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martedì 23 maggio 2017

Simone de Beauvoir. l’esistenzialismo, negando l’esistenza di un uomo universale ed assoluto e mirando alla molteplicità delle esperienze umane -, è destinata a prendere corpo in una letteratura autentica che «supera la separazione (degli esseri) affermandola». Simone de Beauvoir intenterà una critica mordace al ruolo tradizionalmente assegnato alla donna (Una donna spezzata, 1967; Il secondo sesso, 1949) o alla Terza età (1970), moltiplicando gli esempi concreti, presi in prestito tanto dalla sua vita che dalla letteratura di tutti i tempi, purché atti a dirci qualcosa sull’esperienza propria di ciascuno, in una situazione data.

Simone de Beauvoir
Romanziera e saggista francese (Parigi, 1908 - Parigi, 1986). 

Nata in una famiglia bene cattolica, Simone de Beauvoir intraprende, a diciassette anni, studi superiori di lettere e di matematica. Nel 1926, aderisce al   movimento socialista e, mentre prepara gli studi di ammissione all’università, segue corsi di filosofia alla Sorbona. Ammessa all’Università, compie un tirocinio all’Istituto universitario Janson-de-Sailly. Fa la conoscenza di Jean-Paul Sartre nel 1929 al quale si lega. Sarà l’incontro determinante con l’uomo col quale condividerà, da allora in avanti, tutta la vita  eccetto qualche breve separazione dovuta agli incarichi d’insegnamento in provincia. Ritorna a Parigi come  professore di filosofia al liceo Molière   nel 1936. 

Il suo primo libro,  L’invitata, esce nel 1943, anno in cui lascia l’insegnamento. A partire dal 1947, i viaggi si succedono: gli Stati Uniti, dove soggiorna nel 1950, l’Africa e l’Europa. Riceve il premio Goncourt nel 1954 per I Mandarini. Partecipa alle attività politiche di Sartre, militante per le cause vietnamite ed algerine. Continua a viaggiare, in Cina (1955), a Cuba ed in Brasile (1960), in Unione sovietica (1962), pur proseguendo la redazione delle sue memorie e la sua azione per la liberazione della donna. Nel 1971  assume la direzione di una rivista di estrema sinistra. Una delle prime a avere sostenuto la legalizzazione dell’aborto, ribadisce questa convinzione durante la campagna cominciata nel 1972.

Opera
La sua opera, fondata sulle stesse opzioni esistenzialiste di Jean-Paul Sartre, se ne differenzia nella misura in cui Simone de Beauvoir, preoccupata di dare ad ogni problema che affronta il proprio carattere concreto, utilizza di rado il linguaggio  filosofico, e preferisce piuttosto alla formulazione di una teoria, una riflessione diretta ed immediata sul vissuto. Si direbbe che utilizzi un linguaggio femminile - attento al particolare concreto - se il linguaggio maschile è invece teso all’universale astratto

Nata da un desiderio profondo di comunicare, la sua opera  è anche un’interrogazione sulla funzione ed il senso della comunicazione

Così, i suoi saggi (Pyrrhus e Cinéas, 1944; Per una morale dell’ambiguità, 1947; L’America  giorno per giorno, 1948; L’esistenzialismo e la saggezza delle nazioni, 1948; Privilegi, 1955; La lunga marcia, 1957; Djamila Boupacha, in collaborazione con Gisèle Halimi; A conti fatti, 1972; Bisogna bruciare Sade?, 1972) abbracciano temi diversi. 

Quest’opera - postulata dal fatto che l’esistenzialismo, negando  l’esistenza di un uomo universale ed assoluto  e mirando alla molteplicità delle esperienze umane -, è destinata a prendere corpo in una letteratura autentica che «supera la separazione (degli esseri) affermandola».

Simone de Beauvoir intenterà una critica mordace al ruolo tradizionalmente assegnato alla donna (Una donna spezzata, 1967; Il  secondo sesso, 1949) o alla Terza età (1970), moltiplicando gli esempi concreti, presi in prestito tanto dalla sua vita che dalla letteratura di tutti i tempi,  purché atti a dirci qualcosa  sull’esperienza  propria di ciascuno, in una situazione data

Una stessa volontà di radicare pensiero e progetti nel vissuto anima la sua impresa autobiografica, allo stesso tempo tentativo d’interpretazione di un’esistenza e testimonianza del suo impegno. 

L’azione - incessante compimento del proprio progetto intellettuale -, come anche l’esperienza del fallimento e la presenza della morte (L’ospite; Una morte  dolcissima) accrescono la presa di coscienza della nostra  finitezza dalla quale  sorge il movimento verso l’altro

L’impegno politico – lotta  per la liberazione della donna, sostegno ai popoli colonizzati, attività rivoluzionaria - non risponde, nella sua intimità di pensiero, ad un imperativo ideologico; è piuttosto la misura della libertà come anche l’atto con il quale, proiettandoci nel mondo, ci si situa e si situa gli altri nel mondo.

Simone de Beauvoir si è infine cimentata col teatro (Le bocche inutili, 1944); ma è probabilmente la sua autobiografia (Memorie di una ragazza perbene, 1958; L’età forte, 1960; La forza delle cose, 1963; A conti fatti, 1972) che perverrà ai posteri.

