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martedì 30 agosto 2016

Ito Ogawa. Ci sono cose che non possono assolutamente tornare. Ma che al tempo stesso, pur non potendo tornare, restano eternamente presenti. E ci sono poi moltissime cose, dormienti da qualche parte in questo mondo, che basta cercarle pazientemente per trovarle.

«Ci sono cose che non possono assolutamente tornare. Ma che al tempo stesso, pur non potendo tornare, restano eternamente presenti. E ci sono poi moltissime cose, dormienti da qualche parte in questo mondo, che basta cercarle pazientemente per trovarle.»
Ito Ogawa, Il ristorante dell’amore ritrovato, traduzione di Gianluca Coci, Neri Pozza Editore, 2010.

lunedì 29 agosto 2016

Edward Banfield, Le basi morali di una società arretrata.

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Il familismo amorale (dall'inglese amoral familism) è un concetto sociologico introdotto da Edward C. Banfield nel suo libro The Moral Basis of a Backward Society del 1958 (trad. it.: Le basi morali di una società arretrata, 1976), scritto in collaborazione con la moglie Laura Fasano. 


Le tesi di Banfield sono state e sono oggetto di controversia e hanno stimolato un notevole dibattito sulla natura del familismo e sul ruolo della cultura nello sviluppo o nell'arretramento sociale ed economico.

Chiaromonte (alias Montegrano), centro degli studi sul campo che portarono Banfield a enucleare il paradigma del familismo amorale.

La realtà di Montegrano venne analizzata da Banfield durante nove mesi di permanenza sul campo nel biennio 1954/1955, utilizzando strumenti metodologici diversi: osservazione diretta, interviste e test psicologici a campioni rappresentativi della popolazione, dati provenienti da archivi pubblici e privati[5]. Alcuni dei dati raccolti furono poi comparati con quelli provenienti da studi condotti su altre comunità rurali sia della provincia di Rovigo che del Kansas.

Il paradigma del familismo amorale nacque dallo sforzo di Banfield di capire perché alcune comunità siano socialmente ed economicamente arretrate.


Partendo dalla convinzione di Tocqueville che nei paesi democratici la scienza dell'associarsi sia madre di tutti gli altri progressi, e attraverso lo studio di Montegrano, l'autore arrivò a ipotizzare che certe comunità sarebbero arretrate soprattutto per ragioni culturali. La loro cultura presenterebbe una concezione estremizzata dei legami familiari che va a danno della capacità di associarsi e dell'interesse collettivo. Gli individui sembrerebbero agire come a seguire la regola:

"massimizzare unicamente i vantaggi materiali di breve termine della propria famiglia nucleare, supponendo che tutti gli altri si comportino allo stesso modo".[8]

Sarebbe dunque questa particolare etica dei rapporti familiari la causa dell'arretratezza.[9]

L'autore la denominò familismo amorale. 
Familismo perché l'individuo perseguirebbe solo l'interesse della propria famiglia nucleare, e mai quello della comunità che richiede cooperazione tra non consanguinei. A-morale perché seguendo la regola si applicano le categorie di bene e di male solo tra familiari, e non verso gli altri individui della comunità[8].

L'amoralità non sarebbe quindi relativa ai comportamenti interni alla famiglia, ma all'assenza di ethos comunitario, all'assenza di relazioni sociali morali tra famiglie e tra individui all'esterno della famiglia.


https://it.wikipedia.org/wiki/Familismo_amorale



Edward Banfield 
Le basi morali di una società arretrata

Le tesi elaborate in questo libro ormai classico non hanno mai smesso di suscitare un'eco estesa ben oltre il mondo degli studiosi. L'espressione "familismo amorale", coniata da Banfield per spiegare l'arretratezza, o meglio la mancanza di reazione all'arretratezza, di Montegrano (dietro cui si nasconde Chiaromonte, in Basilicata, alla metà degli anni '50), è diventata di uso corrente per etichettare una molteplicità di fenomeni, ma soprattutto per individuare un presunto "difetto" fondamentale della società italiana. Avverso allo spirito di comunità, disposto a cooperare solo in vista di un proprio tornaconto, il familista amorale si comporta secondo la seguente "regola aurea": massimizzare i vantaggi materiali e immediati della famiglia nucleare, nel presupposto che tutti gli altri agiscano allo stesso modo. Una interpretazione discussa ma di indubbia efficacia nell'indicare i guasti provocati dalla cronica carenza di senso civico.

Edward C. Banfield (1916-1999), consigliere di diversi presidenti americani, ha insegnato nelle Università di Chicago e Harvard. Tra le sue opere ricordiamo "Political Influence" (1961) e "The Unheavenly City Revisited" (1974).

https://www.mulino.it/isbn/9788815134165



Il particulare italiano da Guicciardini a Banfield 
Tra l’auto- e l’etero-riconoscimento Pierluca Birindelli In 1958 [...]

Ahi serva Italia, di dolore ostello, 
nave sanza nocchiere in gran tempesta, 
non donna di province, ma bordello! 
Dante Alighieri


L’Italia è ancora come la lasciai, ancora polvere sulle strade, / 
ancora truffe al forestiero, si presenti come vuole. / 
Onestà tedesca ovunque cercherai invano, / 
c’è vita e animazione qui, ma non ordine e disciplina;/ 
ognuno pensa per sé, è vano, dell’altro diffida, / 
e i capi dello stato, pure loro, pensano solo per sé 
Johann Wolfgang von Goethe. 

L’Italia va avanti perché ci sono i fessi. 
I fessi lavorano, pagano, crepano. 
Chi fa la figura di mandare avanti l’Italia sono i furbi, 
che non fanno nulla, spendono e se la godono 
Giuseppe Prezzolini


L’Italia conta oltre 50 milioni di attori. 
I peggiori stanno sul palcoscenico 
Orson Welles 


[...] Nel 1768 Giuseppe Baretti scrive An Account of the Manners and Customs of Italy; with Observations on the Mistakes of Some Travelers, with Regard to that Country: è la risposta seccata2 alla descrizione di terribile arretratezza delle condizioni economiche, morali e civili dell’Italia (soprattutto meridionale) date dal chirurgo Samuel Sharp, in Letters from Italy (1767)
L’incipit completo afferma: 

1 L’apertura alla letteratura e alla narrativa è indispensabile per comprendere l’immaginario collettivo degli italiani: opere come la Divina Commedia, I promessi sposi, e Pinocchio, per limitarsi agli esempi più significativi, sono essenziali per la comprensione dei tratti connotativi profondi della società e cultura italiana, e non soltanto. 

2 Probabilmente, molti critici di Banfield sottoscriverebbero questo passaggio del Baretti (dalla traduzione Dei modi e costumi d’Italia): 
«Pochi libri sono così ben accetti alla maggior parte dell’umanità come quelli che abbondano di calunnie e invettive. […] Gli uomini s’invaghiscono di ciò che è meraviglioso nei modi e nei costumi come negli eventi; e uno scrittore di viaggi che aspiri alla celebrità nel proprio paese è generalmente quanto basta per portare in patria da oltre i confini di quei materiali in abbondanza per gratificare in un sol colpo la malignità e l’amore della novità predominanti in tanti dei suoi lettori .[…] Così si spaccia agli sprovveduti il falso per il vero, e così si mantengono gli uomini in quella ristrettezza di pensiero e in quei pregiudizi campanilistici che dovrebbe essere il nobile fine del viaggiare e dei libri di viaggi di curare» (2003: 11-12).

[...] L’immagine dell’italiano primitivo viene delineata, pertanto, anche dai viaggiatori del Grand Tour. [...] L’ideale romantico di un’Italia passionaria, ribelle e decadente alimenterà gli scritti di Stendhal nelle Chroniques italiennes e di M.me de Staël in Corinne ou l’Italie; ed è proprio quest’ultimo romanzo-saggio che lancia in Europa il mito dell’Italia e degli Italiani 6 . Il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani di Leopardi (1824, le citazioni da un’edizione del 1991) ha come interlocutore implicito proprio Corinne: con questo dialogo a distanza inizia a penetrare per la prima volta in Italia la locuzione “carattere nazionale” – coniata nell’ambito della pubblicistica francese che va da Montesquieu a Voltaire a M.me de Staël. [...] La variabile chiave per comprendere gli attributi morali, oggi culturali, era l’elemento geografico-climatico: uomo del Nord e del Sud. Secondo Leopardi, il clima mite avrebbe indotto gli italiani a condurre una vita prevalentemente sociale (nella piazza, nel corso, etc.) e, quindi, a concentrarsi sugli aspetti visibili dell’identità 7 . 
Lo sbilanciamento sul versante esteriore, sempre secondo Leopardi, avrebbe sminuito il culto della vita interiore: l’uomo italiano del tempo avrebbe avuto, pertanto, difficoltà nella costruzione di un “Io profondo”, slegato dalle interazioni e coltivato nella solitudine domestica – e la problematicità nell’attivare una conversazione interiore avrebbe determinato una difficoltà di conversazione con l’Altro tout court. È sempre Leopardi ad anticipare in maniera sorprendente la principale chiave di interpretazione sociologica della società italiana, ovvero l’assenza di una “società stretta”: una ruling class, una borghesia consapevole del proprio ruolo storico. 6 


[...] È interessante, a questo riguardo, un altro libro cult che ho visto in mano a molti studenti americani in Italia: La bella figura di Beppe Severgnini, che si cimenta nella costruzione di un motto nazionale italiano: «Mangiar bene, comprar qualcosa, mostrarsi molto ed eccitarsi un po’». 

Il poeta di Recanati osservava, già allora, l’assenza in Italia di un ceto motore del processo di modernizzazione, cioè una borghesia illuminata che imponesse l’ethos all’intero corpo sociale e che si assumesse la responsabilità di scandire le regole non scritte, ma socialmente stringenti e condivise, le moral basis che costituissero il “tono” di un’intera nazione. Sempre seguendo Leopardi, la base morale rappresenta l’humus culturale per la formazione di un controllo e autocontrollo sociale, indispensabile alla strutturazione di una società moderna. Questi fondamenti promuoverebbero una sorta di universalismo, atto al contenimento dell’atteggiamento opposto, ovvero il particolarismo, che – e questo è il primo punto essenziale di questo saggio – era già stato ben individuato e così nominato verso la fine del Rinascimento, molto prima dell’indagine di Banfield e delle note di viaggio del Grand Tour.

Secondo la prospettiva sviluppata in queste riflessioni, declinare il “familismo amorale” nell’espressione più sobria e di maggior generalità “particolarismo”, permette – assieme ad altri passaggi analitici e rispettive conclusioni – di uscire dalle secche di un dibattito sociologico che dura oramai da un lustro. 

L’invettiva leopardiana contro chi faceva «tuono e maniera da se», seguendo «l’uso e il costume proprio» – massimizzando, cioè, l’interesse privato (proprio, del proprio nucleo familiare, della propria corporazione) a dispetto di quello collettivo – si lega in maniera sorprendente alle interpretazioni di Banfield. Quindi, da una parte l’interpretazione socio-culturale italiana, efficacemente sintetizzata dal guicciardiano particulare, affonda nei secoli, dall’altra – il secondo punto essenziale di questo contributo – è un’attribuzione indigena, in altre parole “ce la siamo detta-data da noi stessi”. 

L’idea di una mancanza strutturale di senso civico, pertanto, appartiene innanzitutto al momento dell’auto-riconoscimento identitario. [...]

Il resoconto narrativo è, infatti, il primo e più potente strumento interpretativo e conoscitivo di cui gli esseri umani – come soggetti socio-culturalmente situati – fanno uso per conferire senso alle proprie esperienze di vita (Bruner 1990, 1991) 9. L’essere umano è stato tradizionalmente definito zoon logikon, animale dotato di ragione; oggi può essere definito, più concretamente, come animale simbolico: prima di quello che potrebbe essere chiamato il logos posteriore della comprensione scientifica e della relativa produzione scritta, c’è il logos anteriore del discorso narrativo. La gente racconta storie dalla creazione del mondo, molto prima di cominciare a costruire la fisica matematica. Il discorso, l’articolazione delle parole (logos) è ciò che distingue l’uomo da tutte le altre specie animali. Nella misura in cui il logos del racconto precede il logos del discorso teoretico, lo zoon logikon della filosofia greca potrebbe essere tradotto come “animale narrante”. Se queste osservazioni venissero condivise, la comunità sociologica italiana non dovrebbe attendere ancora a lungo – un lustro è un lasso di tempo più che sufficiente – come tanti Vladimiri ed Estragoni: l’auspicio è che Godot si rechi nel meridione d’Italia e faccia uno studio di comunità à là Thomas & Znaniecki, o à là coniugi Lynd – perché se è chiaro che si può far meglio di Banfield, è pure chiaro che bisogna provarci. [...]

Ma, sin dai tempi di Orazio, sappiamo quanto siano poca cosa le leggi non supportate dal costume. [...] Ancora sul peso storico del concetto di particolarismo Parafrasando un’efficace proposizione contenuta in un saggio di Alfio Mastropaolo (2009), In principio non era Banfield 12: infatti, l’inizio di questa storia non può essere contrassegnata dalla venuta dello studioso nordamericano in Italia. [...] la locuzione più appropriata è: “In principio era Guicciardini”, oppure “In principio era Leon Battista Alberti”. Leon Battista Alberti, tra il 1433 e il 1441, scrive un trattato: I libri della famiglia (1972). L’architetto fiorentino, considerato espressione sublime e completa dell’umanesimo rinascimentale, intende con “masserizia” l’arte di organizzare la famiglia – luogo strumentale e affettivo al tempo stesso – come un’azienda. Secondo Alberti le famiglie – che si reggono con la “roba”, gli amici e le buone relazioni con l’autorità – non formano mai una civitas; per quanto riguarda la politica, essa serve a portare via qualche licenza, altrimenti è considerata un problema da aggirare: «Non si scorge mai, assolutamente mai, nell’opera di Leon Battista Alberti, un ‘grappolo’ di famiglie, che giungano a formare una civitas, una società» (Tullio-Altan 1986: 23). 

Il “Discorso” leopardiano dà corpo e peso alla cultura, ai costumi, alla contrapposizione Nord-Sud, ma soprattutto alla famiglia tratteggiata da Leon Battista Alberti e al “paese del tornaconto personale” che Francesco Guiccciardini (1576) chiama il particulare. È, infatti, Guicciardini a estendere per primo l’ombrello semantico del termine “particolare”14 in questa direzione: una 13 L’altra separazione, inopportuna per un’interpretazione sociologica proficua, è l’annosa divisione in due grandi “bande”: strutturalisti e culturalisti. Con una metafora contemporanea, è come tentare di capire l’agire sociale dividendo il software dall’hardware. Questi due grandi gruppi si dividono in ulteriori sottogruppi: chi conta (quantitativi) e chi narra (qualitativi); chi “macro”, chi “micro”, chi (addirittura) “meso”; chi “lavoro” e chi “consumo”; e via dicendo, su piani diversi: cattolici versus marxisti; locale, globale e glocale; chi sta per il capitale sociale e chi per quello economico, in una sorta di regressione infinita che talvolta pare allontanarsi, nei libri come nelle aule, dai maestri della sociologia che si sono dati da fare sia per riunire (Bourdieu che, oltre a quello sociale ed economico, mette in campo il capitale culturale e simbolico), sia per tenere distinte pratiche che dovrebbero appartenere a sfere diverse (Max Weber sulla scienza e sulla politica). Forse il sociologo del 2011 dovrebbe smettere di sentirsi così a suo agio nei panni di Guelfo o di Ghibellino. 14 

Per Aristotele il termine particolare aveva a che fare con la conoscenza umana: «A noi risultano dapprima chiare ed evidenti le cose nel loro insieme; e solo in un secondo momento l’analisi ci consente di individuarne gli elementi e i princìpi. Perciò bisogna procedere dall’universale al particolare» (Fisica I, 1: 20-25). 

