente poi titolare del Banco di Sicilia. [...] 
Dal 1876 si occupa a tempo pieno del Banco di Sicilia: il Banco è sull’orlo del fallimento, e l’opera di Notarbartolo evita di far collassare l’economia siciliana. Il suo lavoro inizia a inimicargli molta gente. Il consiglio della banca è composto principalmente da politici, molti dei quali legati alla mafia locale. Nel 1882 il marchese viene sequestrato per un breve periodo. L’1 febbraio 1893, nel tragitto in treno tra Termini Imerese e Trabia, venne ucciso con 27 colpi di pugnale da Matteo Filippello e Giuseppe Fontana, legati alla mafia siciliana. È il primo delitto eccellente di mafia. 
[Wikipedia]. 

Si disse anche che Notarbartolo si fosse opposto alla «fabbricazione di moneta» del Banco – che aveva facoltà di stampa di moneta nazionale – per il Tanlongo. Tutto si aggrovigliava in Sicilia. 

Dal luglio 1887 al febbraio del 1891, e dal dicembre 1893 al marzo 1896, a capo del governo c’è Crispi, capo della Sinistra storica, un siciliano. Dal febbraio 1891 al maggio 1892 e dal marzo 1896 al giugno 1898, a capo del governo c’è di Rudinì, capo della Destra storica e del latifondo, un siciliano. Giolitti è dunque un intermezzo, dal maggio 1892 al dicembre 1893, in questo decennio in cui le stragi di Sicilia portano la firma di Crispi e quella delle cannonate di Bava Beccaris a Milano porta la firma di di Rudinì. Crispi e di Rudinì erano entrambi garibaldini, avevano “fatto” il Risorgimento, come peraltro mille altri, come lo stesso Notarbartolo. [...] 

«E prese a raccontare, con atteggiamento, di grave costernazione, i fatti avvenuti di recente in Sicilia [...] provavano come in tutta l’isola covasse un gran fuoco, che presto sarebbe divampato; e a rappresentar la Sicilia come una catasta immane di legna, d’alberi morti per siccità, e da anni e anni abbattuti senza misericordia dall’accetta [...] . Ora i giovincelli s’erano divertiti ad accendere sotto la catasta i fasci di paglia delle loro predicazioni socialistiche, ed ecco che i vecchi ceppi cominciavano a prender fuoco. Erano per adesso piccoli scoppii striduli, crepitìi qua e là; scappava fuori ora da una parte ora dall’altra qualche lingua di fiamma minacciosa; ma già s’addensava nell’aria come una fumicaja soffocante. E il peggio era questo: che il Governo invece d’accorrere a gettar acqua, mandava soldati a suscitare altro fuoco col fuoco delle armi». 
Luigi Pirandello, I vecchi e i giovani, p. 187

E il peggio era questo, che il Governo mandava solo soldati. 
«Quei contadini di Sicilia, trovando nella rabbia per l’ingiustizia altrui il coraggio d’affermare con violenza un loro diritto, s’erano recati a zappare le terre demaniali usurpate dai maggiorenti del paese, amministratori ladri dei beni patrimoniali del Comune: intimoriti dall’intervento dei soldati, avevano sospeso il lavoro ed erano accorsi a reclamare al Municipio la divisione di quelle terre; assente il capo, s’era affacciato al balcone un subalterno che, per allontanare il tumulto, li aveva consigliati di ritornar pure a zappare; ma per via la folla aveva trovato il passo ingombro dalla milizia rinforzata; accennando di voler resistere, s’era veduta prima assaltare alla bajonetta; poi, a fucilate, per avere agitato in aria le zappe a intimorir gli assalitori. Dodici, i morti; più di cinquanta, i feriti: tra questi, alcuni bambini, uno dei quali crivellato da ben sette bajonettate». 
[I vecchi e i giovani, p. 148] 

[...] E il peggio era questo, che il Governo mandava solo soldati. 
«E qual rovinio era sopravvenuto in Sicilia di tutte le illusioni, di tutta la fervida fede, con cui s’era accesa alla rivolta! Povera isola, trattata come terra di conquista! Poveri isolani, trattati come barbari che bisognava incivilire! Ed erano calati i Continentali a incivilirli… e i tribunali militari, e i furti, gli assassinii, le grassazioni, orditi ed eseguiti dalla nuova polizia in nome del Real Governo; e falsificazioni e sottrazioni di documenti e processi politici ignominiosi: tutto il primo governo della Destra parlamentare! E poi era venuta la Sinistra al potere, e aveva cominciato anch’essa con provvedimenti eccezionali per la Sicilia… – Ridere, ridere! – incalzò donna Caterina con più foga. – Lo sa bene anche lei come quegli ideali si sono tradotti in realtà per il popolo siciliano! Che n’ha avuto? Com’è stato trattato? Oppresso, vessato, abbandonato e vilipeso! Gli ideali del Quarantotto e del Sessanta? Ma tutti i vecchi qua gridano: Meglio prima! Meglio prima! [...] Qua c’è la fame, caro signore, nelle campagne e nelle zolfare; i latifondi, la tirannia feudale dei cosiddetti cappelli, le tasse comunali che succhiano l’ultimo sangue a gente che non ha neanche da comperarsi il pane! Si stia zitto! Si stia zitto! Perché voi lo vedrete, – concluse. Faccio una facile profezia: non passerà un anno, assisteremo a scene di sangue». 
[I vecchi e i giovani, p. 59] 