Non sappiamo quanto dell’opera di  un’intellettuale siffatta sia giunto o possa giungere alla giovane generazione del terzo millennio. Certo è che alle ragazze degli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso la parola, il gesto, l’esempio di Simone de Beauvoir arrivavano con tutto il clamore e il fascino di un article de Paris, ed ebbero grande influenza sulla successiva elaborazione femminista compiuta dalle donne degli anni settanta. La "presenza"  e il discorso della de Beauvoir  fecero presa non solo  presso le intellettuali-donne che più si interessarono ai suoi libri, ma anche presso la massa delle ignare che, pur non sapendo cogliere le specifiche  articolazioni di quel  discorso, seppero tuttavia  avvantaggiarsi di quell’esempio, traducendolo negli atti concreti della vita di tutti i giorni. 

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dal 1 settembre 2003

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Nel 1949 esce "Il secondo sesso" che fece, allo stesso tempo, successo e scandalo
Con veemenza da polemista di razza, de Beauvoir passa in rassegna i ruoli attribuiti dal pensiero maschile alla donna e i relativi attributi. In questo saggio l'autrice si esprime in un linguaggio nuovo, parla di controllo delle nascite e di aborto, sfida i cultori del bel sesso con 'le ovaie e la matrice'. Provocando il pubblico conservatore, de Beauvoir cerca riconoscimento personale e solidarietà collettiva, e li avrà. L'opera di respiro universale è diventata una tra le fondamentali del Novecento. 

La malattia e la morte della madre
Questo è ciò che registra la scrittrice, in un diario che copre un mese di realtà ospedaliera. 
Con l'avanzare del male, il mondo esterno perde sempre più consistenza, fino a scomparire. Rimane solo la camera d'ospedale in cui tre donne, la madre e le figlie, continuano a combattere una guerra che è impossibile vincere. In questo microcosmo che attende l'imminente catastrofe, Simon de Beauvoir descrive anche altri personaggi: medici, preoccupati di sperimentare sulla paziente la loro scienza; infermiere, impassibili nella sicurezza dei loro gesti professionali e le ombre della vita già trascorsa, delle occasioni perdute, di una borghese vicenda matrimoniale vissuta dalla madre come una grande avventura. 

JOSYANE SAVIGNEAU 
Le 23 Février 1990




[...] Simone de Beauvoir, «la più eminente femminista del ventesimo secolo», questa gran virtuosa dell’esistenzialismo, dall’aspetto marmoreo, il volto e lo sguardo astratto che ha sprazzi di pietra, amante e musa impegnata ad aiutare il filosofo a «preparare l’avvenire». [...]

 «Le femministe l’hanno scelta come vacca sacra - nota acida Antoinette Fouque fondatrice dello storico MLF - ma se “essere donna vuol dire essere un uomo come un altro” come pretendeva lei, allora non siamo femministe! La Beauvoir è il pensiero liberal-libertino, logico che oggi sia di moda».

E significativo che i più succosi sottintesi, le accuse più impegnative arrivino dall’estero, come se la Francia avesse pudore a incrinare il mito del periodo in cui la sublime coppia dominava e fulminava dai tavolini del café Flore e Parigi era, forse per l’ultima volta, capitale del mondo. 

[...] Simone de Beauvoir non si distinse certo nel resistere, non vi patì certo i sudori del Getsemani: anzi, trascorre quegli anni ingrati tra il café de Flore a comporre il suo primo romanzo “L’invitée”, le vacanze sciistiche a Morgine e «fiestas» molto alcoliche. 

[...] 
A spalancare poi il tema della complicata relazione sentimentale con Sartre è il libro Tête-à-tête dell’americana Hazel Rowley. Non da certo scandalo il patto amoroso tra i due, che prevedeva una coproduzione dei piaceri, con «un amore necessario» e culturalmente proficuo, il loro, e «gli amori contingenti» che spesso furono comuni e per lei annoverarono Arthur Koestler e Nelson Algren

Si presta semmai nuova attenzione alla sorte di questi amanti «contingenti» considerati come semplici tasselli della costruzione di un destino letterario e filosofico.
La studiosa americana ne svela il triste ruolo di marionette, manipolate dalla Beauvoir, utilizzate per mantenere desto il rapporto con Sartre, l’unico che contasse davvero. Alcuni, tra i più ferocemente «contingenti», precipitarono in buie depressioni. Lei scrisse, implacabile: «C‘è un problema che noi abbiamo sempre accuratamente evitato: come la terza persona si sarebbe sistemata nei nostri accordi..
Domenico Quirico per “La Stampa”