È la medesima contrapposizione partitiva ‘tutto/parte’ che ritroviamo in Cicerone
«Non mi sono infatti riproposto una trattazione rigorosa e metodica, e neppure mi riprometto di parlare di tutto, senza omettere alcun particolare» (De re publica, I: XXIV). In generale i romani davano al termine ‘particolare’ un’accezione di residualità rispetto al “tutto”. 

In Dante è presente la contrapposizione particolare/universale: 
«Sì come la natura particulare è obediente a la universale, quando fa trentadue denti a l’uomo, e non più né meno, e quando fa cinque dita ne la mano, e non più né meno» (Convivio, I: 7,9). 

È, quindi, il Guicciardini a introdurre i significati legati a comportamenti ‘particolaristici’ intesi nell’accezione moderna. [...] Gli esseri umani tratteggiati dal Guicciardini – che adotta un approccio weberiano ante litteram – sono inclini al particulare nei due sensi: sia economico, sia di “fama e reputazione” (classe e ceto). Lo storico fiorentino considera proprio questo “spirito del tempo” – e non altre forme di “idealismo” o di “universalismo” – il vero pilastro per la costruzione di una vita sociale e civile tesa verso la modernità. L’analisi guicciardiana si concentra sui comportamenti “adeguati”, spesso legati a una “strategia dell’apparenza”, necessari per vivere in una realtà sociale e politica percepita come mutevole e instabile. La ricchezza e la “reputazione” sono indicatori basilari di status per la famiglia, e l’amicizia (oggigiorno: il capitale sociale) è intesa in maniera strettamente utilitaristica, cioè in funzione delle esigenze di posizionamento sociale. Avverso al pronunciarsi sulle “regole” del comportamento umano, il Guicciardini suggerisce la “discrezione” (capacità di discernere) come unica bussola per orientarsi in una realtà sociale precaria, frammentata, variabile. La discrezione sarebbe l’arma che consente agli esseri umani di adeguarsi alla “fortuna”: il Guicciardini è, quindi, pure un fatalista. L’autore dei Ricordi riconosce – al pari di Machiavelli – il valore della dissimulazione per l’uomo politico, ma non per una progettazione politica che evada il qui ed ora del particolare: Guicciardini non crede nel valore superiore dello Stato. In un mondo antesignanamente post-moderno, cioè frammentato e imprevedibile – oggi diremmo “liquido” – per Guicciardini bisogna limitarsi a difendere il proprio particolare. La morale guicciardiana consiste nella ricerca dell’utilità universale solamente attraverso quella particolare. Leopardi loda il “pragmatismo” guicciardiano e la sua capacità di muoversi “al di qua” di una scienza della politica separata dall’uomo. Ma il poeta di Recanati, alla fine, se ne discosta profondamente con un j’accuse: «Gli usi e i costumi in Italia si riducono generalmente a questo, che ciascuno segua l’uso e il costume proprio, qual che egli sia» (1824/1991: 67). 

Da Banfield ai giorni nostri: oltre mezzo secolo di dibattito Nel 1958 Edward Banfield, dopo aver studiato a lungo Chiaromonte, un paese della Basilicata, pubblica The Moral Basis of a Backward Society. Secondo lo studioso americano, la cultura politica dell’Italia postbellica favoriva la perpetuazione di pratiche tradizionalistiche anziché promuovere la stabilità e l’efficienza di istituzioni democratiche moderne. Si trattava di una cultura particolarista che sosteneva interessi locali e personali; una cultura nella quale il sentimento di fiducia era ristretto al solo ambito familiare. Banfield, a tal riguardo, coniò l’ultracitata espressione “familismo amorale”, che é entrata a far parte del vocabolario delle scienze sociali e umane. Le persone che possiedono questo tratto mentale-culturale si comportano secondo la regola: «Massimizzare i vantaggi materiali e immediati della famiglia nucleare, supporre che tutti gli altri si comportino allo stesso modo» (1958/1976: 105). Il familista amorale, pertanto, non coltiva né sviluppa condotte community oriented; il familista amorale nutre una profonda sfiducia per la collettività, non coopera con gli altri – a meno che ci sia in ballo un tornaconto personale. La civicness (senso civico) sarebbe, pertanto, l’atteggiamento antitetico al familismo amorale. 

In estrema sintesi16, le tre principali obiezioni al lavoro di Banfield sono: 
metodologiche – le domande per rilevare i valori sono una trappola procedurale (Colombis 1976), la scelta è solo tra familismo e non familismo, non c’è una posizione intermedia; non possiamo prendere il lavoro di Banfield come rappresentativo del Mezzogiorno (Geertz ci direbbe che la questione è mal posta o, più precisamente, inutile, almeno dal punto di vista dell’antropologia culturale17); storiche – alla luce della situazione strutturale, economica e istituzionale, era perfettamente razionale per gli abitanti di Chiaromonte comportarsi così (Pizzorno 1967); politiche – non c’è niente di amorale nell’essere familista, anzi la famiglia poteva essere una buona forma di mediazione tra Stato e cittadino (Miller 1974). 

Quando ero uno studente universitario, le analisi di Banfield non mi parevano così avulse dalla realtà degli anni Novanta (meno che mai da quella attuale). I sociologi italiani, tuttavia, le avevano criticate, e continuavano (continuano) a farlo. Ragioniamo assieme a Pizzorno. Egli diceva che in condizioni di povertà, di marginalità storica e sociale, è razionale cercare vantaggi certi e immediati piuttosto che investire i propri sforzi verso la costruzione di un bene collettivo di là da venire: l’impegno pubblico sarebbe destinato a un sicuro fallimento. Lo studioso italiano, segnalando i limiti di un’impostazione rigida e funzionalistica nello studio dei processi di modernizzazione, considerava il familismo come una variabile dipendente dai rapporti di classe. Pizzorno, 16  [...]

Dopo il familismo e il parrochialismo, viene, sempre seguendo la precisa ricostruzione di Mastropaolo, il clientelismo. Joseph La Palombara nel 1964 pubblica Interests Groups in Italian Politics, uno studio sulle relazioni tra Azione Cattolica, Confindustria e lavoratori della Pubblica Amministrazione. Il titolo nella traduzione italiana del 1967 si trasforma in un più negativo Clientela e parentela. E così, il termine “clientelismo” entra a far parte del linguaggio della sociologia politica: una new entry di un certo peso semantico, potenza retorica, pregnanza e attualità. 

Negli stessi anni, Sidney Tarrow in Peasant Communism in Southern Italy (1967) accosta al termine clientelismo un’altra parola evocativa, che diverrà comune nel vocabolario sociologico per descrivere i rapporti tra famiglia, politica e potere: patronage. Nell’ambito di questo contributo, interessa sottolineare che Tarrow si discosta dalla rappresentazione di un sud arretrato in maniera omogenea e con poche speranze di cambiare nel futuro. La DC secondo Tarrow era riuscita a sviluppare una strategia di raccolta del consenso nei confronti delle classi medie e basse: Tarrow chiama questa strategia new patronage o horizontal clienteles, che vengono tradotti nell’espressione italiana “clientelismo organizzativo” (Mastropaolo 2009: 324). Tarrow non interpreta il new patronage come sintomo di arretratezza culturale e politica, ma – al pari di Pizzorno – come la via meridionale (pure fioren- 19 

Questa, come commenta, fra gli altri, Mastropaolo, è la cultura politica tipica del mondo anglosassone. Per altre critiche ad Almond e Verba vedi Rokkan (1964). L’Italia secondo il politologo norvegese sarebbe stata ridotta a una monocultura, perdendo la varietà delle sfaccettature regionali. [...] Questo nuovo clientelismo è considerato una forma di arricchimento e mobilità sociale per pochi, che ha scarse ricadute sulla prosperità e sullo sviluppo locale: in pratica, sembra che la ridistribuzione delle risorse statali non possa seguire altro canale al di fuori di quello clientelare

È lo stesso Tarrow che, tuttavia, in un articolo del 1977, The Italian Party System Between Crisis and Transition, si chiede perché in Italia è mancata – manca, direi – una costituency for universalism. La risposta, secondo Tarrow, risiede nella debolezza della borghesia nazionale, quindi del Nord, del Centro e del Sud. [...]

Arriviamo finalmente alle più recenti (1993) analisi di Putnam, che tendono a ricuperare la ‘bontà’ del concetto di familismo amorale e della spaccatura Nord/Sud: nel meridione, in estrema sintesi, manca spirito civico. Putnam, con una vastissima base empirica e con un metodo piuttosto originale 20, segnala quanto la diversa produttività delle amministrazioni regionali italiane sia influenzata dalle diverse tradizioni civiche. [...] Pertanto, la rete di relazioni familiari presenti in una backward society non può essere pensata solamente come ostacolo al processo di sviluppo. [...] 

Anche secondo Tocqueville «Apparteniamo alla nostra classe prima che alle nostre opinioni», che poi aggiunge: «In Italia ciò non è meno vero se sostituiamo alla parola ‘classe’, ‘famiglia’». 22 [...] 

Come hanno accertato decine di ricerche, fra i popoli mediterranei, la famiglia (non l’individuo) è la vera unità decisionale [...] orienta i comportamenti in direzioni precise: trarre vantaggi per sé, per la propria famiglia (o corporazione) a discapito degli interessi collettivi. [...]

Inoltre, è proprio nella premessa teorica implicita o esplicita di queste critiche a Banfield – la profezia che si auto adempie di Merton (1949) – che sta l’altra forza della categoria familismo-particolarismo. Il teorema di Thomas (1923), da cui prende spunto Merton, recita: «If men define things as real, they are real in their consequences». Ed è proprio questo il nodo centrale dell’interpretazione di Banfield che merita riportare nuovamente in inglese: «maximize the material, short-run advantage of the nuclear family; assume that all others will do likewise». [...]

BIRINDELLI, Pierluca. Il particulare italiano da Guicciardini a Banfield Tra l’auto- e l’etero-riconoscimento. SocietàMutamentoPolitica, [S.l.], p. 67-94, nov. 2011. ISSN 2038-3150. Disponibile all'indirizzo: <http://www.fupress.net/index.php/smp/article/view/10319/9548>. Data di accesso: 29 ago. 2016 doi:10.13128/SMP-10319.

http://www.fupress.net/index.php/smp/article/view/10319/9548

Libero Grassi. Ho costruito questa fabbrica con le mie mani, lavoro da una vita e non intendo chiudere... Se paghiamo i 50 milioni, torneranno poi alla carica chiedendoci altri soldi, una retta mensile, saremo destinati a chiudere bottega in poco tempo. Per questo abbiamo detto no al "Geometra Anzalone" e diremo no a tutti quelli come lui

Libero Grassi (Catania, 19 luglio 1924 – Palermo, 29 agosto 1991)
"...Volevo avvertire il nostro ignoto estortore di risparmiare le telefonate dal tono minaccioso e le spese per l'acquisto di micce, bombe e proiettili, in quanto non siamo disponibili a dare contributi e ci siamo messi sotto la protezione della polizia. Ho costruito questa fabbrica con le mie mani, lavoro da una vita e non intendo chiudere... Se paghiamo i 50 milioni, torneranno poi alla carica chiedendoci altri soldi, una retta mensile, saremo destinati a chiudere bottega in poco tempo. Per questo abbiamo detto no al "Geometra Anzalone" e diremo no a tutti quelli come lui"
Libero Grassi, dal Giornale di Sicilia del 10-1-1991

Alejandro Jodorowsky gli 82 comandamenti. Non instaurare amicizie inutili


«Non instaurare amicizie inutili»

gli 82 comandamenti di Alejandro Jodorowsky

1. Focalizza la tua attenzione su te stesso. Sii cosciente in ogni momento di ciò che stai pensando, percependo, provando, desiderando e facendo.
2. Finisci sempre ciò che hai iniziato.
3. Qualunque cosa tu stia facendo, falla nel miglior modo possibile.
4. Non attaccarti a niente che possa distruggerti nel corso del tempo.
5. Sviluppa la tua generosità – ma fallo segretamente.
6. Tratta chiunque come se fosse un parente stretto.
7. Organizza quello che hai disorganizzato.
8. Impara a ricevere e ringrazia per ogni regalo ricevuto.
9. Smetti di definire te stesso.
10. Non mentire e non rubare, perché facendolo menti a te stesso e rubi a te stesso.
11. Aiuta il tuo vicino, ma non renderlo dipendente.
12. Non incoraggiare altri ad imitarti.
13. Fai piani di lavoro e portali a termine.
14. Non occupare troppo spazio.
15. Non fare movimenti o suoni inutili.
16. Se ti manca la fede, fingi di averla.
17. Non permettere a te stesso di essere impressionato da personalità forti.
18. Non considerare nessuno e niente come di tuo possesso.
19. Condividi equamente.
20. Non sedurre.
21. Dormi e mangia solo il necessario.
22. Non parlare dei tuoi problemi personali.
23. Non esprimere giudizi o critiche quando sei ignorante della maggior parte dei fattori coinvolti.
24. Non instaurare amicizie inutili.
25. Non seguire le mode.
26. Non vendere te stesso.
27. Rispetta i contratti che hai firmato.
28. Sii puntuale.
29. Non invidiare mai la fortuna o il successo di qualcuno.
30. Non dire più del necessario.
31. Non pensare ai profitti che il tuo lavoro genererà.
32. Non minacciare nessuno.
33. Mantieni le tue promesse.
34. Nelle discussioni, mettiti al posto dell’altra persona.
35. Ammetti che qualcun altro potrebbe essere superiore a te.
36. Non eliminare, trasforma.
37. Sconfiggi le tue paure, perché ognuna di loro rappresenta un desiderio camuffato.
38. Aiuta gli altri ad aiutare se stessi.
39. Sconfiggi le tue avversioni e avvicinati a coloro che ti inspirano rifiuto.
40. Non reagire a ciò che gli altri dicono di te, che siano lodi o colpe.
41. Trasforma il tuo orgoglio in dignità.
42. Trasforma la tua rabbia in creatività.
43. Trasforma la tua avidità in rispetto per la bellezza.
44. Trasforma la tua invidia in ammirazione per i valori dell’altro.
45. Trasforma il tuo odio in carità.
46. Non elogiare né insultare mai te stesso.
47. Considera ciò che non ti appartiene come se ti appartenesse.
48. Non protestare.
49. Sviluppa la tua immaginazione.
50. Non dare mai ordini per ottenere soddisfazione dall’essere ubbidito.
51. Paga per i servizi eseguiti per te.
52. Non fare proseliti del tuo lavoro o delle tue idee.
53. Non tentare di far provare agli altri nei tuoi confronti emozioni come pietà, ammirazione, compassione o complicità.
54. Non tentare di distinguerti con la tua apparenza.
55. Non contraddire; piuttosto, resta in silenzio.
56. Non contrarre debiti; acquista e paga immediatamente.
57. Se offendi qualcuno, chiedi il suo perdono; se hai offeso qualcuno pubblicamente, scusati pubblicamente.
58. Quando realizzi di aver detto qualcosa di sbagliato, non persistere nell’errore per orgoglio; piuttosto, ritratta immediatamente.
59. Non difendere le tue vecchie idee semplicemente perché sei colui che le ha espresse.
60. Non tenere oggetti inutili.
61. Non adornare te stesso con idee esotiche.
62. Non tenere le tue fotografie con persone famose.
63. Non giustificarti con nessuno e tieni per te le tue opinioni.
64. Non definire te stesso in base a ciò che possiedi.
65. Non parlare a te stesso senza considerare che potresti cambiare.
66. Accetta che niente ti appartiene.
67. Quando qualcuno chiede la tua opinione circa qualcosa o qualcuno, parla solo delle sue qualità.
68. Quando ti ammali, considera la tua malattia come il tuo maestro, non come qualcosa da odiare.
69. Osserva direttamente e non nasconderti.
70. Non dimenticare i morti cari, ma concedi loro uno spazio limitato e non permettergli di invadere la tua vita.
71. Ovunque tu viva, trova sempre uno spazio da dedicare al sacro.
72. Quando offri un servizio, rendi il tuo sforzo poco appariscente.
73. Se decidi di lavorare per aiutare gli altri, fallo con piacere.
74. Se stai esitando tra il fare e il non fare, corri il rischio del fare.
75. Non tentare di essere tutto per il tuo sposo/la tua sposa; accetta che ci siano cose che non puoi dargli/darle ma che altre persone possono.
76. Quando qualcuno sta parlando ad un pubblico interessato, non contraddire quella persona e non rubare il suo pubblico.
77. Vivi dei soldi che hai guadagnato.
78. Non vantarti mai delle avventure amorose.
79. Non glorificare mai la tua debolezza.
80. Non fare visita a qualcuno solo per passare il tempo.
81. Ottieni cose per poi condividerle.
82. Se stai meditando e il diavolo appare, fai meditare anche il diavolo.