[...] Tra il 1888 e il 1895, in Sicilia esplode il dramma della crisi agraria, che non è solo del grano ma anche del vino, per via della guerra tariffaria con la Francia, e si intreccia a quella dello zolfo, per via del prodotto americano.

A partire dagli ultimi mesi del 1892 la situazione diventa intollerabile. 
De Felice, al processo, dirà che il raccolto dei grani del 1892 e del 1893 fu inferiore del 44 percento, e tutti gli altri di un terzo e un quarto. E qui si colloca la diffusione straordinaria dei Fasci nel contesto rurale, con l’adesione a essi non soltanto dei braccianti, ma anche di una porzione considerevole dei mezzadri e dei piccoli proprietari e di settori non irrilevanti di piccoli proprietari pesantemente penalizzati dalla crisi. Ad organizzarli «centinaia di giovani professionisti e studenti universitari siciliani, espressione di un fenomeno che negli ultimi anni del secolo vede settori certamente minoritari ma non insignificanti della gioventù studiosa siciliana abbracciare la causa del riscatto della loro terra» [Fedele]. 

Eccolo, il «dramma della generazione» di Pirandello
[...] I Fasci non sono un fenomeno dell’arretratezza [...]: 
lo scontro non è solo tra classi, ma direttamente con lo Stato – con la richiesta di abolire o ridurre le tasse comunali, sciogliere le amministrazioni locali –, non c’è mediazione dei partiti ma immediato protagonismo di masse popolari, e, soprattutto, utilizzano la piazza come luogo naturale ove la lotta trova il modo di esplicarsi in tutto il vigore. È la lotta di strada. È il tumulto. È l’insurrezione. 

Tra il 1891 e il 1893 le contraddizioni politiche tra classi dirigenti dello Stato, la crisi economica, la crisi finanziaria, la recessione, e l’affacciarsi di una “cosa” che mai si era vista prima, un movimento sociale composito e insorgente, si concentrano tutte in un territorio. Tutto si aggroviglia lì, in Sicilia. 

«Sapeva, sì, che già prima nelle Romagne, nel Modenese, nelle province di Reggio Emilia e di Parma, nel Cremonese, nel Mantovano, nel Polesine, era sorto a far le prime armi il socialismo italiano; ma tutt’altra cosa era adesso in Sicilia! Rivelazione improvvisa, prodigiosa!» 
[I vecchi e i giovani, p. 170] 

Quando ormai le stragi di contadini sono diventate quotidiane, lo stato d’assedio è proclamato, i dirigenti e i militanti dei Fasci sono già in prigione, Eduardo Boutet – un giovane brillante critico teatrale napoletano molto letto e seguito – pubblicava nel «Don Chisciotte» di Roma del 7 gennaio 1894 un articolo dal titolo: Sicilia verista e Sicilia vera. È un attacco frontale, senza riguardi, contro i grandi vecchi del verismo, del romanzo realista, Capuana e Verga: 
«E voi scrittori siciliani, di novelle, di bozzetti, di macchiette e via, perché ne’ vostri libri, non avete narrate quelle sciagure? Luigi Capuana e Giovanni Verga hanno sempre dichiarato che essi riproducevano, dall’ambiente al carattere, il vero. [...] Altro che compari Turiddu e compari Alfio, e morsetti all’orecchio e male pasque a te e a me! Basta la storia squadernata al sole della sola zolfara per sentirsi spezzare l’anima. Invece compare Alfio se ne veniva a cantare allegramente alla ribalta: Oh, che bel mestiere fare il carrettiere. Ecco, è chiaro. Vuol dire che la Sicilia degli scrittori che riproducevano dal vero, è diversa, assai diversa, dalla Sicilia vera: popolo che soffre tutti gli strazi e tutti i soprusi, e che cerca nella morte la fine de’ patimenti più infami e più ingiusti. Vuol dire che la Sicilia-Cavalleria Rusticana, nella quale si può riassumere la macchietta, il bozzetto e la novella, era una Sicilia esercitazione letteraria, quindi retorica nel metodo, e nel fine una Sicilia d’osservazione in prima pelle, o in quanto si presta alla grazietta accademica e nulla più: di maniera. Vuol dire che quegli scrittori hanno forse tutte le doti di artisti, non mi riguarda, ma quando gridano di riproduzione dal vero non sono esatti: si sono fermati a’ giubbetti ed ai fioretti, e nelle anime non hanno guardato: se le anime avessero vedute e sentite ben altro dovere avrebbero dato alla loro letteratura. Con i carusi non si fanno i volumini gingilli e le illustrazioncelle civettuole pe’ salottini rococò!» [...]