http://lafrusta.homestead.com/pro_beauvoir.html




Simone de Beauvoir.
Inizia a insegnare nel 1930, prima a Marsiglia, poi a Rouen, infine a Parigi, dove chiuderà la propria carriera di docente nel 1943, licenziata ed interdetta a vita dall'insegnamento per corruzione di minore, per una relazione lesbica con una delle sue studentesse.[5][6] La relazione risaliva al 1939, quando la de Beauvoir aveva circa 30 anni e l'amante, Nathalie Sorokin, 17 anni. I genitori della Sorokin denunciarono la scrittrice, che non subì processi penali in quanto l'età del consenso in Francia era (ed è) di quindici anni, ma in quanto insegnante subì un procedimento disciplinare che si concluse con l'espulsione dalla scuola e l'inibizione dall'attività.[7] Nel 1977 sottoscriverà assieme a Sartre, Michel Foucault, Jacques Derrida e Roland Barthes, una petizione indirizzata al Parlamento, chiedendo l'abrogazione di numerosi articoli di legge e la depenalizzazione di qualsiasi rapporto consenziente tra adulti e minori di quindici anni (la cosiddetta Pétitions françaises contre la majorité sexuelle).


Nel 1947 si reca negli Stati Uniti per una serie di conferenze e incontra lo scrittore Nelson Algren, con cui stabilisce un intenso rapporto d'amore. 

Compie altri viaggi significativi (Brasile, Cuba, Cina, Unione Sovietica) e ritorna molto spesso in Italia con Sartre. 

Dopo Il secondo sesso (1949), ormai famosa in tutto il mondo, Simone de Beauvoir, per le particolari posizioni assunte come scrittrice e come donna, è oggetto di grande ammirazione ma anche di aspre polemiche. Allo scoppio della guerra di liberazione algerina, prende posizione a favore di questa lotta, cosa che renderà il suo isolamento ancora più pesante.

Simone de Beauvoir è considerata la madre del movimento femminista, nato in occasione della contestazione studentesca del maggio 1968, che seguirà con partecipazione e simpatia.

Gli anni settanta la vedono fervidamente in prima linea in varie cause: la dissidenza sovietica, il conflitto arabo-israeliano, l'aborto, il Cile, la donna (è presidentessa dell'associazione Choisir e della Lega dei diritti della donna).

Nell'ultimo periodo della sua vita, Simone de Beauvoir affronta con coraggio un altro problema sociale, quello della vecchiaia, cui dedica un importante saggio, La terza età (1970).

Nel 1981, in seguito alla morte di Sartre, scrisse La cerimonia degli addii (La Cérémonie des adieux), cronaca degli ultimi anni del celebre pensatore.

Lei stessa si descrisse così:
« Di me sono state create due immagini. Sono una pazza, una mezza pazza, un'eccentrica. [...] Ho abitudini dissolute; una comunista raccontava, nel '45, che a Rouen da giovane mi aveva vista ballare nuda su delle botti; ho praticato con assiduità tutti i vizi, la mia vita è un continuo carnevale, ecc.
Con i tacchi bassi, i capelli tirati, somiglio ad una patronessa, ad un'istitutrice (nel senso peggiorativo che la destra dà a questa parola), ad un caposquadra dei boy-scout. Passo la mia esistenza fra i libri o a tavolino, tutto cervello. [...] Nulla impedisce di conciliare i due ritratti. [...] L'essenziale è presentarmi come un'anormale. [...]
Il fatto è che sono una scrittrice: una donna scrittrice non è una donna di casa che scrive, ma qualcuno la cui intera esistenza è condizionata dallo scrivere. È una vita che ne vale un'altra: che ha i suoi motivi, il suo ordine, i suoi fini che si possono giudicare stravaganti solo se di essa non si capisce niente. »
(S. de Beauvoir, La forza delle cose, pag. 614)


Una vita in due [ wikitesto]
Simone de Beauvoir morì il 14 aprile 1986 e venne seppellita nel cimitero di Montparnasse di Parigi accanto al suo compagno di vita Jean-Paul Sartre, morto sei anni prima, il 15 aprile 1980. Radicalmente atea come Sartre, ne La Cérémonie des Adieux aveva scritto a riguardo della morte di colui col quale aveva condiviso gran parte della sua esistenza e delle sue idee: 

«La sua morte ci separa. La mia morte non ci riunirà. È così; è già bello che le nostre vite abbiano potuto essere in sintonia così a lungo».[8] Molti studiosi si sono interrogati circa il tipo di amore che legasse Jean-Paul a Simone e molte sono state le risposte. Ciò che emerge è soprattutto una grande e reciproca stima intellettuale. Durante il loro lungo sodalizio entrambi hanno comunque avuto costanti rapporti "extraconiugali" in base a un comune accordo, talvolta anche condividendo la stessa amante.[6]

L'invitata (1943) è il primo romanzo pubblicato da Simone de Beauvoir, quello che la rivelò come scrittrice. Vi è affrontato con coraggio un tema difficile: l'inserimento nell'ambito di una coppia di un terzo personaggio, che ne muta l'intero equilibrio, costringendo ognuno a svelarsi sotto lo sguardo dell'Altro

La tematica della responsabilità ritorna nel suo secondo romanzo, Il sangue degli altri (1945): durante la seconda guerra mondiale, nella Francia occupata, coloro che si erano accostati alla Resistenza si erano trovati di fronte a una duplice assunzione di responsabilità: quella di lottare contro l'oppressione nazista e quella di spingere gli altri (spesso le persone più care) a rischiare la vita. Di fronte allo strazio di queste morti, Simone de Beauvoir riafferma che non c'era altra via possibile, e che ognuno è sempre responsabile in prima persona delle proprie scelte, della propria libertà.