domenica 28 agosto 2016

Terremoto, si sa, vuol dire scuotimento della terra, ma anche terrore ha lo stesso significato. Dal latino terreo, che letteramente significa faccio tremare, terrore e pure l’aggettivo terribile, a mio giudizio, hanno in comune con terremoto la radice terra. Io credo, infatti, che fin dall’antichità ciò che faceva più paura agli uomini, proprio per la sua imprevedibilità e l’impossibilità di porvi rimedio, era il terremoto.



Terremoto, si sa, vuol dire scuotimento della terra, ma anche terrore ha lo stesso significato. 
Dal latino terreo, che letteramente significa faccio tremare, terrore e pure l’aggettivo terribile, a mio giudizio, hanno in comune con terremoto la radice terra. Io credo, infatti, che fin dall’antichità ciò che faceva più paura agli uomini, proprio per la sua imprevedibilità e l’impossibilità di porvi rimedio, era il terremoto.

Pensate, ad esempio, agli sconvolgimenti naturali cui dovettero assistere gli esseri umani con la fine dell’ultima glaciazione: inondazioni, slittamenti della crosta terrestre e definitiva separazione dei continenti. La terra, che si muoveva continuamente sotto i piedi dei nostri antenati, era uno spettacolo terribile che li terrorizzava.

Ma fate caso ad altre parole che utilizziamo per descrivere le nostre paure, le nostre angosce. 
Di una persona che ha subito un trauma si suole dire che è molto scossa, ovvero che ha subito uno schock (più propriamente choc, attesa l’origine francese della parola) che vuol dire urto violento. E che cos’è il terremoto se non un urto violento, uno spintone del titano Atlante che, svegliandosi da un lungo sonno, involontariamente allungando le braccia per stiracchiarsi, con le sue manone sposta tutto quello che trova attorno a sè. Non lo fa apposta. Poverino lui ci vuole bene, altrimenti non ci terrebbe sul groppone da così tanto tempo.

Noi dobbiamo imparare a prevenire i suoi bruschi risvegli. 
Dobbiamo costruire case elastiche che resistano alle mani di Atlante
I giapponesi come noi sono terrorizzati dai terremoti, ma quando questi finiscono sono tutti vivi e possono permettersi di rimbrottare quel gigante un po’ imbranato invece di maledirlo come se fosse un vile assassino. Oggi, con le macerie negli occhi e nel cuore, non serve dire se e neppure è colpa di, oggi si può dire soltanto mettiamoci in sicurezza, ripariamoci dalle mani di Atlante, FACCIAMOLO!
di Andrea Lupi





Rosmini. Si conservano in questa età [corrotta] le forme antiche del governo, ma esse non sono che apparenze e formalità, le quali non hanno senso né vita. Si mantiene a lungo lo stesso linguaggio, ma nessuno veramente lo intende per quel che suona, non esprime più che delle falsità. Vige l'autorità degli antenati


Si conservano in questa età [corrotta] le forme antiche del governo, ma esse non sono che apparenze e formalità, le quali non hanno senso né vita. Si mantiene a lungo lo stesso linguaggio, ma nessuno veramente lo intende per quel che suona, non esprime più che delle falsità. Vige l'autorità degli antenati: se ne ripetono le sentenze e i principii, spesso rendendoli vani con cavillose e dotte interpretazioni, spesso anco per burlarsene, valendosene sul serio quando cadono in proprio vantaggio, riputandoli anticaglie dismesse in caso contrario. Si conserva oltracciò una letteratura; ella ripete stanchevolmente le cose antiche, ma non ne gusta veramente il bello: originalità e vita nessuna: le menti sfibrate e annojate ripugnano a far nulla da se stesse.
E a che poi servono tutte queste reliquie di movimento intellettivo? A trovare mezzi d'appagamento della sensualità comune, che è il fine di una società abbruttita.
Antonio Rosmini, “Filosofia della Politica”




Ridere nel Medioevo: le barzellette di Poggio Bracciolini.

Ridere nel Medioevo: le barzellette di Poggio Bracciolini
Alcune delle più spassose “barzellette” di Poggio Bracciolini, tradotte dal latino:

“Una giovane di Firenze, un po’ vuota di testa, era nel parto e soffriva atroci dolori; e duravano già da molto tempo, quando la comare, con un lume, andò ad osservare di sotto se il bambino non stesse per uscire, e la partoriente le disse di guardare anche dall’altra parte, perché qualche volta il marito aveva preso quella via.”

“Un tale di Gubbio che aveva nome Giovanni, ed era uomo molto geloso, non sapeva trovar certo modo per conoscere se sua moglie avesse avuto relazioni con altri. E il geloso pensò ad una furberia degna di se stesso, e si castrò, con questo scopo, che, se sua moglie si fosse poi incinta, egli sarebbe stato sicuro del suo adulterio.”

“Un vescovo, che io ho conosciuto, aveva perduto qualche dente e ne aveva altri che ciondolavano, e temeva della loro caduta. Un giorno gli disse un amico: «Non temete, i denti non cadranno». E chiestane la ragione: «I miei testicoli», rispose, «già da quarant’anni ciondolano, pare che cadano, e non son mai caduti».”

“Daccono degli Ardinghelli, cittadino di Firenze, chiamato ad essere tutore di un pupillo, ne amministrò per lungo tempo i beni, e tutti li consumò a mangiare ed a bere; quando finalmente gli vennero chiesti i conti, il magistrato gli ordinò di presentare i libri dell’entrata e dell’uscita, come si dice; ed ei mostrò la bocca e il sedere, dicendo che non aveva fuori di quelli alcun libro di entrata e d’uscita.”


“Uno de’ nostri villani fu una volta interrogato dal padrone in qual tempo avessero essi maggior lavoro ne’ campi. «In maggio», rispose. E poiché egli glie ne chiedeva la ragione, perché ciò pareva strano in quanto sembra che in quel mese riposino i lavori della campagna: «perché», disse, «è in quel mese che noi dobbiamo coprire e le nostre e le vostre donne».”


PREFAZIONE ALLE FACEZIE di POGGIO BRACCIOLINI

detto

Poggio Fiorentino

e da lui scritta


Che per la povertà dello stile gli invidiosi non devono condannare la raccolta delle facezie

Io penso che saranno molti che daranno biasimo a questi discorsi, sia come cose di niun conto ed indegne de la gravità dell'uomo, sia perché essi vi cercassero maggiore eleganza nel dire e piú animato lo stile. Ma se io loro risponda di aver letto che i nostri maggiori, uomini di grandissima prudenza e dottrina, di giuochi, di facezie e di favole si dilettarono e non si ebbero biasimo ma lode, credo che abbastanza avrò fatto per ricuperare la loro stima. Imperocché chi vorrà credere che io abbia fatta cosa turpe imitandoli in questo, non ponendolo nelle altre cose, e dando a le cure de lo scrivere quel tempo che gli altri perdono ne le società e ne la conversazione, quando principalmente non sia questo lavoro indecoroso e qualche piacere possa dare al lettore? Ed è cosa onorevole ec necessaria anzi, ed ebbero per essa lode i filosofi, sollevare l'animo nostro oppresso da molestie e da pensieri e trarlo alla gioia ed alla allegria con qualche lieta ricreazione. Però ricercare l'alto stile ne le piccole cose, o in queste che si hanno a esprimere con la parole propria e faceta,o per riferire ciò che altri disse, sembra cosa di troppa noia. Poiché vi son certe cose che non amano maggiore ornamento e vogliono invece esser dettate quali vennero da chi parlando le disse
Ed alcuni forse penseranno che questa scusa che chieggo venga da mancanze di ingegno: ed io stesso lo reputo. Ora coloro che sono di questo avviso ripiglino queste favole, le presentino e le rivestano a loro grado, ed io li esorto a farlo, ché la lingua latina in questa nostra età è fatta ricca anche ne le cose leggiere; e l'esercizio di scrivere quelle cose gioverà sempre a la grande arte del dettare. Io stesso volli fare la prova, se molte cose che si riputava non potessero essere scritte in latino, potessero tuttavolta scriversi senza cader nel vile; e non cercai in questo né l'eleganza, né l'ampiezza del dire, ma mi contentai e mi contento che le mie istorie non sembrino malamente narrate.
Del resto, risparmino la lettura di queste conversazioni (è così che le voglio chiamare) tutti coloro che sono troppo rigidi censori e critici troppo acerbi, e come una volta fece Lucilio coi Cosentini e i Tarentini io amo che i miei lettori siano d'animo lieto e sereno. Che se essi invece saran troppo incolti, non ricuso lor di pensar come vogliono, purché non se la prendano con l'autore, che solo per esercitar l'ingegno e sollevar lo spirito scrisse.


I
DI UN POVERO NOCCHIERO DA GAETA
Quelli del popolo di Gaeta vivono quasi tutti sul mare: uno di costoro, il più povero nocchiero del mondo, dopo avere errato per molti luoghi per guadagnare, tornò dopo cinque anni a casa, dove aveva lasciata povera masserizia e la moglie giovane. Appena mise piede a terra, corse a veder la sua donna (che disperando intanto che il marito tornasse, con altro uomo viveva). Entrato in casa e vedendo questa tutta instaurata e ingrandita e abbellita, chiese a sua moglie, come mai quella stamberga, prima tanto brutta, si fosse così mutata. Rispose tosto la moglie, che la era stata la grazia di Dio che dà a tutti gli uomini la ricchezza. «Benediciamo dunque il Signore», disse l'uomo, «che ci ha fatto così gran beneficio». Poi, di sopra, vide la stanza da dormire, con un letto più bello e con tutta la mobilia più elegante di quello che la condizione di sua moglie permettesse; e quando chiese di dove anche tutto questo fosse venuto, ella gli rispose che anche ciò si doveva alla misericordia di Dio; e ringraziò di nuovo il Signore che così generoso verso di lui si era mostrato. Nello stesso modo, quando vide nella casa tutte le altre novità, che sua moglie diceva provenienti dalla munificenza di Dio, e mentre egli restava ammirato di tanta profusione di grazie, sopravenne un fanciullo di più di tre anni, che corse, come fanno i bambini, ad accarezzare la mamma; allora il marito chiese di chi fosse il marmocchio, e la donna gli rispose essere suo. Meravigliato, l'uomo, che fosse venuto fuori un fanciullo, se egli non c'era entrato, la donna rispose sempre che esso proveniva dalla grazia di Dio. Allora non poté contenere lo sdegno per questa sovrabbondanza di grazia celeste, che veniva fino a regalargli dei figli. «Ah, sì», disse, «che lo devo ringraziar molto, il Signore, che si è preso tanto pensiero delle mie faccende!». Gli pareva, povero uomo, che Dio avesse pensato troppo, se gli faceva nascere dei fanciulli mentre egli era lontano.


II
DI UN MEDICO CHE CURAVA I MATTI
Eravamo in molti a discorrere di quella vanità, per non chiamarla stoltezza, che certuni hanno di mantenere cani e falchi per la caccia. Allora saltò su Paolo fiorentino a dire: «Aveva proprio ragione di ridere di loro quel matto di Milano». E poiché noi lo pregammo di raccontarci la storia: «Fuvvi, una volta», egli disse, «un cittadino milanese che faceva il dottore a' dementi ed a' pazzi e che prendeva a guarire in un certo tempo coloro che erano affidati alla sua cura. Ed ecco in qual modo egli la faceva: aveva in sua casa una corte dove era uno stagno di acqua sporca e fetente, nel quale, legati ad un palo, egli immergeva i matti che gli conducevano; e alcuni fino a' ginocchi, alcuni altri fino alle anche, qualcun altro anche più profondamente, secondo la gravezza del male, e li teneva a macerare nell'acqua e nell'inedia fino a che paressergli risanati. Gli fu tra gli altri una volta condotto un tale, che egli mise in quel bagno fino alle cosce, e che dopo quindici giorni ritornò alla ragione e pregava il medico di toglierlo da quel pantano; e questi lo tolse dal supplizio a patto però che non uscisse dalla corte; e quando ebbe per qualche giorno obbedito, lo lasciò passeggiare per tutta la casa, a condizione che non uscisse dalla porta sulla via: intanto i colleghi del matto erano sempre nell'acqua, e il matto osservò diligentemente gli ordini del medico.
Una volta che egli stava sulla porta, né per timore della fossa osava di passarla, vide venire un giovine cavaliere col falco sul pugno, e due di que' cani che servono per la caccia; e poiché non aveva memoria delle cose avvenute o viste prima della follia, gli parve cosa nuova, e lo chiamò a sé; e il giovine venne: «Ohé tu», gli disse, «ascoltami un poco e rispondimi se ti piace: Che è la cosa su cui stai, e per che uso ti serve? «È un cavallo», rispose, «e l'ho per la caccia». «E l'altra cosa che hai sul pugno come si chiama essa e a che è buona? «È un falco educato alla caccia delle arzavole e delle pernici». E il matto: «E quelli che ti accompagnano chi sono e a che ti giovano? «Sono cani», disse, «ammaestrati a snidare la selvaggina». «Sta bene, ma codesta selvaggina per la quale hai pronte tante cose, che prezzo ha quando tu ne abbia cacciato per un anno intero? «Poco ne so», rispose, «ma non credo più di sei ducati». «E quanto spendi tu nei cani, nel falco e nel cavallo?» «Cinquanta ducati». Allora meravigliato della pazzia del giovane cavaliere: «Oh, oh!» disse, «va' lontano di qui tosto prima che il medico torni a casa; perché se ti trova qui, come se fossi tu il più stolto fra i viventi, ti getterà nella fossa per curarti cogli altri matti, e come non fa cogli altri ti metterà nell'acqua sino alla gola». Mostrò così che la passione per la caccia è stoltezza se non è de' ricchi e per esercizio del corpo.