Mario Rapisardi, il “lirico” poeta catanese di risonanza nazionale – Pirandello, in gioventù ne era affascinato, ma presto la sua scrittura se ne allontanò – aveva declamato nel Canto dei mietitori: 

«O benigni signori, o pingui eroi, / 
Vengano un po’ dove falciamo noi: / 
Balleremo il trescon, la ridda, e poi… / 
Poi falcerem le teste a lor signori». 
Mario Rapisardi, Canto dei mietitori

[...] «L’uomo incappucciato esitò ancora un po’, prima di rispondere; volse intorno gli occhi sospettosi, poi mormorò, sempre dentro il cappuccio: – M’hanno parlato a quattr’occhi… Persona fidata… Dice che… E s’interruppe di nuovo. – Parla, parla, figlio mio, – lo esortò il Pigna. – Siamo qua soli… Che t’hanno detto? Gli occhi sospettosi sotto il cappuccio espressero lo sforzo penoso che colui faceva su se stesso per vincere il ritegno di parlare. Alla fine, stringendosi più al muro e stendendo appena fuor del cappotto una mano sul braccio del Pigna, domandò a bassissima voce: – È qua che si spartiscono le terre? Nocio Pigna, mezzo imbalordito per tutto quel mistero, restò a guardarlo un pezzo di traverso, a bocca aperta. – Le terre? – disse. – Le terre, no, figlio mio. Quegli allora alzò il mento e chiuse gli occhi, per un cenno d’intesa. Sospirò: – Ho capito. Mi pareva assai! Mi hanno burlato. E si mosse per andar via. Nocio Pigna lo trattenne. – Perché burlato? No, figlio mio… Senti… – Mi scusi Voscenza, – disse quegli, fermandosi per farsi dar passo. – È inutile. Ho capito. Mi lasci andare… – E aspetta, caro mio, se non mi dài il tempo di spiegarmi… – s’affrettò a soggiungere il Pigna. – Le terre, sissignore, verranno anche quelle… Basta volere! Se noi vogliamo… Sta tutto qui! Unione, corpo di Dio, e siamo tutto, possiamo tutto! La legge la detteremo noi: debbono per forza venire a patti con noi. Chi lavora? chi zappa? chi semina? chi miete? O date tanto, o niente! Questo per il momento. Il nostro programma… Vieni, ti spiego tutto… – Voscenza mi lasci andare… Non è per me…» 
[I vecchi e i giovani, p. 101] 

Al processo contro i dirigenti dei Fasci che si tenne a Palermo tra l’aprile e il maggio del 1894 davanti al Tribunale militare di guerra, il 28 aprile viene a testimoniare, a favore di Garibaldi Bosco, il deputato Antonio Marinuzzi, avvocato, un moderato riformista.
Tra le altre cose, dice: 
«Anch’io sono per la proprietà collettiva in Sicilia perché è un concetto altamente storico. 
I contadini nostri si trovano in condizioni peggiori di quando vi era il feudo. La proprietà in Sicilia è male organizzata; una migliore organizzazione non suppone che si debba dare la proprietà ai contadini, ma l’uso di pascere, di seminare, di legnare, usi inalienabili. Questo è un concetto santissimo, ma messo questo concetto in piazza a gente che non sa leggere e scrivere e che è vittima di ingiustizie, questo concetto scientifico, seminato in quel terreno, non produce gli effetti che dovrebbe produrre, perché capiscono invece quelle genti che devono dividere le terre col proprietario». 
[«l’Ora», 28 ottobre 1974]. 

Quello capivano i contadini, che dovevano dividere le terre. [...]