Dopo il suo viaggio negli Stati Uniti, pubblica Il secondo sesso (1949), un saggio fondamentale che da un lato fa il punto sulle conoscenze biologiche, psicoanalitiche, storiche, antropologiche esistenti sulla donna, e dall'altro apre la strada a quella discussione radicale sulla condizione femminile che avrebbe caratterizzato i decenni successivi. [...]

Il pensiero di Simone de Beauvoir si forma in comunione con quello di Sartre e con il suo esistenzialismo: i due scrittori sono soliti discutere le loro idee così come i loro scritti, e tengono in massima considerazione la reciproca critica. 

Le opere della scrittrice sono densamente intessute di considerazioni filosofiche ed esistenzialiste comunque personali, rivolte in modo particolare ad approfondire il tema del ruolo e della condizione della donna nella società moderna.

https://it.wikipedia.org/wiki/Simone_de_Beauvoir


L'invitata (L'Invitée).
L'invitata (L'Invitée) è un romanzo di Simone de Beauvoir del 1943. 
Il romanzo è una narrazione fittizia della relazione della scrittrice e del compagno Jean-Paul Sartre con Olga e Wanda Kosakiewicz.
Ambientato a Parigi alla vigilia e durante la seconda guerra mondiale, il romanzo ruota attorno a Françoise, la cui relazione aperta col compagno Pierre diventa tesa quando formano un ménage à trois con l'amica più giovane Xaviere. Il romanzo esplora diversi concetti dell'esistenzialismo come libertà, rabbia e l'altro.


Una donna spezzata.
Una donna spezzata è una raccolta di racconti del 1967 di Simone de Beauvoir.
Dal primo racconto omonimamente intitolato la RAI ha tratto uno sceneggiato, trasmesso nel 1989.

Trama
Il libro è diviso in tre parti, tre racconti aventi ognuno per protagonista una donna: 
una casalinga, una celebre studiosa di letteratura francese, una madre abbandonata
Ognuna arrivata ad un punto di crisi e di svolta della propria vita.

Nel primo racconto, Una donna spezzata, la casalinga Monique scopre che il marito ha un'altra relazione. Nonostante ciò faccia vacillare tutto ciò in cui aveva creduto fino ad alst'infatuazione possa avere un seguito. Tra alti e bassi però il legame del marito con la rivale sembra rafforzarsi e ogni sua azione sembra peggiorare la situazione. Sola, demotivata e invecchiata, arriverà a doversi reinventare un futuro di cui ignora gli sviluppi.

Nel secondo racconto, L'Età della discrezione, una scrittrice di sinistra vive col marito ormai in terza età una tranquilla esistenza, finché si scontra con l'amato figlio che sembra tradire i valori con cui era stato educato. La sua intransigenza, l'insuccesso del suo ultimo libro e l'età ormai avanzata la mettono in crisi, facendo cadere le certezze fino ad allora così radicate.

Il terzo racconto, Monologo, è il monologo di una donna insoddisfatta della propria vita: infastidita dal chiasso durante la notte di Capodanno, inizia a confidare le sue insoddisfazioni e amarezze: si scopre gradualmente che sua figlia si è suicidata, che le è stata tolta la custodia del figlio, che i suoi "ex" si rifiutano di ascoltarla e che il rapporto con la madre è oramai inesistente.




Il secondo sesso
Titolo originale: Le Deuxième Sexe
Le deuxième sexe.jpg
Autore Simone de Beauvoir
1ª ed. originale 1949
Genere saggio
Lingua originale francese
« La donna? è semplicissimo - dice chi ama le formule semplici: è una matrice, un'ovaia; è una femmina: ciò basta a definirla. In bocca all'uomo, la parola "femmina" suona come un insulto; eppure l'uomo non si vergogna della propria animalità, anzi è orgoglioso se si dice di lui: "È un maschio![1] »

Il secondo sesso (Le Deuxième Sexe) è un saggio della scrittrice francese Simone de Beauvoir pubblicato a Parigi nel 1949 (Gallimard editore) e in Italia, dalla casa editrice il Saggiatore, nel 1961. È una delle opere più celebri e più importanti per il movimento femminista e, ai giorni nostri, è spesso citata come riferimento nei discorsi femministi.

Il saggio, che è impostato con il linguaggio e la tecnica della filosofia esistenzialista, suscitò molto interesse in Francia come in Italia per il rigore con il quale l'autrice riuscì a costruire il discorso sul suo stesso sesso.

Per quanto riguarda l'accoglienza della critica verso quest'opera, si può fare riferimento a Il Secondo Sesso di Simone de Beauvoir, testi raccolti e presentati da Ingrid Galster (Presses de l'Université Paris-Sorbonne, 2004), dove sono presentati, fra l'altro, gli articoli contraddittori di Armand Hoog e Francine Bloch apparsi su La Nef.

Contenuti.
Il libro, che si apre con un capitolo di introduzione e uno di conclusione, è diviso in tre parti: Destino, Storia, Miti.