III
DI BONACCIO DE' GUASCI CHE S'ALZAVA TARDI DAL LETTO
Bonaccio de' Guasci, giovane di animo lieto, mentre eravamo a Costanza, sempre tardi sorgeva dal letto. E quando gli amici suoi gli rimproveravano questa pigrizia e gli chiedevano che mai nel letto facesse, egli sorridendo rispondea: «Ascolto la contesa di due litiganti; al mattino quando mi sveglio son presso a me due figure di donna, la sollecitudine e la pigrizia: quella m'esorta ad alzarmi, a muovermi, a non passare il mio giorno nel letto; questa la riprende e mi consiglia a non muovermi, poiché fuori è freddo ed è migliore il calore del letto, e il corpo abbisogna di riposo, né si può lavorare sempre. La prima ripete le sue ragioni; e così, poiché è lungo l'alterco fra loro e la disputa, io, giudice equo, non piego né dall'una parte né dall'altra, ascolto i contendenti, aspetto che si pongan d'accordo. Ed è così che m'alzo tardi, aspettando che sia composta la lite».

IV
DI UN GIUDEO CHE SI ERA PERSUASO DI FARSI CRISTIANO
Molti erano che esortavano un giudeo a farsi cristiano, ma egli non potea risolversi di staccarsi da' suoi beni; e lo assicuravano che se e' li avesse dati a' poveri, secondo la sentenza del Vangelo, che è verissima, avrebbe in cambio ricevuto il centuplo. Persuaso egli finalmente, si convertì alla fede e spartì i beni suoi fra poveri, malati e mendichi. Poi per circa un mese fu con molto onore ospitato e ricevuto da diversi cristiani e tutti lo accarezzavano e lo plaudivano per quel che aveva fatto. Egli intanto che viveva alla giornata, aspettava di giorno in giorno il centuplo che gli avevan promesso, e poiché molti s'eran già stanchi di dar gli da mangiare e gli ospiti si facean sempre più radi, così egli cadde in malattia e venne per questa in fin di vita, per un grande flusso di sangue. Disperava egli ormai della vita, ed ancora della promessa del centuplo, quando un giorno, per desiderio di prender fiato, uscì dal letto e venne per sgombrarsi il ventre sul prato di un vicino; ed ivi vuotatosi, cercava d'intorno delle erbe per detergersi, quando trovò un involto di cenci che molte pietre preziose conteneva. Così si fe' ricco, chiamò i medici, guarì, comprò case e poderi e visse di poi in grande opulenza. E quando tutti gli ripetevano: «Vedi tu, se ti predicevamo la verità, che Dio t'avrebbe restituiti tutti i tuoi beni centuplicati?» «Sta bene», diceva, «egli mi rese il centuplo; ma volle prima ch'io mandassi fuori per disotto sangue fino a morire». Ciò va detto di coloro che son tardi a compiere o a rendere un beneficio.

V
D'UNO SCIOCCO CHE CREDEVA CHE SUA MOGLIE AVESSE DUE COSE
Uno de' nostri paesani, assai poco furbo, e inesperto nelle faccende d'amore, prese moglie. Ora avvenne che una notte nel letto ella volse la schiena e'l resto al marito, il quale tuttavia colpì nel segno; onde meravigliato oltre misura si fe' a chiedere alla donna s'ella mai avesse due di quelle cose; ed avendo ella risposto che due n'aveva: «Oh, oh», disse l'uomo, «a me una sola basta; l'altra è di troppo». Allora la donna furba, che era amata dal piovano suo: «Possiamo», gli disse, «fare con l'altra elemosina; diamola adunque alla chiesa ed al nostro piovano che ne avrà gran piacere, e a te non verrà in danno, poiché una ti basta». E l'uomo acconsentì e per amor del piovano e per trarsi di dosso quel peso. E così, chiamatolo a cena, e narratogli il caso, dopo in tre sul letto si coricarono, la donna nel mezzo e dinanzi il marito e per di dietro il piovano, affinché si giovasse del dono. Il prete, affamato ed avido di quella pietanza tanto desiderata, attaccò pel primo la sua parte di combattimento, e poiché la donna se la godeva e lasciava sfuggir qualche rumore, il marito, temendo che il prete non passasse nel campo suo: «Bada», gli disse, «o amico, di stare a' patti e servirti della tua parte e lascia stare la mia». Che Iddio mi aiuti», rispose il prete, «ché la tua non tengo io in gran conto, purché mi possa godere i beni della chiesa». Con queste parole si quietò l'uomo sciocco e invitò il piovano a godersi liberamente della parte ch'egli aveva concesso alla chiesa.

VI
DI UNA VEDOVA ACCESA DI VOGLIA CON UN MENDICANTE
Sono gli ipocriti la gente peggiore del mondo; e un giorno ci parlava di questa genìa in luogo dove io ero presente, e diceasi che essi hanno ogni cosa in grande abbondanza, e che avidi come sono di dignità e di ricchezze, pure simulando e dissimulando pare che gli onori a malincuore ricevano e solo per ubbidienza a' superiori. E uno degli astanti disse: «Rassomiglian essi ad un certo Paolo, uomo santo, che abitava a Pisa; uno di coloro che si chiamano Apostoli e che sogliono sedere alle porte senza nulla domandare»; e a noi che gli chiedevamo chi fosse: «Questo Paolo», disse, «che per la santità della vita era detto il Beato, soleva assidersi alla porta di una vedova, che gli dava in elemosina il cibo. Essa, vedendo spesso costui che era assai bello, se ne invaghì, e un giorno, dopo averlo cibato, gli disse di venir il dì appresso, che gli avrebbe preparato un buon pranzo; e giacché egli venne spesso, così un giorno ella lo invitò ad entrare a mangiare dentro la casa, e avendo egli aderito, e quando ebbe il ventre pieno di cibo e di vino' la donna, matta di voglia, lo prese ad abbracciare e a baciare, giurando di non lasciarlo partire, prima di aver tutto fatto; ed egli finse di non voler sapere del giuoco, anzi di detestare l'acceso desiderio della donna, e alla fine, poiché ella più oscenamente insistette, come se cedesse solo all'importunità della vedova: «Dappoiché», disse, «tu vuoi far tanto male, chiamo Dio testimonio, che tutta tua è la colpa, e che io non ne ho. Tu stessa prenditi questa carne maledetta, e sèrviti come meglio ti piace, ché io non voglio neanche toccarla». E così egli fe' il piacer della donna, e poiché per astinenza non aveva voluto toccare se stesso, lasciò a lei tutto il peccato».

VII
DI UN PRELATO A CAVALLO
Andavo io un giorno al palazzo del Papa, e vidi passare a cavallo uno de' nostri prelati, forse assorto ne' suoi pensieri, perché non si accorse di uno che lo salutava scoprendosi il capo; e questi credendo che ciò provenisse o da superbia o da arroganza: «Ecco là», disse, «uno che non ha lasciato a casa la metà del suo asino, ma che lo porta tutto con sé». Volendo dire che è da asino non rispondere agli atti di riverenza.

VIII
DETTO DI ZUCCARO
Una volta io e Zuccaro - che fu il più ameno degli uomini - passammo per una città, e giungemmo a un luogo dove si celebravano sponsali. Era la domani del giorno che la sposa era entrata nella casa, e noi ci fermammo qualche poco di tempo per assistere alla danza degli uomini e delle donne. Allora Zuccaro disse ridendo: «Costoro hanno consumato il matrimonio, io il patrimonio consumai da lungo tempo». E disse cosa amena di se stesso, ché aveva già venduti i beni di suo padre e tutto il patrimonio suo per dissiparlo alla tavola del gioco.


IX
DI UN PODESTA'
Un Podestà che era stato mandato a Firenze, il dì che entrò nella città, fece com'è d'uso, nella cattedrale, alla presenza de' priori della città, un lungo e noioso discorso; poiché a sua lode prese egli a narrare come già fosse senatore a Roma, e ciò che egli aveva fatto e ciò che gli altri fatto e detto avean di lui; poi descrisse l'uscita sua dalla città e il seguito che l'accompagnava poi, che il dì dopo si recò a Sutri, e disse punto per punto ciò che egli aveva compiuto. E appresso mostrò dove era stato giorno per giorno, e parlò delle persone e de' luoghi dov'era stato ricevuto, e ciò che fatto vi aveva. Erano già di molte ore in questo racconto trascorse, ed egli non ancora a Siena era giunto. Questa eccessiva lunghezza di un discorso noioso aveva stancato tutti gli uditori, che avean ragione di temere che tutto il giorno sarebbe passato in questo modo; e poiché già si avvicinava la notte, un uomo faceto, che era fra gli astanti, venne alle orecchie del Podestà e gli disse: «Monsignore, omai è tardi, e conviene abbreviare il viaggio; perché se voi oggi non entrate in Firenze, giacché oggi stesso vi è prescritto di entrarvi, avrete mancato all'ufficio vostro». Udito ciò, quest'uomo sciocco e ciarlone si affrettò a dire ch'era venuto a Firenze.


X
DI UNA DONNA CHE INGANNO' SUO MARITO
Pietro, mio compatriotta, narrommi un giorno una assai piacevole istoria di un'astuzia che una donna ebbe. Egli aveva relazione con la donna di un villano poco furbo, il quale per fuggire da' creditori passava molto spesso la notte ne' campi. Una sera che l'amico mio era colla donna, il marito, verso il tramonto, improvvisamente tornò a casa. La donna allora, nascosto prontamente l'amico sotto il letto, si fe' a rimproverare acerba mente il marito, perché era tornato, dicendo che in quel modo egli volea farsi mettere in prigione: «Poco fa», disse , «i fanti del Podestà sono venuti per prenderti e condurti in prigione e hanno tutta la casa perquisita; io ho detto loro che tu di solito passi fuori di casa la notte, ed essi se n'andarono, minacciando però di ritornare ben tosto». Il pover'uomo, atterrito, cercava il modo di andarsene, ma a quell'ora le porte della città eran chiuse. E la donna: «Che vuoi tu fare infelice? Se ti pigliano, è fatta». E siccome egli tremante la chiedeva di consiglio, essa pronta all'inganno: «Monta», dissegli , «su questa colombaia; tu starai qui questa notte, io chiuderò al di fuori l'imposta, e toglierò la scala, affinché nessuno possa sospettare che sei là». Obbedì egli al consiglio della donna, la quale, chiuso al di fuori lo sportello, affinché non potesse egli più uscire, e tolte le scale, trasse l'amante dal nascondiglio. Questi, fingendo che i fanti del Podestà fossero ritornati, vocianti in gran numero, e la donna ancora che pregava pel marito, finirono con colmar di terrore il pover'uomo nascosto; poi, quetato il tumulto, entrambi in letto si coricarono e diedero a Venere la notte; il marito rimase fra lo sterco e i piccioni.


XI
DI UN PRETE CHE IGNORAVA IL GIORNO DELLA SOLENNITA' DELLE PALME
È Aello un borgo molto campestre, ne' nostri Appennini; in esso abitava un certo prete, più rozzo e più ignorante degli stessi paesani; e siccome non conosceva egli le tempora e le stagioni dell'anno, così mai al popolo annunziò la quaresima. Venne costui a Terranova per il mercato, che ivi si tiene il sabato prima della festa delle Palme; vide i preti che preparavano i rami d'olivo e le piccole palme, per il dì seguente, e, meravigliato prima della cosa, conobbe di poi l'error suo e che la quaresima era passata senza che i parrocchiani suoi l'avessero osservata. Tornò al suo borgo, preparò i rami e le palme per il dì veniente, e la domenica, convocati i fedeli: «Oggi», disse, «è il giorno, che per uso si dànno i rami d'olivo e le palme; fra otto dì è la Pasqua; non dovremo adunque quest'anno protrarre a lungo i digiuni, poiché per questa settimana soltanto s'ha a far penitenza; ed eccovi la ragione: fu quest'anno il carnevale tardissimo e lento a cagione del freddo, e perché il viaggio per questi monti gli fu difficile, per l'asperità de' sentieri, per questo la quaresima faticò e stentò a venire e non poté recar seco che una settimana sola, avendo lasciate le altre per via; venite adunque alla confessione in questo po' di tempo che vi rimane, e fate tutti penitenza».

XII
DI ALCUNI CONTADINI AI QUALI VIENE CHIESTO DALL'ARTEFICE SE VOLESSERO IL CRISTO, CHE DOVEAN PER INCARICO COMPRARE, VIVO O MORTO
Da questo stesso borgo furono mandati alcuni ad Arezzo, per comprare un crocifisso di legno, che dovea esser posto nella Chiesa, ed essendo essi venuti ad uno che vendea queste cose, quando s'accorse d'aver che fare con uomini zotici ed ignoranti oltremodo, l'artefice per cavarne da ridere, udita la domanda, chiese se il crocifisso volessero vivo o morto; essi presero tempo per consigliarsi, discussero piano fra loro e conclusero che lo preferivano vivo; ché, se così non fosse piaciuto a' loro compaesani, l'avrebbero essi in un attimo ucciso.


XIII
MOTTO DI UN CUOCO ALL'ILLUSTRISSIMO DUCA DI MILANO
Il vecchio Duca di Milano, principe di singolare eleganza in tutte le cose, aveva un cuoco sapiente che egli aveva perfino mandato in Francia a ciò che apprendesse ad apprestare intingoli. Durante la grande guerra che egli sostenne contro i Fiorentini, venne un giorno al Duca messaggio di cattive nuove e fu per questo grandemente turbato; e, dopo qualche momento, a tavola, essendogli presentate pietanze, delle quali non so perché disapprovasse il sapore, come se non fossero ben condite, le cacciò da sé, e fatto venire il cuoco, lo rimproverò aspramente come inetto nell'arte sua; e costui, che parlava liberamente: «Se i Fiorentini», disse, «vi han tolto il gusto e l'appetito, che colpa ci ho io? Sono i miei piatti saporiti e con grandissima arte composti, ma sono i Fiorentini, monsignore, che vi riscaldano e vi tolgon la fame». E il Duca, che era oltre ogni dire umano, rise della libera e allegra risposta del cuoco.


XIV
DETTO DELLO STESSO CUOCO AL MEDESIMO ILLUSTRE PRINCIPE
Lo stesso cuoco, durando la guerra di cui sopra s'è detto, scherzò anche un'altra volta alla tavola del Duca, un giorno ch'e' lo vide angustiato ed assorto ne' pensieri: «Non mi meraviglio», disse, «di vederlo tanto afflitto; imperocché egli va verso due cose impossibili; vorrebbe egli non aver frontiere, poi vorrebbe ingrassare Francesco Barbavara, uomo di tanta ricchezza e ardente di tanta avidità». Così il cuoco scherzava e sulla smoderata voglia di dominio del Duca e sulla cupidigia d onori e di ricchezze di Francesco Barbavara.