«Che volevano infatti tutti quei suoi compagni? Ben poco, per il momento, in Sicilia. 
Volevano che, per l’unione e la resistenza dei lavoratori, venissero a patti più umani i proprietarii di terre e di zolfare, e cessasse il salario della fame, cessassero l’usura, lo sfruttamento, le vessazioni delle inique tasse comunali, per modo che a quelli fosse assicurato, non già il benessere, ma almeno tanto da provvedere ai bisogni primi della vita. Volevano, adattandosi modestamente alle condizioni locali, l’impianto di cooperative di consumo e di lavoro e la conquista dei pubblici poteri; fra qualche anno trionfare nelle elezioni comunali e provinciali dell’isola; riuscir vittoriosi in qualche collegio politico, per aver controlli e banditori delle più urgenti necessità dei miseri nei Consigli comunali e provinciali e nella Camera dei deputati. Questo volevano. Ed era giusto. Non c’era altro da volere, altro da fare, per ora. E tanta esaltazione, dunque, e tanto fermento per ottenere ciò che forse nessuno, fuori dell’isola, avrebbe mai creduto che già non ci fosse: che in ogni casolare sparso nella campagna la lucernetta a olio non mostrasse più ai padri che ritornavano disfatti dal lavoro lo squallido sonno dei figliuoli digiuni e il focolare spento; che fossero posti in grado di divenire e di sentirsi uomini, tanti cui la miseria rendeva peggio che bruti. Una buona legge agraria, una lieve riforma dei patti colonici, un lieve miglioramento dei magri salarii, la mezzadria a oneste condizioni, come quelle della Toscana e della Lombardia, sarebbero bastati a soddisfare e a quietare quei miseri, senza tanto fragor di minacce, senza bisogno d’assumere quelle arie d’apostoli, di profeti di paladini. Oneste, modeste aspirazioni, quasi evangelicamente disciplinate, da raggiungere grado grado, col tempo e con la chiara coscienza del diritto negato! Perché ancora, ancora dentro, esasperatamente, gli scattava la protesta: – No, non è questo? – Mancava il coro innumerevole, che era in Sicilia». 
[I vecchi e i giovani, p. 174] 

[...] Il giudizio di Croce sul gruppo dirigente dei Fasci è durissimo: 
«Il torto di quegli uomini, di quei giovani, era di eccitare e tirarsi dietro masse ignoranti e inconsapevoli, credendo di potersene valere per attuare idee che quelle non comprendevano e dalle quali erano lontanissime: cioè di tentare sia pure a fin di bene, un imbroglio; che non è cosa che possa mai partorir bene e, tessuta con l’inganno, merita di essere distrutta con la forza». 

Una valutazione, che lo accomuna ai socialisti del tempo, sulla “impreparazione delle masse”, si accompagna a un’altra, che lo accomuna alla reazione del tempo, sull’uso della repressione.

Per alcuni versi, Croce non fa che riecheggiare Pirandello, la cui descrizione dei personaggi dirigenti dei Fasci locali è crudele:
«E dalla svoltata apparvero sotto un ombrellaccio verde sforacchiato, stanchi e inzaccherati, i due inseparabili Luca Lizio e Nocio Pigna, o, come tutti da un pezzo li chiamavano, Propaganda e Compagnia: quegli, uno spilungone ispido e scialbo, con un pajo di lenti che gli scivolavano di traverso sul naso, stretto nelle spalle per il freddo e col bavero della giacchettina d’estate tirato su; questi, tozzo, deforme, dal groppone sbilenco, con un braccio penzolante quasi fino a terra e l’altro pontato a leva sul ginocchio, per reggersi alla meglio. Erano i due rivoluzionarii del paese. Nocio Pigna aveva posto davanti e dietro e tutt’intorno a sé ragioni e sentimenti, tutte le sue disgrazie, com’armi di difesa contro a quelli che lavoravano accanitamente per levargli ogni credito. Più parlava e più le sue stesse parole accrescevano la sua persuasione e la sua passione. Ma a furia di ripetere sempre le medesime cose, col medesimo giro, queste alla fine gli s’erano fissate in una forma che aveva perduto ogni efficacia; gli s’erano, per dir così, impostate su le labbra, come bocche di fuoco che non mandavano più fuori se non botto, fumo e stoppaccio. Dentro, non aveva più nulla. Era un uomo che parlava, e nient’altro».
[I vecchi e i giovani, p. 25]

Un uomo che parlava, e nient’altro.
Un linguaggio di parole, ciò che Pirandello massimamente detestava.
Un imbrogliare, lo definisce Croce. In un certo senso, l’appello che i dirigenti dei Fasci – Barbato, Bosco, De Felice, De Luca, Leone, Montalto, Petrina, Verro – lanciarono dalla “clandestinità” il 3 gennaio sembra dargli ragione:

[...] Avevano acceso «sotto la catasta i fasci di paglia delle loro predicazioni socialistiche, ed ecco che i vecchi ceppi cominciavano a prender fuoco». Ora, nessuno sapeva più cosa fare. E il governo mandava solo soldati.

[...] 

Pubblichiamo un articolo di Lanfranco Caminiti su «I vecchi e i giovani» di Pirandello.

di minima&moralia pubblicato martedì, 14 agosto 2012


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