La donna viene vista dall'autrice attraverso i dati della biologia, il punto di vista psicanalitico e quello del materialismo storico.

Dapprima ella è analizzata dall'esterno e in particolare dall'uomo e ne viene messa in rilievo la condizione subordinata che le è stata attribuita e in seguito viene studiata in ogni fase della sua vita, dall'infanzia all'iniziazione sessuale, dalla maturità alla vecchiaia.

Ne vengono descritti i comportamenti e le varie situazioni, come sposa, madre, prostituta, lesbica, narcisista, innamorata, mistica.

Simone de Beauvoir parla di tutte le circostanze che portano a credere all'inferiorità delle donne e degli effetti che questo ha sulla loro scelta di sposarsi e di abbandonare la propria carriera.

Inoltre, spiega che, in un mondo in cui i due sessi fossero uguali, entrambi sarebbero più liberi: infatti se l'uomo desse alla donna la possibilità di avere una carriera significativa, lei si focalizzerebbe meno su di lui e potrebbe essere più indipendente.

L'autrice interroga poi gli studiosi più credibili senza distinzione di sesso, dai medici agli psicologi, dai romanzieri agli scrittori e al tempo stesso invita le donne a raccontare le loro esperienze sia d'amore sia di altro. Beauvoir sostiene che è necessario che la donna venga integrata nella società con gli stessi diritti e doveri dell'uomo e pertanto con tutte le conquiste che ne derivano, dalla uguaglianza del salario, alla possibilità del controllo delle nascite. all'aborto in termini legali e a tutti quei riconoscimenti civili, politici e giuridici che possiedono gli uomini.

https://it.wikipedia.org/wiki/Il_secondo_sesso




mercoledì 3 maggio 2017

Tolleranza è un termine relativo alla capacità di sopportare, senza esserne danneggiati, qualcosa che di per sé potrebbe essere spiacevole o dannosa

« Disapprovo quello che dite, ma difenderò fino alla morte il vostro diritto di dirlo.[1] »

Tolleranza è un termine relativo alla capacità di sopportare, senza esserne danneggiati, qualcosa che di per sé potrebbe essere spiacevole o dannosa[2].

In senso sociologico la tolleranza si manifesta in chi, teoricamente e praticamente, mostra rispetto nei confronti di coloro che pensano e agiscono credendo in diversi principi relativi alla religione, alla politica, all'etica, alla scienza, all'arte e alla letteratura.[3]

La tolleranza non può essere definita in senso positivo come una virtù poiché riguarda una negatività che viene sopportata per una serie di motivi che escludono un'accettazione piena e senza condizioni di ciò che viene tollerato:
« La tolleranza illimitata porta alla scomparsa della tolleranza. Se estendiamo l'illimitata tolleranza anche a coloro che sono intolleranti, se non siamo disposti a difendere una società tollerante contro gli attacchi degli intolleranti, allora i tolleranti saranno distrutti e la tolleranza con essi.[4] »

Tuttavia la tolleranza esprime una funzione positiva nel senso che fa apparire una diversità di opinioni che dal confronto dialettico possono procurare una più ampia verità.

Voltaire, l'autore del Trattato sulla tolleranza (1763)
Indice  [nascondi] 
1 Origini del principio di tolleranza
2 La storia e la teorizzazione del principio di tolleranza
3 Il paradosso della tolleranza [15]


Origini del principio di tolleranza.
Nelle religioni politeistiche antiche non esisteva il principio di tolleranza poiché la moltitudine degli dei escludeva che vi fossero divinità vere e uniche ed era quindi naturale praticare la libertà religiosa ma, poiché la religione era intesa spesso come fattore di unificazione sociale, veniva condannata l'empietà intesa come attentato all'ordine sociale come accadde per Socrate accusato di non credere agli dei tradizionali della città e quindi condannato per "ateismo".[5] 

La tolleranza venne affermata con forza dallo stoicismo che la fondò sul cosmopolitismo e su un "diritto naturale" appartenente a tutte le genti: Seneca riprese questi principi che, tramite una presunta sua corrispondenza con Paolo di Tarso, passarono al cristianesimo [6]


Nel Medioevo Tommaso d'Aquino sosteneva che si potevano tollerare le differenze di culto fra cristiani, ebrei e musulmani, rifacendosi alla dottrina di Agostino d'Ippona che dichiarava che la fede è opera della Grazia divina e non può quindi essere imposta dagli uomini.[7]. Il Medio Evo, del resto, tendeva a valorizzare le differenze, come si vede anche dalla lettera che Stefano d'Ungheria (santo per la Chiesa cattolica) scrive al figlio, in cui gli dice: "Un regno che abbia una sola lingua e una sola consuetudine di condotta è infermo e fragile"[8].