XV
DOMANDA DEL DETTO CUOCO AL PREDETTO PRINCIPE
Lo stesso cuoco, vedendo che moltissimi sollecitavano i favori del principe, una sera, mentre questi cenava, lo pregò di volerlo in asino mutare. Meravigliato il Duca di sentirsi fare una tale domanda, e richiestolo del perché egli preferisse più d'esser asino che uomo: «Perché», disse, «io vedo che tutti coloro che voi avete messo in alto, ai quali voi deste e magistrature ed onori, sonsi talmente gonfiati di superbia, e tanto insolenti si son fatti, da divenir asini davvero. E così desidero che voi asino mi facciate».


XVI
DI GIANNOZZO VISCONTI
Antonio Lusco, uomo di molta sapienza e di una grande gaiezza, una volta che un tale di sua conoscenza gli fe' vedere una lettera del Papa, gli disse di correggerla e di ritoccarla in certi punti; l'altro il dì dopo gliela riporto tal quale, e Lusco vedutala, gli disse: «Tu m'hai preso per Giannozzo Visconti». E una volta che noi gli chiedemmo ciò che questo detto significasse: «Giannozzo», disse, «fu già nostro podestà di Vicenza; ed era un ottimo uomo, ma rozzo e grasso di ingegno e di corpo; egli chiamava spesso il suo segretario e gli faceva scrivere lettere al vecchio Duca di Milano, e gli dettava egli stesso la parte de' complimenti; il resto lo lasciava scrivere dal segretario che dopo poco tempo gli recava la lettera. Giannozzo prendeva a leggerla, e la trovava sempre sconcIusionata e malfatta. Così non va bene, gli diceva, va' e correggila. Il segretario, che conosceva l'uso e la stoltezza del padrone, tornava poco dopo con la stessa lettera, senza avervi alcuna cosa mutata, dicendo d'averla e corretta e ricopiata. Allora Giannozzo la prendeva in mano, come per leggerla vi gettava su gli occhi e diceva: Ora la lettera va bene; va' dunque: apponvi il sigillo e mandala al Duca. E così era egli solito fare di tutte le lettere».


XVII
DI UN CONFRONTO COL SARTO DEL VISCONTI
Aveva Papa Martino incaricato Antonio Lusco di scrivere certe lettere, e, dopo averle lette, ordinò che fossero fatte vedere ad un o de' nostri amici, del quale egli aveva gran de stima; e questi, essendosi nella cena un po' riscaldato pel vino, non approvò le lettere e disse che dovean esser rifatte. E Antonio a Bartolommeo de' Bardi, che si trovava presente, disse: «Io rifarò le lettere nello stesso modo con cui il sarto di Gian Galeazzo Visconti allargò a questo le brache; tornerò domani pria ch'egli abbia mangiato e bevuto, e le lettere andranno bene». Bartolommeo gli chiese che cosa volesse con ciò significare: «Giovan Galeazzo Visconti», disse Antonio, «padre del vecchio Duca di Milano, era uomo di grande statura, pingue e corpulento; spesso costui s'imbottiva il ventre di gran cibo e di abbondante vino, e quando dopo cena iva a coricarsi faceasi chiamare il sarto e questo acerbamente rimproverava perché gli avesse fatta troppo stretta la cintola delle brache, e gli imponeva di allargarla in modo da toglierli quella molestia; e il sarto rispondeva: Sarà fatto come voi comandate, domani andrà perfettarnente. Poi prendeva la veste, e l'attaccava senza fare altra cosa. E quando gli altri gli dicevano: Perché dunque non allarghi le brache che stringon troppo il ventre di monsignore? egli rispondeva: Perché monsignore si leverà dal letto che avrà digerito, si sgombrerà il ventre e le brache saranno larghissime. E alla mattina gliele portava e il duca diceva: Ora sta bene: non mi stringon da veruna parte». Nella stessa guisa affermava Antonio che le sue lettere sarebbero dopo il vino piaciute.


XVIII
LAMENTI CHE FURON FATTI A FACINO CANE PER CAUSA DI UN FURTO
Un tale andò a lamentarsi da Facino Cane, che fu un uomo crudele ed uno de' migliori capitani del nostro tempo, perché uno de' suoi soldati gli aveva per via rubato il mantello. E avendo visto Facino che egli era vestito di un bellissimo corpetto, gli chiese se questo egli avesse avuto il giorno in cui fu derubato. E l'altro rispose affermando. «Vattene adunque», disse Facino, «che colui che ti ha spogliato non può essere uno de' miei soldati; perché nessuno de' miei ti avrebbe lasciato codesto corpetto».


XIX
ESORTAZIONE DI UN CARDINALE A' SOLDATI DEL PAPA
Durante la guerra che il Cardinale Spagnuolo sostenne contro i nemici del Pontefice, quando un giorno i due eserciti si trovaron di fronte nell'Agro Piceno, e che dovevansi dar battaglia decisiva, il cardinale eccitava con molte preghiere i soldati al combattimento e affermava che coloro che vi fossero morti avrebbero pranzato con Dio e cogli angioli; e perché di miglior grado si facessero ammazzare, prometteva loro remissione di tutti i peccati. Poi, fatta questa esortazione, si ritirò lontano dalla pugna; e allora uno dei soldati: «Perché dunque», gli chiese, «non venite con noi a questo pranzo?» Ed egli: «Io non son solito di pranzare a quest'ora, non ho ancora appetito».


XX
RISPOSTA AL PATRIARCA
Il Patriarca di Gerusalemme, che dirigeva la cancelleria apostolica, avendo un giorno, per la discussione di una certa causa, radunati gli avvocati, rimproverò alcuno di questi con non so quali acerbe parole. E poiché Tommaso Biraco gli aveva risposto per tutti, il Patriarca, rivolto verso di lui, disse: «Avete una cattiva testa». E Biraco, ch era uomo faceto e pronto alla risposta: «Voi ben avete detto», rispose, «e nulla di più vero poteasi dire; perché se io avessi una buona testa, gli affari sarebbero in migliore stato, né sarebbe questa discussione necessaria». «Riconoscete adunque il vostro errore», disse il Patriarca. E Biraco: «Non parlo di me, ma della testa». Alludeva egli argutamente al Patriarca che era alla testa di tutti gli avvocati, il quale si sapeva aver la testa un po' dura.

XXI
DI PAPA URBANO VI
Un altro nello stesso modo scherzò con Urbano, che fu il sesto Papa di questo nome. Un giorno che egli un poco troppo acremente si opponeva non so per quale ragione al Pontefice: «Avete una cattiva testa», gli disse Urbano. «La stessa cosa», rispose, «dicono di voi gli uomini del popolo, padre santo.»


XXII
DI UN PRETE CHE IN LUOGO DI PARAMENTI SACERDOTALI PORTO' DEI CAPPONI AL VESCOVO
Un Vescovo di Arezzo, di nome Angelico, che io ho conosciuto, convocò una volta al Sinodo i sacerdoti della sua diocesi, ingiungendo che coloro che avessero qualche dignità vi andassero in cappa e cotta, che sono due ornamenti sacerdotali. Un prete, cui mancavano queste vesti, stavasi afflitto a casa sua, non sapendo dove le avesse potuto domandare. La serva, a vederlo pensieroso e col capo basso, gli chiese la ragione del dolore; ed egli le disse che il Vescovo aveva indetto di andare al Sinodo in cappa e cotta: «Ma voi, mio buon padrone», gli rispose la serva, «non conoscete la forza di quest'ordine. Non è la cappa e la cotta che il Vescovo domanda e che voi dovete portare, sibbene dei capponi cotti». Il prete cedette al consiglio della donna, e portando seco i capponi cotti, fu assai cortesemente ricevuto dal Vescovo, il quale diceva ridendo, che questo prete soltanto aveva ben capito l'ordine dell'editto.


XXIII
DI UN AMICO MIO CHE SI AFFLIGGEVA CHE MOLTI GLI ANDASSERO INNANZI CH'ERANO A LUI INFERIORI PER PROBITÀ E PER DOTTRINA
Nella Curia Romana domina quasi sempre la fortuna e rarissime volte solo vi trovano posto l'ingegno e la virtù; ma tutto si ha per ambizione o per intrigo, senza parlar del denaro, che in vero pare aver dominio su tutto il mondo. Un mio amico, che si affliggeva che molti gli andassero avanti a lui inferiori per probità e per dottrina, si lamentava con Angelotto Cardinale di San Marco, di non avere nessuna ricompensa della sua virtù e di vedersi posposto a chi non gli arrivava in nessuna cosa. E parlò degli studi che avea fatti e delle fatiche spese a studiare. Allora il Cardinale, sempre pronto a sferzare i vizi della Curia: «La vostra scienza e la vostra dottrina», gli disse, «non giovano a niente, e se volete essere ben accetto al Pontefice, disimparate ciò che sapete e apprendete i vizi che ignorate».


XXIV
DI UNA FEMMINA MATTA
Una femmina del mio paese, che pareva matta, era condotta da suo marito e da' parenti a una certa fattucchiera, per opera della quale credeasi di poterla curare; e per passare l'Arno la posero a cavalcioni dell'uomo più forte; ma ecco in questa ella imprese a muoversi sulle spalle dell'uomo similmente a' cani in calore, e a gridare ripetutamente: «Io voglio l'uomo, suvvia, datemi l'uomo». E con queste parole mostrò la ragion del suo male. Colui che la portava scoppiò a rider sì forte che cadde con la donna nell'acqua; e tutti gli altri ne risero, e conobbero che a medicar quel male non eravi bisogno d'incantesimi, ma di quell' altra cosa, e con questa sarebbe ella tornata in sanità; e volti verso il marito: «Tu, dissero, sei il miglior medico di tua moglie». E se ne tornarono tutti, e dopo che il marito fu seco e la contentò, ella tornò sana di mente. Questo, del resto, è il miglior rimedio della pazzia delle donne.


XXV
DI UNA DONNA CHE STAVA SULLA RIVA DEL PO
Sopra una piccola nave recavasi a Ferrara, insieme con alcuni uomini della Curia, una di quelle donne che fan servizio agli uomini. Una donna allora che stava sulla riva del Po, disse: «Matti che voi siete; credete forse che a Ferrara vi sian per mancar meretrici, quando là ne troverete tante, più che donne oneste a Venezia?».


XXVI
DELL'ABATE DI SETTIMO
L'abate di Settimo, uomo pingue e corpulento, recavasi una sera a Firenze, e per la via chiese ad un villano per qual porta dovesse egli entrare; l'abate intendeva di chiedere qual porta fosse aperta ancora per venire nella città. E il villano, scherzando su la grossezza dell'abate: «Se passa un carro di fieno», disse, «penso che anche voi passerete la porta».


XXVII
LA SORELLA DI UN CITTADINO DI COSTANZA È GRAVIDA
Per dimostrare quanta libertà molti si godessero al Concilio di Costanza, un nobile vescovo di Brittania raccontò il fatto seguente: «Vi fu», disse, «un cittadino di Costanza, la sorella del quale era gravida, per quanto non avesse marito; ed egli, quando s'accorse della grossezza del ventre, afferrata una spada, e minacciandola di ucciderla, chiese che cosa ciò fosse, e donde provenisse. Atterrita allora la fanciulla, rispose che era opera del Concilio e che di questo ella era gravida: e quando queste cose il fratello ebbe udite e per riverenza e per timor del Concilio non punì la sorella; e mentre tutti gli altri vi cercavano tante diverse libertà, egli fra queste poneva per prima quella di fare all'amore».


XXVIII
DETTO DI LORENZO PRETE ROMANO
Il giorno in cui il Papa Eugenio fece cardinale il romano Angelotto, un prete della città, di animo ilare e che aveva nome Lorenzo, tornò a casa giubilante, tutto pieno di letizia e di riso; e quando i vicini gli chiesero che cosa di nuovo gli fosse venuto, che egli era così lieto e vivace: «Stupendamente», rispose, «ho io adesso le più grandi speranze; e poiché gli sciocchi ed i matti si fanno cardinale, e Angelotto è più matto di me, così verrò io stesso della sacra porpora insignito».


XXIX
CONVERSAZIONE CON NICCOLO' D'ANAGNI
Anche Niccolò d'Anagni quasi in questo stesso modo rise di Papa Eugenio, il quale, egli diceva, non favoriva che gli ignoranti e gli stolti. Un dì che in parecchi eravamo al palazzo, e si discorreva in varie cose, come si fa, ed alcuni si lamentavano della iniqua fortuna, e di averla sempre avversa ne' loro affari, Niccolò, ch'era uomo dottissimo, per quanto di ingegno leggiero, e di lingua mordace: «Non vi è», disse, «nessuno al mondo, cui più che a me sia stata la fortuna nemica; in questo tempo, nel quale è la stoltezza che regna, noi vediamo tutti i giorni elevati alle più ampie dignità ed a' maggiori offici e i dementi e gli sciocchi; e fra essi fino Angelotto vedemmo. Io soltanto sono fra il numero de' dementi lasciato in disparte, io solo posso essere cosi maltrattato dalla sorte».


XXX
DI UN PRODIGIO
Quest'anno la natura ha fatto nascere molti mostri in diversi luoghi. Nel territorio di Sinigalia, che è nel Picentino, una vacca ha partorito un dragone di meravigliosa grandezza. Aveva la testa più grossa di quella d'un vitello, il collo lungo come un braccio, e il corpo come quello di un cane, ma più lungo; quando l'ebbe fatto, la vacca si volse, e vedutolo, diede in un gran muggito e voleva fuggire, e il dragone s'alzò, le avvinghiò le gambe di dietro con la coda, avvicinò la bocca alle mammelle, e vi succhiò il latte; poi, lasciata la vacca, si fuggì nella foresta vicina; dopo ciò, le mammelle, e quella parte delle gambe ch'era stata tocca dal dragone, rimasero nere e come bruciate per molto tempo. Questo hanno affermato i pastori, giacché quella vacca era di un armento; e dissero ancora che di poi la vacca aveva fatto un altro vitello. Questo è annunziato in una lettera che vien da Ferrara.


XXXI ALTRO PRODIGIO DI CUI MI HA NARRATO UGO DA SIENA
Il celebre Ugo da Siena, che è il primo medico del nostro tempo, mi ha narrato che a Ferrara è nato un gatto con due teste e che egli lo ha veduto.

XXXII
ALTRO PRODIGIO
Si sa che anche in quel di Padova, nel mese di giugno, nacque un vitello con due teste, con un sol corpo e con le quattro gambe raddoppiate, benché fossero congiunte. Questo mostro portavano intorno per guadagnare, e molti affermano di averlo veduto.


XXXIII
DI UN ALTRO MOSTRO
Ed è anche certo che fu recata a Ferrara l'immagine di un mostro di mare che fu trovato su la costa di Dalmazia. Aveva il corpo d'uomo fin all'ombellico, poi era pesce, così che finiva biforcandosi. Aveva la barba lunga, e come due corna gli uscivano di sopra le orecchie, le mammelle grosse, la bocca larga, le mani con sole quattro dita, e dalle mani alle ascelle e al basso ventre si stendevano ali di pesce con le quali nuotava; e in questo modo narravano di averlo preso: molte donne stavano a lavare pannolini alla spiaggia; quel pesce, spinto dalla fame, dicono che ad una di esse si avvicinasse e tentasse di afferrarla per le mani; non eravi molt'acqua, ed ella lottando, con grandi grida chiamò le altre in soccorso; accorsero cinque di esse e giacché non potea più tornare il mostro nell'acqua, con bastoni e con pietre l'uccisero, e trattolo alla riva fe' loro gran paura. Aveva il corpo un po' più lungo e più grosso di un uomo, da quanto si vedeva nell'incisione in legno che ci portarono a Ferrara. E che fosse per divorar la donna che esso l'aveva afferrata, ne fece fede il fatto che alcuni fanciulli, che in differenti tempi eran venuti per lavarsi alla spiaggia, non tornarono più mai, e questi dopo il fatto si credette che il mostro avesse presi ed uccisi.


XXXIV
GRAZIOSA FACEZIA DI UN COMMEDIANTE SU PAPA BONIFAZIO
Bonifazio, nono Papa di questo nome, fu napoletano e della famiglia Tomacelli. Ora volgarmente diconsi «tomacelli» certi fegatelli di porco tritati moltissimo e fasciati nel grasso di quell'animale. Nell'anno secondo del suo pontificato, Bonifazio si recò a Perugia; erano con lui i fratelli e molti altri della famiglia, i quali, come avviene, per cupidigia di beni e di guadagno si erano stretti dintorno a lui. All'entrata nella città Bonifazio era seguito da una scorta di alti personaggi, e fra questi erano i fratelli e gli altri membri della famiglia, e i curiosi chiedeano i nomi di coloro che componevano il seguito; e si sentiva d'ogni parte rispondere: «Questo è Andrea Tomacello», poi: «Questo è Giovanni Tomacello»; e così molto spesso la parola Tomacelli si andava ripetendo. «Oh! oh!», disse un uomo allegro, «doveva esser ben grosso quel fegato di porco dal quale son venuti tanti tomacelli e così grandi!».


XXXVI
DI UN CURATO GHE SEPPELLI' UN CAGNOLO
Eravi in Toscana un curato di campagna assai ricco, e mortogli un cagnuolo che egli aveva molto caro, lo seppellì nel cimitero. Venne ciò alle orecchie del Vescovo, che, desideroso del denaro del curato, fece questo a sé chiamare come reo di altissimo delitto; e il prete, che conosceva l'animo del Vescovo, vi andò recando seco cinquanta ducati. Il Vescovo, vistolo innanzi a sé, lo rimproverò gravemente della sepoltura data al cane e co mandò fosse tratto in prigione: «Padre mio», disse il prete furbo, «se voi aveste conosciuta quanta intelligenza aveva il cagnuolo, non sareste ora così meravigliato che egli abbia avuta sepoltura con gli uomini; perché egli tanto in vita quanto in morte ebbe assai più ingegno di un uomo». «Che vuol dir ciò?», chiese il Vescovo. «Egli», rispose il curato, «agli ultimi della vita fece testamento, e conoscendo la povertà vostra, vi lasciò cinquanta ducati che io ho qui meco». E il Vescovo allora approvò e il testamento e la sepoltura, prese il denaro, ed assolse il prete.
XXXVI

DI UN SIGNOROTTO CHE INGIUSTAMENTE

ACCUSO' UN UOMO RICCO

In un borgo del Picentino chiamato Cingoli, era un uomo molto danaroso; e quando venne ciò a conoscenza del signore del luogo, questi a fine di togliersi il danaro, cercò pretesto di un delitto; e chiamatolo a sé, gli disse che e' lo riteneva reo di lesa maestà; e poi che l'altro rispondeva di non aver mai fatta alcuna cosa contro lo Stato e contro la dignità del signore, questi insisteva nella accusa, concludendo che doveva essere egli punito nel capo; il poveruomo gli chiese che cosa avesse egli alla fine fatto. «Tu», gli rispose il signore, «hai tenuto in casa nascosti i miei nemici e i ribelli che cospirarono contro di me». E quello capì finalmente che il signore voleva il suo denaro, e amando meglio di perder questo che la vita: «Sì, monsignore», rispose, «è vero ciò che voi dite; ma datemi con me alcuno degli uomini vostri, che que' nemici e ribelli vi darò tosto nelle mani». E mandati alcuni fanti alla casa, l'uomo li condusse alla cassa in cui era il danaro, e apertala: «Prendete subito questi denari», disse, «che non solo del signore nostro, ma pur di me sono nemici acerrimi e ribelli». E quando il signore li ebbe avuti, l'uomo sfuggì a ogni pena.
XXXVII

DI UN FRATE CHE FECE ASSAI BREVE SERMONE

In un borgo delle nostre campagne, molti erano e da molte parti convenuti alla festa, ed era quella di Santo Stefano. Un frate doveva, com'e di costumanza, fare il sermone al pubblico; l'ora era tarda, i preti avean fame, e quando il frate salì sul pergamo, un prete, quindi un altro, lo pregarono all'orecchio, di parlare assai brevemente. Ed egli si lasciò facilmente persuadere. Dopo il breve esordio d'uso: «Fratelli miei», disse, «l'anno passato da questo stesso luogo, allo stesso uditorio, parlai della santità della vita e dei miracoli di questo Santo nostro, e nulla omisi di quelle cose che io udii narrare di lui, o che si trovano scritte ne' sacri libri; e credo che voi ne conserverete memoria. Ma dopo, poiché non ho udito dire che egli abbia fatto nulla di nuovo, fatto il segno della croce, recitate il Confiteor e le preci che seguono». E, ciò detto, discese.
XXXVIII

GRAZIOSISSIMO CONSIGLIO DI MINACCIO A UN VILLANO

Un villano, che era salito sopra un castagno per raccogliervi i frutti, cadde e si ruppe una costola; e venne a consolarlo un certo Minaccio, che era uomo molto allegro, e fra le cose che gli disse, gli die' ancora un consiglio per non cadere mai più dagli alberi: «Avrei voluto saperlo prima», disse il malato, «ma tuttavia questo potrà altra volta giovarmi». «Ebbene», disse Minaccio, «fa in modo di non discendere giammai con maggior fretta di quella con la quale tu sei salito; ma discendi con l'eguale lentezza con cui sei salito; a questo patto tu non potrai mai cadere».
XXXIX

RISPOSTA DELLO STESSO MINACCIO

Lo stesso Minaccio, che era assai povero, avendo un giorno al giuoco dei dadi perduto qualche moneta e la veste, si era seduto piangendo alla porta di non so qual taverna. E un amico che lo vide in lacrime: «Che cosa hai, tu che piangi? «gli chiese. E Minaccio: «Niente», rispose. «Per ché dunque piangi, se non hai niente? «Per questo soltanto, che non ho niente». E l'altro meravigliato: «Ma perché, se non hai niente, piangi?» «Appunto per questa ragione», rispose, «che io niente posseggo». Quello credeva che egli piangesse per una causa da niente; questo piangeva perché niente gli era rimasto dal giuoco.
XL

DI UN POVERO GUERCIO CHE ERA ANDATO

PER COMPRAR FRUMENTO

Al tempo della grande carestia a Firenze, un povero guercio andò in piazza, a comprare, diceva, qualche sestario di frumento; e quando si fu informato del prezzo, sopraggiunse un altro, che gli chiese a quanto si vendesse al sestario il frumento: «Un occhio», rispose, volendo con ciò significare il caro prezzo dei viveri. Questo udì un monello presente, che saltò su a dire: «Perché dunque hai preso teco un sacco così grande, quando tu non puoi comperarne che un sestario solo ?».
XLI

DI UN UOMO CHE CHIESE PERDONO A SUA MOGLIE MALATA

Un uomo consolava sua moglie al letto di morte, e le ricordava che egli si era sempre mostrato buon marito e le chiedeva perdono se mai qualche cosa le avesse fatto di male; e disse ancora che, fra gli altri uffici maritali, egli non aveva giammai trascurato quello del letto, fuori che in quel tempo in cui era malata, perché quel lavoro non l'affaticasse. Allora la donna, benché malata, prese a dirgli: «Oh, davvero che di ciò non potrò io mai perdonarti; perché in nessun tempo fui io tanto malata, da non poter comodamente giacere». Che gli uomini adunque faccian l'opera loro, per non dover mai chiedere alla moglie perdono come questo, che esse a buon diritto potrebbero negare.
XLII

DI UNA GIOVINETTA CHE ACCUSAVA IL MARITO

DI ESSERE POCO FORNITO

Un giovane nobile e bello condusse in moglie la figlia di Nereo de' Pazzi cavaliere fiorentino, che fu, tra gli altri del suo tempo, uomo eminente ed egregio. Dopo alcuni giorni, tornò ella, com'è costume, alla casa paterna, ma non vivace e lieta, come sogliono essere le altre, ma mesta e pallida e con gli occhi bassi. E la madre la chiamò in una camera e in segreto le chiese se ogni cosa fosse andata bene, e la fanciulla lacrimando rispose: «Come vuoi, ma tu non m'hai sposata ad un uomo, sì ad uno che non è uomo; che cioè ha nulla o poco assai di quell'arnese pel quale si va a marito». La madre, afflitta assai della sventura della figlia, raccontò tutto al marito, e la cosa, come avviene, in poco tempo si divulgò fra' congiunti e le donne che erano state invitate al banchetto, e si riempì a tale nuova la casa di lacrime e di lagni, perché si diceva quella bella fanciulla non era stata maritata, ma sacrificata. Finalmente giunse il marito in onor del quale si imbandiva il convito, e quando vide tutti col volto lacrimoso ed afflitto, meravigliato della strana cosa, chiese che novità avvenuta mai fosse. Nessuno osava confessare la causa di quel dolore, finché finalmente uno più franco disse che la fanciulla aveva riferito che egli era poco provvisto dei beni maritali. «Non può essere questa», egli disse, «la ragione della vostra afflizione e per la quale non si vada al banchetto; però questa accusa mi verrà presto tolta». Erano già a tavola tanto gli uomini quanto le donne, e aveano già mangiato quando il giovane si alzò: «Miei cari parenti», disse, «sento accusarmi di una cosa della quale io vi chiamo giudici», e in questa mise fuori un ordegno di bellissima forma (poiché allora si usavano vestimenta corte) e lo pose sulla tavola e chiese agli astanti, che s'eran commossi per la novità e per la grandezza della cosa, se potevasi di esso lamentare o rifiutarlo. La maggior parte delle donne desideravano che i loro mariti avessero altrettanta abbondanza. Molti uomini si sentivano da quel tale arnese superati, tutti rivolti verso la giovinetta la rimproveravano della sua sciocchezza. «Perché tanto biasimarmi», diss'ella, «perché tanto riprendermi? Il nostro asino, che l'altro dì vidi alla campagna, non è che una bestia e ne ha tanto (e in questa distese il braccio), e questo mio marito che è un uomo non ne ha la metà». Credeva l'ingenua fanciulla che gli uomini ne dovessero aver di più delle bestie.
XLIII

DI UN PREDICATORE CHE PREFERIVA DIECI VERGINI

A UNA DONNA MARITATA

Al popolo di Tivoli predicava un frate assai poco circospetto, e con molte parole si scagliava contro l'adulterio, e questo abbominava, e disse, fra le altre cose, che era peccato talmente grave, che egli avrebbe preferito d'aver piuttosto dieci vergini di quello che una sola donna maritata. Molti che erano presenti erano dello stesso parere.
XLIV

DI PAOLO CHE MOSSE LA VOGLIA DI ALCUNI IGNORANTI

Un altro predicatore che aveva nome Paolo e che io ho conosciuto, mentre faceva a Secia, città della Campania, un discorso contro la lussuria, disse che alcuni erano tanto lascivi e scostumati, che per aver maggiore il piacere nel coito mettevano un cuscino sotto alla moglie. Alcuni, che ignoravano la cosa, se ne invaghirono, e a casa ne fecero tosto l'esperimento.
XLV

DI UN CONFESSORE

Una giovane, che poi mi raccontò questa storia, andò una volta a confessare i suoi peccati, come si usa in quaresima. E fra le altre cose disse che non serbava fedeltà al marito. Allora il confessore, che era un frate acceso di desiderio, levò dalla tonaca un superbo cordone, eretto, e lo diede in mano alla giovane, supplicandola ad avergli misericordia. Ella se ne andò, coperta di rossore, e alla madre che era lì presso e che gliene chiese la ragione, narrò della preghiera che le aveva fatta il confessore.
XLVI

GRAZIOSA RISPOSTA DI UNA DONNA

Una donna, alla quale il marito spesso chiedeva, per qual ragione, se uguale nell'uomo e nella donna era il piacere del coito, fossero piuttosto gli uomini che seguivano e sollecitavano le donne, di quello che queste gli uomini, rispose: «Questo è stabilito con molto senno, che noi non siamo che cerchiamo gli uomini. È provato che noi donne siamo sempre pronte alla faccenda, voi uomini no. E noi pertanto chiederemmo invano agli uomini quando questi non fossero all'ordine». Acuta e graziosa risposta.
XLVII

DI UN FRATE QUESTUANTE CHE IN TEMPO DI GUERRA

PARLO' DI PACE A BERNARDO

Nella guerra ultima, che i Fiorentini fecero all'ultimo Duca di Milano, era decretato che se alcuno avesse parlato di far la pace fosse punito di morte. Bernardo Manetti che era uomo di ingegno vivacissimo, trovavasi un giorno al Mercato vecchio per comprare non so che cosa, quando gli si fe' innanzi uno di quei frati che vanno per le vie alla questua e che stanno ne' trivii alcun che in elemosina chiedendo pe' loro bisogni. E innanzi di chiedergli l'elemosina, gli disse: «Pax tibi»; e allora Bernardo: «A che parlasti di pace? Non sai tu che va della testa a parlare di pace? Me ne vado», soggiunse, «perché non mi prendano per complice tuo». E così se ne andò, sfuggendo le molestie di quell'importuno.
XLVIII

ISTORIA DI FRANCESCO FILELFO

Eravamo fra amici e si parlava delle pene da infliggersi alle mogli infedeli. Bonifazio Salutati disse che la migliore di tutte era, secondo lui, quella della quale un bolognese amico suo minacciava sua moglie. E poi che noi gli chiedemmo quale essa fosse: «Fuvvi», diss'egli, «un bolognese, uomo molto stimabile, il quale si ebbe una moglie piuttosto generosa, e che qualche volta fu anche meco cortese. Una notte andavo io alla sua casa, quando fuori udii i due sposi che avevano appiccata acerba lite; il marito rimproverava alla moglie la sua impudicizia; questa, come è costume delle sue pari, si difendeva negando; e allora il marito prese a gridare: «Giovanna, Giovanna, io non ti percoterò, non ti bastonerò, ma ti sarò tanto addosso, che empirò la casa di figli, poi ti lascerò sola con questi e me ne andrò». Ridemmo tutti di questa specie così perfetta di supplizio, col quale quello sciocco credeva di vendicarsi della infedeltà della moglie.
XLIX