Nel XIII secolo, in Spagna risalta la figura del re Ferdinando III di Castiglia, detto il Santo, noto come il re delle tre religioni, per la convivenza tra cristiani, ebrei e musulmani, durante il suo regno.
Dante Alighieri si dibatté sul problema della salvezza dei pagani tra l'affermazione che extra Ecclesia nulla salus e l'apologo, ripreso anche da Giovanni Boccaccio, della "fiaba delle tre anella",[9]. che si rifaceva a quel principio di tolleranza che sarà poi teorizzato dall'Illuminismo che prenderà a modello esemplare «...la figura storica e nello sviluppo leggendario di Yussuf ibn Ayyub Salah al-Din (Saladino), il principe curdo divenuto sultano di Siria e d'Egitto nell'ultimo quarto del 12° sec. e nella letteratura occidentale del Duecento passato, dall'iniziale ruolo di crudele «nemico della croce» (è a lui che si deve la cacciata dei crociati da Gerusalemme, nel 1187) a quello di specchio e modello delle virtù cavalleresche...[espresse nella "cortesia" occidentale]». Il Saladino viene mostrato infatti come l'«eroe della tolleranza nel dramma di G.E. Lessing "Nathan der Weise", scritto nel 1779, in cui si riprende appunto la narrazione delle "tre anella".»[10]

Si cominciò a dibattere sulla tolleranza nel XVI secolo in quegli Stati, come Francia, Inghilterra e Boemia, dove si verificarono cambiamenti religiosi dovuti anche all'indebolirsi di quel fattore unificatore che era stato il potere imperiale in difficoltà ora nel reprimere la diffusione di confessioni religiose, come ad esempio la Riforma, diverse dal cattolicesimo.

La tolleranza dunque nasce nell'ambito religioso come la posizione di coloro che sostengono sia meglio astenersi dal perseguitare le nuove idee religiose che, se represse, potrebbero generare problemi maggiori. È meglio scegliere di tollerare, considerato come il minore dei mali come già in passato aveva sostenuto Marsilio da Padova (1275-1343) che negava ogni validità a un'imposizione con la forza della fede religiosa poiché della legge divina unico giudice è Dio e riconosceva nel suo Defensor pacis che anche nelle diverse religioni possano sussistere principi validi moralmente.
Sulle posizioni di Marsilio sembra essere Martin Lutero (1483-1546) che si oppone a che gli eretici siano condannati al rogo poiché la violenza non può essere strumento di fede. Una concezione questa però negata dallo stesso riformatore che in occasione della guerra dei contadini (1525), scatenata dal predicatore Thomas Müntzer, auspica per i rivoltosi la pena di morte per mano del potere politico concepito come espressione della volontà di Dio nella repressione del male:
« Essi hanno provocato ribellione, hanno rapinato e saccheggiato con grande scelleratezza conventi e castelli che non appartenevano loro, meritandosi così senza alcun dubbio la morte del corpo e dell'anima, perché banditi di strada e assassini.[11] »

Miguel Serveto

Calvino (1509-1564) cadrà nella stessa contraddizione quando si scaglierà contro le posizioni intransigenti della Chiesa cattolica ma poi egli stesso nel 1553 condannò e fece bruciare Michele Serveto, medico spagnolo sostenitore dell'antitrinitarismo che si era rifugiato a Ginevra per scampare all'Inquisizione cattolica.

A Calvino che giustificava la sua intransigenza nel suo testo Defensio orthodoxae fidei affermando che non si poteva essere tolleranti nei confronti di chi bestemmiava Dio, il savoiardo Sébastien Castellion (1515-1563) dopo aver difeso la libertà e la tolleranza religiosa nell'opera "De hereticis an sint persequendi" (Se gli eretici debbano essere perseguitati), scriveva nell'opuscolo Contro il libello di Calvino a proposito della condanna al rogo di Serveto:
« Uccidere un uomo non è difendere una dottrina, è uccidere un uomo. Quando i ginevrini hanno ucciso Serveto non hanno difeso una dottrina, hanno ucciso un uomo. Non spetta al magistrato difendere una dottrina. Che ha in comune la spada con la dottrina? Se Serveto avesse voluto uccidere Calvino, il magistrato avrebbe fatto bene a difendere Calvino. Ma poiché Serveto aveva combattuto con scritti e con ragioni, con ragioni e con scritti bisognava refutarlo. Non si dimostra la propria fede bruciando un uomo, ma facendosi bruciare per essa[12] »

La storia e la teorizzazione del principio di tolleranza.
« Si sbaglierebbe se si cercasse di definire l'idea di tolleranza alla luce esclusiva della ragione: anzi, essa è [...] sostanziata di elementi desunti dall'esperienza, secondo un connotato tipico del pensiero scientifico occidentale moderno che non si appaga di definizioni teoriche ma ne esige la verifica di «laboratorio». E il «laboratorio» nel quale andò maturando [...] fu [quello] dei campi di battaglia e delle stragi, della barbarie, della desolazione del «secolo di ferro» aperto con la Riforma luterana e conclusosi con le paci del 1648-59, alla fine della guerra dei Trent'anni. Fu non tanto dalla comoda e serena prospettiva delle biblioteche in cui lavoravano e discutevano i dotti, ma dalla carne e dal sangue di un'Europa dilaniata ed esausta che scaturì con prepotenza l'ideale della tolleranza[10] »

Le devastazioni delle guerre di religione fecero maturare la mutua inter christianos tolerantia[13] attraverso una serie di tregue che non portarono alla reciproca tolleranza ma che facevano sperare in una definitiva pace religiosa.