ISTORIA DI UN SALTIMBANCO NARRATA DAL CARDINALE

DI BORDEAUX

Gregorio decimo secondo, prima di esser Papa e durante il conclave, e anche dopo, aveva fatto promessa di far molte cose per lo scisma che in quel tempo travagliava la chiesa, e per qualche tempo mantenne ciò che aveva promesso, fino a dire che piuttosto che mancarvi sarebbe egli disceso dal Pontificato. Poi si lasciò prendere dalla dolcezza del potere, mancò a' giuramenti e alle promesse, e nulla di quanto aveva detto mantenne. Il cardinale di Bordeaux, che era uomo di grave e grande esperienza, sopportava male questa cosa e un giorno me ne parlava: «Costui», disse, «ha fatto con noi come quel saltimbanco coi bolognesi, il quale avea promesso che avrebbe volato». Ed io lo pregai di raccontarmi la storia. «Poco tempo fa», egli disse, «fuvvi a Bologna un saltimbanco, che con un pubblico avviso annunziò che avrebbe volato da una torre che è verso il Ponte di S. Raffaele a circa un miglio dalla città. Nel dì stabilito il popolo tutto si raccolse in quel luogo, e il saltimbanco si burlò di tutti, lasciandoli al sole e alla fame fin quasi alla sera. Tutti eran sospesi e fissavan la torre, aspettando che l'uomo volasse. E quando egli si mostrava sulla torre ed agitava le ali come se stesse per volare, e pareva slanciarsi fuori, sorgeva un grande applauso nella folla che stava a bocca aperta a guardarlo. E il saltimbanco, dopo il tramonto del sole, tanto per far qualche cosa, voltò al popolo le spalle e gli mostrò il deretano. Così tutti quegli illusi, oppressi dalla fame e dalla noia, se ne tornarono di notte alla città: «nello stesso modo» concluse, «il Papa, dopo tante promesse, ci contenta ora mostrandoci le rotondità posteriori».
L

RISPOSTA DI RIDOLFO A BERNABO'

Si narra di una saggia risposta data da Ridolfo di Camerino. Era Bologna assediata da Bernabò della famiglia dei Visconti, signori di Milano; e Ridolfo, che era un uomo di senno nelle cose di guerra e in quelle della pace, era stato chiamato dal Papa a custodia della città, e si teneva egli dentro le mura a difenderla. Un giorno, in una piccola zuffa, che in una scorreria impegnarono alcuni, al di fuori, e nella quale non era Ridolfo, fu un cavaliere de' Bolognesi fatto prigione, e condotto al campo di Bernabò; e questi, tra le altre cose di cui lo richiese, gli domandò ancora del perché Ridolfo non uscisse a battaglia fuor dalle mura; e il cavaliere, dopo aver detto varie ragioni, fu rimesso in libertà e tornò a' suoi. Allora Ridolfo gli chiese che cosa si facesse nel campo de' nemici, e che gli avesse detto Bernabò, e quale era stata la risposta del cavaliere per scusare in vario modo che egli non fosse uscito dalla città: «E tu», disse allora, «hai molto male risposto: torna tosto da Bernabò e digli che Ridolfo non esce dalla città per impedire a lui d'entrarvi».
LI

ALTRA RISPOSTA FACETA DI RIDOLFO

Lo stesso Ridolfo, nella guerra che i Fiorentini fecero con Gregorio decimo, stavasi or dall'una or dall'altra parte. E interrogato del perché mutasse così spesso bandiera: «Perché», rispose, «non posso a lungo giacere su lo stesso fianco».
LII

COME I FIORENTINI ESPOSERO IL RITRATTO Dl RIDOLFO

COME DI UN TRADITORE

Dopo questo i Fiorentini lo tennero reo di tradimento e la sua effige, come quella del traditore fu posta ne' luoghi pubblici. Dopo qualche tempo egli, udito che i Fiorentini mandavangli messaggi di pace, il giorno in cui questi giunsero, si mise a letto, fe' chiudere le imposte e ordinò che lo coprissero di pellicce e per quanto corresse il mese d'agosto fece accendere il fuoco; e fece poi chiamar gli ambasciatori, i quali gli chiesero che male avesse: «Ho freddo», rispose, «perché sono stato per tanto tempo e anche di notte esposto all'aria sui vostri muri». Con questo egli alludeva alla pittura che i Fiorentini avevano esposta e che poi come condizione della pace venne tolta.
LIII

DI UN TAL CHE FERI' RIDOLFO TIRANDO L'ARCO

Alcuni cittadini di Camerino passavano un giorno il loro tempo esercitandosi fuor dalle mura al tiro dell'arco; e un tale mal destro lanciò la freccia e ferì lievemente Ridolfo, che assisteva di lontano. Costui fu preso, e, fra i vari pareri che si enunciavano su la pena da infliggergli, poiché in questa guisa ciascuno credeva di procurarsi la grazia del Principe, uno propose che gli si tagliasse la mano perché non tirasse più d'arco. Ridolfo comandò che lasciassero l'uomo, dicendo che quella sentenza sarebbe stata efficace se fosse stata eseguita prima ch'egli fosse ferito. Risposta piena d'umanità e di prudenza.
LIV

STORIA DI MANCINI

Mancini, che era un villano del mio borgo, recava carichi di frumento a Figline a some d'asini, che a questo fine egli spesso noleggiava. Una volta, tornando dal mercato, stanco del viaggio, montò su uno dei migliori asini e quando fu presso casa contò gli asini ch'erano innanzi a lui, e non tenendo conto di quello sul quale egli era, gli parve che ne mancasse uno. Angustiato per questo lasciò tutti gli asini alla moglie, dicendole di restituirli a' padroni. E sempre sull'asino tornò al mercato, che distava di là sette miglia, chiedendo ai passanti se per caso avessero trovato un asino smarrito. E poiché tutti negavano, tornò a casa la notte gemendo e lacrimando per averne uno perduto. Ma quando finalmente la moglie gli disse di scendere, s'accorse dell'asino che egli aveva con tanta fatica e così grave dolore cercato.
LV

DI COLUI CHE PORTAVA L'ARATRO SULLE SPALLE

Un altro villano, che aveva nome Pietro, uomo molto rozzo, dopo aver arato fino a mezzogiorno, stancati i buoi, stanco egli stesso per la fatica, ritornava al borgo; legò l'aratro sull'asino, mandò innanzi i bovi ed egli stesso montò sull'asino. Ma questo, carico di troppo peso, stava per cadervi sotto. Allora il villano discese, prese su le spalle l'aratro, poi rimontò sull'asino, dicendo: «Ora potrai camminare, perché non tu, ma io porto l'aratro».
LVI

ELEGANTE RISPOSTA DI DANTE POETA FIORENTINO

Dante Alighieri, nostro poeta fiorentino, fu per qualche tempo ospitato a Verona da Can della Scala, principe molto liberale. Alla sua Corte teneva questi un altro Cane, fiorentino, ignobile uomo, e imprudente e ignorante, non ad altro buono che alla burla ed al riso, e alle sciocchezze del quale (non poteansi chiamare invero facezie) Cane si dilettava tanto, che lo arricchiva di doni. Dante, che era uomo dottissimo, sapiente tanto quanto modesto, disprezzava naturalmente costui come un animale sciocco. Un giorno quel fiorentino venne fuori a dirgli: «Com'è che tu sei tanto miserabile e mendico, tu che sei creduto saggio e dotto, mentre che io sciocco ed ignorante son ricco?» E Dante a lui: «Quando io troverò un signore che mi rassomigli ed abbia il mio costume, come tu ne l'hai trovato, questo mi farà ricco». Grave e sapiente risposta! Ché sempre i signori si dilettano di coloro che li rassomigliano.
LVII

PIACEVOLE RISPOSTA DELLO STESSO POETA

Lo stesso Dante pranzava un giorno fra Cane della Scala il vecchio e il giovane, e i servi d'entrambi, per burlarsi di lui, gli gittarono tutte le ossa di nascosto dinanzi a' piedi; tolta la mensa, tutti si volsero verso di lui meravigliati che solo dinanzi a lui si vedessero le ossa. E Dante, che era pronto alla risposta: «Non v'è da far meraviglia», disse, «se i Cani mangiarono le ossa; io non sono un Cane».
LVIII

DI UNA DONNA OSTINATA

A CHIAMAR PIDOCCHIOSO IL MARITO

Si parlava un giorno della ostinazione delle donne, che è grande da far loro preferire la morte piuttosto che cedere: «Una donna dei nostri luoghi», disse uno, «che era sempre contro al marito, e respingeva rimproverandolo ogni sua parola, ostinandosi in ciò che aveva preso a dire, per essergli sempre al di sopra, ebbe un giorno con lui un grave alterco e lo chiamò pidocchioso: ed egli, perché ritrattasse la parola, la prese a legnate, a calci ed a pugni. E più glie ne dava, più essa chiamavalo pidocchioso. Stancatosi finalmente l'uomo di bastonarla, per vincerne l'ostinazione la calò per una fune nel pozzo, minacciandola d'annegarla se non avesse cessato di dire quelle parole; la femmina continuava, e anche coll'acqua alla gola, quella parola ripeteva. E l'uomo allora, perché ella non parlasse più, la lasciò andar giù nel pozzo, tentando se il pericolo della morte l'avesse guarita dall'ostinazione. Ma essa che non potea più parlare, anche quando stava per soffocare, non potendo più con la voce si esprimeva con le dita; e alzate le mani al di sopra del capo, e congiungendo le unghie dei pollici, finché poté, col gesto schiacciò i pidocchi all'uomo; perché le donne sogliono con le unghie di quelle dita schiacciare quegli animali».


LIX

DI UN UOMO CHE CERCAVA

SUA MOGLIE ANNEGATA NEL FIUME

Un altr'uomo, cui era morta la moglie nel fiume, andava contr'acqua a ricercarne il cadavere. Uno che lo vide rimase di ciò meravigliato e lo consigliò di andar secondo la corrente: «In questo modo», rispose l'uomo, « non potrebbe trovarsi; perché quando visse fu tanto contraddicente, e difficile, e contraria alle abitudini degli altri, che anche dopo morte essa andrà contro la corrente del fiume».
LX

DI UN VILLANO

Un servo del duca d'Orléans, uomo rozzo ed incolto, chiedeva al suo padrone che lo facesse nobile. In Francia ciò si può fare comperando dei possessi, e sulle loro terre conducono la vita dei nobili. E il Duca, che conosceva di che natura fosse l'uomo, gli disse: «Io ti potrò facilmente arricchire: ma farti nobile mai».
LXI

DI GUGLIELMO CHE AVEVA UN AFFARE ABBONDANTE

Nella città di Terranova eravi un uomo che aveva nome Guglielmo, che facea il falegname ed era assai ben provvisto dalla natura. E la moglie fortunata narrò la cosa alle vicine, e quando questa morì, condusse egli in moglie una giovinetta ingenua, che avea nome Antonia, e che quando fu sposa seppe dai vicini che arma potente possedesse il marito. Nella prima notte che ella fu col marito tremava assai, e voleva sfuggirlo né voleva lasciar fare. E l'uomo capì di che cosa avesse timore la ragazza, e per consolarla le disse che ciò che ella aveva udito dire era vero, ma che egli ne aveva due, uno più grande e uno più piccolo: «E di questo», soggiunse, «per non farti male, mi servirò questa notte; e vedrai che ti farà bene; poi se ti piacerà proveremo col più grande». La ragazza acconsentì e cedette senza pianto e senza dolore all'uomo. E dopo un mese, fattasi più franca e più audace, una notte, mentre accarezzava suo marito: «Amico mio», gli disse, «se ora ti volessi servire di quell'altro ch'è più grande? « E l'uomo, che ne avea quasi quanto un asino, rise dell'appetito della donna; e da lui una volta udii narrare, in compagnia, questa storia.
LXII

RISPOSTA D'UNA DONNA DI PISA

Fuvvi una donna di Pisa, detta Sambacharia, che fu assai pronta alla risposta. Un giorno le si avvicinò un burlone e per prendersi giuoco di lei le disse: «Il prepuzio dell'asino vi saluta». Ed essa pronta: «Oh! sembri appunto un suo ambasciatore». E, questo detto, gli volse le spalle.
LXIII

DETTO DI UNA MATRONA CHE VIDE ALLA FINESTRA

LE VESTI DI UNA CORTIGIANA

Una donna di mal affare aveva una mattina messe fuori dalla finestra le vestimenta che il ganzo le aveva donate. Una matrona che le vide nel passare: «Ecco» disse, «una donna che fa, come il ragno, la sua tela col culo, e mostra a tutti l'opera sua».
LXIV

AVVERTIMENTO DI UN TALE

Uno de' miei compaesani, nel tempo della vendemmia, fu pregato da un tale di dargli a prestito qualche tino. Ed egli rispose: «Se dò a mangiar tutto l'anno a mia moglie faccio questo per servirmene in Carnevale». E lo avvisò con questa risposta che non ponno chiedersi ad alcuno le cose che gli siano necessarie.
LXV

DETTO DI UN DI PERUGIA A SUA MOGLIE

Quelli di Perugia hanno fama di buoni e lieti uomini. Una donna di nome Petruccia pregò il marito di comprarle un par di scarpe nuove per andare il dì dopo alla festa. E il marito acconsentì, e al mattino prima di andarsene le disse di cuocergli una gallina pel pranzo. La moglie, preparato il pollo' uscì sulla porta, e vide passare un giovane che ella amava moltissimo, e, rientrata in casa, gli fe' cenno di seguirla, allora che il marito era lontano; e per non por tempo in mezzo, ascesa la scala, si gittò per terra, così che dalla porta potevasi vedere. E si fe' venir sopra il giovane, e strettolo con le cosce e co' piedi se la godevano allegramente. Il marito, frattanto, che credeva che la moglie fosse di già ita alla festa e non tornasse a casa che tardi, invitò un amico a pranzo, dicendogli che sua moglie non vi sarebbe stata. Giunti in casa, entrò pel primo il marito, e vista in cima alla scala la donna che moveva i piedi al disopra del giovane: «Ohé! Petruccia», le disse, «pel culo dell'asino! (è la maniera di bestemmiare) se gli è così che tu cammini, non consumerai mai le scarpe!».
LXVI

GRAZIOSISSIMO DETTO DI UN GIOVANE

Una villana lamentavasi un giorno che le sue oche non fossero in buono stato e diceva ch'esse eran state stregate dalle parole di una vicina, la quale, avendole lodate, non aggiunse: Dio ve le benedica, come il volgo suol dire. E un giovane, che udì questo lamento: «Ora comprendo», disse, «come la mia anitrella stia male e in questi giorni si sia fatta assai debole. Dopo che l'altro giorno la trovarono bella, e non vi aggiunsero
questa benedizione, credo che sia stata stregata perché non sollevò più la testa. Benedicila dunque, ti prego, perché riprenda il vigore di prima ».
LXVII

DI UNO STOLTO CHE, UDENDO UNO CHE IMITAVA LA SUA VOCE, CREDETTE D'ESSERE LUI STESSO CHE PARLAVA

Il padre d'un amico mio aveva relazione con la moglie di un uomo sciocco e balbuziente. Una volta ch'egli andava alla casa di lei, credendo che il marito fosse fuori, picchiò forte alla porta; e, simulando la voce del marito, chiamò la donna ad aprirgli. E quell'uomo sciocco, che era in casa, udita quella voce, prese a dire: «Va' dunque, apri, Giovanna; fallo entrare, Giovanna; perché mi par d'esser io che batto».
LVII