La Pace di Augusta (1555) trasferiva dall'imperatore ai principi il diritto di riconoscere la confessione religiosa dei loro sudditi; ai dissidenti rimaneva solo la possibilità di emigrare là dove la loro religione era tollerata.

L'Editto di Nantes del 1598 garantiva ai nobili calvinisti il rispetto delle loro libertà ma l'esigenza dell'unità religiosa farà abbattere da Richelieu ogni presidio militare a garanzia della tolleranza pur mantenendo i diritti religiosi e civili degli ugonotti. L'editto sarà poi definitivamente abrogato da Luigi XIV di Francia (1685) in nome del principio monarchico-assolutistico.

Nel principato di Transilvania la Dieta di Turda (1568) assicurò ampia tolleranza alle diverse confessioni religiose e altrettanto avvenne in Polonia con la dieta di Varsavia (1573).

Sul finire del secolo mentre i gesuiti diventavano protagonisti di una restaurazione religiosa nell'Europa centro-orientale[14] Jean Bodin (1530-1596) avanzava la tesi che sosteneva che era dovere dello Stato rimanere estraneo ai conflitti religiosi e proponeva la tolleranza verso i riformati in cambio dell'obbedienza civile.

Baruch Spinoza nel suo Tractatus teologico-politicus nel 1670 faceva discendere il principio di tolleranza dalla libertà di pensiero e il potere dello Stato, che non poteva reprimere la coscienza interiore degli uomini, andava limitato alle cose e azioni esterne.

Nel 1689 John Locke, nella Epistola sulla tolleranza affermava che le credenze religiose non erano dipendenti dalla volontà degli individui e quindi non potevano essere imposte dalla legge civile che non può intervenire nei confronti di quelle società private che sono le singole Chiese nelle quali liberamente si entra e si esce a seconda della propria volontà. Le Chiese, prive di ogni potere politico divenivano quindi strumento di concordia civile tranne il cattolicesimo, che andava vietato poiché obbediva a un'autorità, quella papale, esterna a quella dello Stato.

Nel '700 illuminista il principio di tolleranza troverà una conclusiva definizione nel Traité sur la tolérance (1763) di Voltaire e la sua pratica attuazione nella Costituzione degli Stati Uniti d'America (1791) a cui seguiranno la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino il 26 agosto (1789), il Protocollo finale del Congresso di Vienna (1815); con il primo riferimento anche alla difesa delle minoranze etniche), il Trattato di Berlino del 1878, i Quattordici punti di Thomas Woodrow Wilson (1918), il Patto della Società delle Nazioni (1920), lo Statuto delle Nazioni Unite (1945), Dichiarazione islamica dei diritti dell'uomo (1981), Carta di Algeri: Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli (1976) ed altre solenni dichiarazioni.

Il paradosso della tolleranza.
Si può ancora sostenere la tolleranza quando degli atti terroristici causano centinaia di morti? Possiamo concedere la libertà a persone che non sono disposte a condividere i nostri valori fondamentali? Tollerare vuol dire anche porre dei limiti.

I numerosi attentati terroristici di matrice islamica che hanno colpito mezza Europa (Parigi, Bruxelles, Nizza, Berlino, ecc.) hanno creato un clima di paura, insicurezza, diffidenza in tutta la popolazione. Questo è comprensibile. Gli assassini di domani vivono in mezzo a noi. Gli assassini di oggi prima di passare all’azione hanno vissuto per anni nelle nostre città senza farsi notare. Noi non sappiamo se il prossimo attentato non viene programmato proprio da un nostro vicino, o se il prossimo massacro non coinvolgerà pure noi. Gli attentatori colpiscono la nostra società nel suo punto più debole; la loro violenza è rivolta contro quello che per l’occidente è di centrale importanza: la libertà, la democrazia, l’uguaglianza dei diritti, la tolleranza. Il trionfo dei terroristi sarebbe riuscire a screditare questi valori. La loro vittoria ci sarebbe quando noi, per combattere loro, tradissimo proprio questi valori fondamentali. In effetti noi dobbiamo difendere il nostro ordine sociale ma non dobbiamo rinunciare alle conquiste che hanno portato alla nostra società liberale. Questo dilemma ci porta inevitabilmente al concetto di tolleranza.
La tolleranza attualmente è sotto pressione. Le istanze per una “fine della sopportazione” diventano sempre più insistenti; e non sono del tutto infondate. Ma si può essere tolleranti verso persone che non sono disposte a fare un passo indietro relativamente a questioni che la loro cultura e convinzioni religiose considerano colpevoli? Si può chiedere tolleranza quando delle persone in nome di Allah si dichiarano apertamente nemiche della democrazia e nel contempo rivendicano diritto a libertà che esse stesse poi negano ad altri? Naturalmente non ognuno che abbia un concetto diverso dei valori che regolano la società può essere considerato un nemico. Gli attentati subiti in Europa non potrebbero forse anche essere la conseguenza di un atteggiamento troppo morbido nei confronti di persone che usano in modo indebito le aperture della nostra società? Cosa può tollerare una società che si considera “aperta”?
I problemi si incontrano e si misurano nella vita di tutti i giorni. Dobbiamo vietare il velo integrale? Possiamo permettere la creazione di società religiose parallele? Deve intervenire lo Stato nei confronti di un disegnatore quando questi pubblica caricature anti-islamiche? Come dobbiamo comportarci nei confronti di genitori che vietano alle loro figlie di stringere la mano all’insegnante o di partecipare a corsi di nuoto o di ginnastica? “Non possiamo vietare tutto quello che noi rifiutiamo” ha affermato il ministro degli interni tedesco De Maizière; ed ha perfettamente ragione. Come cittadini di una società aperta dobbiamo accettare che altre persone facciano o dicano cose che ci disturbano. E che qualcosa corrisponda alle nostre convinzioni o alle aspettative della maggioranza della popolazione, questo non può né deve essere determinante perché essa venga tollerata o meno. Dobbiamo anche accettare il fatto che qualche volta i nostri sentimenti vengano feriti, e che lo Stato non intervenga per difenderli (per esempio nella satira di critica religiosa). Questa è la conseguenza di una cultura che garantisce la libertà di opinione e di parola, anche lì dove essa può far male. Ma dove passa la linea di demarcazione? Del tutto netta essa non è, eccetto quando vengono violate delle leggi.
Determinante è che la tolleranza funziona solo lì dove essa è reciproca. Però essa non consiste semplicemente nel lasciar fare. La società difende le libertà di ogni cittadino, ma pretende anche che ciascuno di essi le riconosca in egual modo agli altri. E questo indipendentemente dal fatto se gli vada a genio o meno quello che fa il suo vicino. Io posso tollerare solo quello che rifiuto ma che sono disposto a sopportare. Tolleranza non vuol dire che io abbia un atteggiamento positivo o anche indifferente verso un fenomeno o una persona: io posso anche combattere quello che tollero. Ma nonostante questo posso protestare quando questo venisse vietato.
Tollerare significa sopportare, e precisamente qualcosa che va contro le proprie convinzioni. Questo è possibile solo in una società che ammette il confronto fra diverse posizioni ed opinioni. La tolleranza necessita di un contrasto, di un dibattito fecondo. Chi non è disposto a tollerare che le sue convinzioni vengano messe in discussione non ha diritto a rivendicare alcuna tolleranza. A questo ha fatto riferimento Karl Popper quando, dopo l’esperienza del fascismo, rammentò l’inevitabile paradosso della tolleranza nella società: che non appena vengono tollerate persone intolleranti, o presto o tardi i tolleranti finiscono. Tolleranza senza limiti porta alla scomparsa della tolleranza. Perché l’intolleranza, per sua natura, tende a sopraffare la tolleranza e ad eliminarla.
La tolleranza non è una ricetta sicura per la pace sociale. Essa è altra cosa che il rispetto. Goethe nelle sue “Massime e riflessioni” scrisse che “La tolleranza, in vero, dovrebbe essere soltanto un modo transitorio. Essa deve portare all’accettazione. Sopportare vuol dire offendere”. Non è neppure un guanciale su cui poter riposare, ma richiede continua vigilanza, da entrambe le parti. La vera tolleranza non scaturisce da una società esitante e insicura, né dalla speranza in un mondo sano, ma da una obiettiva valutazione della realtà. Essa può portare al riconoscimento o al divieto di un gruppo politico o religioso. Chi auspica la fine della tolleranza è in errore. Con i tempi che corrono dobbiamo usare maggiormente la tolleranza che la sopportazione. Essa ci richiede che garantiamo e ci impegniamo per le nostre convinzioni e imponiamo le regole della convivenza. Una tolleranza male intesa è quella che crede che dobbiamo accettare tutto semplicemente perché è altro e straniero. Possiamo essere tolleranti solo fin dove siamo disposti a difendere le nostre posizioni. E sopportare vuol dire anche porre dei limiti.

Note
1^ Questa frase, spesso attribuita a Voltaire, in realtà è opera di Evelyn Beatrice Hall autrice britannica, sotto lo pseudonimo di "S. G. Tallentyre", di una biografia del filosofo intitolata The Friends of Voltaire.
2^ Dizionario Treccani alla voce corrispondente
3^ Ove non indicato diversamente, le informazioni contenute nella voce hanno come fonte Nunzio Angiolilli, Dall'intolleranza religiosa alla tolleranza
4^ Karl Popper, La società aperta e i suoi nemici, a cura di Dario Antiseri, traduzione di Renato Pavetto, Armando Editore, Roma, 1974
5^ A. Pincherle, "Intolleranza", Enciclopedia Italiana Treccani (1933)
6^ Franco Cardini, Intolleranza/tolleranza, Dizionario di storia Treccani (2011)
7^ Margherita Zizi, Tolleranza, Enciclopedia Italiana Treccani (2006)
8^ Stefano d'Ungheria, Esortazioni al figlio. Leggi e decreti, Città Nuova, Roma 2001, pag. 61.


https://it.wikipedia.org/wiki/Tolleranza