D'UN UOMO DEL CONTADO CHE AVEVA UN'OCA DA VENDERE

Un giovane del contado che recava a Firenze un'oca per venderla, s'incontrò in una donna che gli parve allegra e che ridendo gli chiese quanto costasse l'oca Ed egli: «La potrete pagar con poco». «Quanto?», chiese la donna. «Lasciatevi fare una volta sola». «Tu scherzi», disse la donna, «ma entra in casa e parleremo del prezzo». E entrato, rimanendo egli nello stesso avviso, la donna acconsentì. Ma dopo, poiché essa eragli stata di sopra, quando volle l'oca, egli la negò: «perché» e' diceva, «non foste voi che vi lasciaste fare, bensì voi che faceste». E così rinnovando la pugna, il giovane si giovò perfettamente della cosa. E la donna, com'erano convenuti, tornò a chiedergli l'oca e il giovane ricusò, dicendo che ora erano entrambi in pari condizione, e questa volta non si era essa guadagnata l'oca, ma avealo risarcito dell'affronto che gli aveva fatto; poiché la prima volta era stato di sotto. E la contesa durava a lungo, quando sopraggiunse il marito, che chiese la ragion dell'alterco. «Io», disse la moglie, volevo prepararti lautissima cena se questo maledett'uomo non l'impedisse. Aveva egli convenuto di darmi l'oca per venti soldi; poi, quando fu dentro me ne chiese due di più, «Eh! » disse il marito, «sarà per così poco turbata la nostra cena! prenditi, ecco i ventidue soldi!» Così il villano ebbe il denaro e la donna.
LXIX

DI UN AVARO CHE BEVVE IL PISCIO

Uno de' nostri colleghi della Curia, notissimo avaro, veniva, mentre i servi mangiavano, a bere il loro vino, per vedere se fosse abbastanza annacquato; e diceva di far ciò per vigilare che essi avessero sempre buon vino. Se ne accorsero alcuni e concertarono di mettere in tavola del piscio fresco in luogo del vino, in quell'ora nella quale aspettavano la sua venuta. Venne egli come di consueto, e bevve il piscio, e se ne andò sputando e vomitando, facendo gran rumore e uscendo in molte minacce contro chi gli aveva giocato quel tiro. E i servi finirono la cena fra le risa, e chi aveva immaginato lo scherzo me lo raccontò poi, che rideva ancora.
LXX

D'UN PASTORE CHE FECE FALSA CONFESSIONE

Un guardiano di pecore, di que' luoghi nel Napoletano ne' quali una volta eravi il brigantaggio, andò una volta a dire i suoi peccati ad un confessore, cadde a' piedi del sacerdote dicendogli, in lagrime: «Perdonatemi, padre, perché ho io gravemente peccato». E il prete gli disse di narrare questi peccati, ed egli ripeté più volte quelle parole come se avesse commesso peccato nefando, ed esortato dal sacerdote, disse che in giorno di digiuno, avendo fatto il cacio, gli caddero in bocca alcune gocce di latte che egli non aveva sputate. Ma il sacerdote, che conosceva i costumi del paese del penitente, sorrise, e poiché questi gli aveva detto che aveva commesso gravi peccati, non credette che ciò fosse soltanto per non aver osservata la quaresima e lo richiese se altra cosa più grave vi fosse. Negò il mandriano, e il prete gli chiese, se mai egli con altri pastori, com'è frequente in quelle regioni, non avesse spogliato ed assassinato qualche viandante. «Spessissimo», rispose il penitente, «ed in entrambe le cose sono come gli altri assai esperimentato; ma ciò», soggiunse, «presso di noi è cosa comune, che non turba la coscienza». E per quanto il confessore gli rimproverasse quei peccati come delitti gravissimi, egli tenne sempre come cosa di niun conto rubare ed assassinare un uomo, cose che presso di loro son quasi nell'uso, e credette che solo del latte dovea chieder perdono. Cattivissima cosa essendo l'abito del peccato, che fa credere piccole cose anche quelle che sono gravissime.
LXVIII

DI UN GIOCATORE CHE FU MESSO IN PRIGIONE

A Terranova sono stabilite alcune pene per coloro che giocano a, dadi. Uno che io conosco fu preso sul fatto, e caduto in pena, fu condotto in prigione. E quando gli si chiedeva perché fosse egli ivi chiuso, rispondeva: «Questo podestà nostro mi pose in carcere perché m'ero giocato il mio denaro. Che cosa avrebbe egli fatto se mi fossi giocato il suo? «
LXXII

DI UN PADRE CHE RIMPROVERAVA IL FIGLIO UBRIACO

Un padre, che molto spesso aveva rimproverata l'ubriachezza del figlio, visto una volta un ubriaco sulla strada, che giaceva turpemente, con tutte le cose scoperte, con una frotta di monelli intorno che l'irridevano, invitò il figliuolo ad assistere a così triste spettacolo, sperando che questo esempio, dal vizio dell'ubriachezza correggere lo potesse. Ma questo, veduto l'ubriaco, disse: «Ti prego, padre mio, di dirmi dov'è che si vende tal vino, per cui questo si è fatto ubriaco, perché di esso possa io gustar la dolcezza». E si mostrò commosso non dalla bruttezza dell'ubriaco, ma dal desiderio del vino.
LXXIII

DI UN GIOVANE DI PERUGIA

Anche Ispina, di Perugia, era un giovane di nobil casato, ma talmente dissoluto, ch'era di vergogna a tutti gli altri della famiglia. Simone Ceccolo, che era suo parente, uomo vecchio, di grande autorità e prudenza, lo chiamò un giorno a sé e con molti argomenti lo consigliò a mutar vita, facendogli brutta mostra de' vizi e lodandogli la virtù. Quando ebbe il vecchio finito: «Simone», disse il giovane, «voi avete parlato con eleganza e con precisione, come ad uomo eloquente si conviene; ma io su questo argomento udii ben cento e più eleganti sermoni, e pur tuttavia non volli mai alcuna cosa fare di ciò che essi dicevano». Non giovò più a quel di prima l'esempio, di quello che a costui un discorso.
LXXIV

DEL DUCA D'ANGIO, CHE MOSTRO' A RIDOLFO

UN RICCO TESORO

In compagnia di dotte persone si parlava un giorno della vanità di coloro che pongono tante cure a cercare ed a comprare le pietre preziose. E uno disse: «A ragione Ridolfo di Camerino mostrò al Duca d'Angiò la sua stoltezza a questo riguardo, quando ei viaggiava pel regno di Napoli. Un dì che Ridolfo era andato a visitare il duca negli accampamenti, mostrògli questi un tesoro molto prezioso, nel quale erano brillanti, perle, zafliri e tutte quelle pietre che si hanno in gran pregio. E Ridolfo, vedutele, chiese quanto quelle pietre costassero e a che fossero buone; il duca rispose ch'esse avevano gran valore, ma che nessun utile davano. E allora Ridolfo: Vi mostrerò, gli disse, due pietre che mi costano dieci fiorini e che mi dànno duecento fiorini l'anno; e condusse il duca, di questa cosa meravigliato, a un molino che egli aveva fatto costruire e gli mostrò due pietre da macina, dicendogli che queste per utilità e per valore le sue pietre preziose superavano».
LXXV

DELLO STESSO RIDOLFO

Questo stesso, ad un di Camerino, che per vedere il mondo voleva viaggiare, disse di andare fino a Macerata. E quando questi fu ritornato: «Tu», gli disse, «hai veduto tutto il mondo; perché», aggiunse egli, «nel mondo non vi sono che colline e vallate, montagne e pianure, terre coltivate ed incolte' boschi e foreste, e tutte queste cose in quel piccolo spazio sono contenute».
LXXVI

MOTTO ALLEGRO DI UN PERUGINO

Un Perugino aveva una botte di vino squisito, ma era essa assai piccola botte. Una volta un tale gli mandò a chieder del vino per un fanciullo con un vaso molto grande, ed egli, preso fra le mani il vaso, lo fiutò e disse: «Oh, come pute questo vaso! giammai io vi metterò dentro il mio vino. Va' dunque e riportalo a colui che t'ha mandato».
LXXVII

CONTESA DI DUE CORTIGIANE PER UNA PEZZA DI TELA

Due donne romane, che io ho conosciuto, di diversa età e bellezza, andarono un giorno alla casa di uno della Curia per dargli piacere e per averne guadagno. Questi sopra una di esse ripeté il colpo, sull'altra giocò una volta sola e perché non si reputasse rifiutata e perché tornasse da lui con la compagna; e quando se ne andarono, dié loro in dono una pezza di tela di lino, non indicando come dovessero farsi le parti. Quando furono per dividerla, sorse contesa fra le femmine, perché una ne volea metà perché in due eran esse venute. Entrambe diversi argomenti recarono, e una affermava di aver sopportata maggior fatica, l'altra diceva che tutte e due eran pari. Dalle parole vennero a' colpi e a combattimento di unghie e di capelli. S'interposero dapprima i vicini, poi i mariti, che ignoravano la ragion del litigio, e ognuna di esse asseriva che l'altra aveala per prima offesa. E poiché gli uomini fecer sue le cause delle donne, la lotta di queste passò a quelli, e la cosa venne a sassi ed a bastoni fino a che l'intervento de' passanti calmò la lotta. E gli uomini, tornati alle loro case, ignari delle cause della lite, serbaronsi rancore com'è dei romani. La tela è ancora presso un tale, come cosa non ancora decisa, ma di nascosto le donne trattano per dividerla. Si chiede dagli uomini della legge come sia il diritto.
LXXVIII

IL GALLO E LA VOLPE

La volpe una volta avea fame, e per ingannar le galline, che sotto la scorta del gallo erano ascese su di un albero al quale essa giungere non poteva, si fe' incontro cortesemente al gallo e lo salutò con affetto: «Che fai tu là in alto?», gli chiese. «Non hai dunque apprese le recenti no velle che per noi son tanto gradite?» «No», rispose il gallo, «dimmele». «Venni apposta e in fretta per dirtele. Si è fatto un gran congresso di animali, dove essi hanno statuita una perpetua pace fra di loro, così che non v'è più nulla a temere, né potremo più tenderci insidie, né farci ingiuria, ma godremo invece tutti pace e buona amicizia; ognuno d'ora innanzi potrà andar sicuro, anche solo, dove vorrà. Discendi adunque e festeggiamo insieme questo giorno». Ma il gallo, che aveva conosciuto l'inganno della volpe: «Tu, le disse, «m'hai recata grata novella e te ne ringrazio», e così dicendo sorse su le zampe e allungò il collo come chi guarda lontano e si meravigli: «E tu che guardi dunque?», chiese la volpe. «Guardo», rispose il gallo, «a due cani che vengono correndo a questa volta con le fauci spalancate». E allora la volpe tremante: «A rivederci», disse, «ché bisogna ch'io scappi innanzi ch'essi qui giungano»; e prese di fatti a fuggire. «Oh!»,disse il gallo, «perché te ne vai dunque, o che temi? se la pace è fatta, non devi tu aver paura». «Dubito», rispose la volpe, «che questi cani non abbian notizia del decreto di pace». E così l'inganno fu tolto coll'inganno.
LXXIX

DETTO GRAZIOSO

Un tale, un po' troppo libero nel parlare, un giorno discorreva alquanto licenziosamente nel palazzo del Pontefice, e accompagnava con gesti espressivi le sue parole. Un amico che lo vide: «Che fai ?», gli chiese, «ma non temi d'esser preso per matto?» Ed egli: «Questo sarebbe davvero per me gran vantaggio: perché solo a quella condizione potrei venire nel favore di coloro che governano, poiché questo è il tempo degli stolti, e questi soltanto han le mani negli affari».
LXXX

DISPUTA TRA UN FIORENTINO E UN VENEZIANO

I Veneziani avean concluso col Duca di Milano un trattato di pace duraturo per dieci anni. In questo tempo scoppiò la prima guerra tra' Fiorentini e il Duca, e poiché pareva che quelli avessero la peggio, i Veneziani, mentre il Duca nulla temeva da loro, per paura che egli superiore nella guerra non rivolgesse su di loro le forze sue, ruppero il patto ed occuparono Brescia. Qualche tempo dopo un Veneto venne fuori a dire: «Voialtri ci dovete la libertà; se siete liberi, lo siete per opera nostra». E il Fiorentino, per ribattere la iattanza del Veneto: «Non foste voi che ci faceste liberi, fummo noi che vi facemmo diventar traditori».
LXXXI

COMPARAZIONE DI ANTONIO LUSCO

Ciriaco d'Ancona, uomo verboso e troppo loquace, un dì che noi eravamo insieme, deplorava la caduta e la distruzione dell'Impero Romano, e pareva che di ciò si affliggesse assai. Allora Antonio Lusco, uomo dottissimo, ch'era presente, ridendo dello sciocco dolore di costui, disse: «E' mi fa ricordare quell'uomo di Milano che un dì di festa udì di que' cantori da piazza che cantano alla plebe le geste degli eroi; cantava costui della morte di Rolando, che era morto da ben settecento anni in battaglia, e quell'uomo prese a piangere a calde lagrime; e quando andò a casa, la moglie, che lo vide mesto e piangente, lo richiese qual novità gli fosse accaduta: Ah! moglie mia, disse, son morto! Amico mio, disse la moglie, che avversità ti colse ? Vieni dunque e consolati a cena. Ed egli continuava a piangere né voleva prender cibo; finalmente cedette alle preghiere della moglie e disse la causa del suo dolore: Non sai tu, che nuova ho io oggi udita? Quale mai? chiese la donna. Egli è morto Rolando, che era il solo che difendesse i Cristiani. La moglie si consolò della sciocca afflizione dell'uomo e lo poté finalmente persuadere a cenare».
LXXXII

DI UN CANTORE CHE DISSE CHE AVREBBE CANTATA

LA MORTE DI ETTORE

Un altro de' presenti narrò un'altra storia di simile stoltezza: «Un mio vicino», disse, «un
uomo di corto intelletto, stava un giorno ad udire uno di que' cantori, il quale alla fine, per invitare il pubblico ad udirlo di nuovo, disse che il dì dopo avrebbe cantata la morte di Ettore. Il nostro uomo, pria che il cantor se ne andasse, gli diede del denaro perché e' non uccidesse tanto presto Ettore, uomo così forte alla guerra. E il cantore rimise la morte d'Ettore all'altro giorno. E lo sciocco continuò a dargli denaro, sempre per allungar la vita all'Eroe. E quando fu a secco di monete, dové con gran dolore e con molto pianto ascoltar finalmente la narrazione della morte».
LXXXIII

DI UNA DONNA CHE SI MOSTRO' QUASI MORTA AL MARITO

Un buon uomo di Sarda, che è un borgo sulle nostre montagne, sorprese un giorno la moglie che con un altro godeva, ed essa prontamente si finse come morta, cadendo a terra simile del tutto ad una trapassata. Il marito le si fe' vicino, e, credendola morta, prese piangendo a farle fregagioni sul corpo. Ed essa gli occhi semichiusi, come se a poco a poco rinvenisse, rispose all'uomo che le chiedeva che cosa le fosse avvenuto, che aveva avuto gran paura. E poiché lo sciocco la consolava e le chiedeva che cosa volesse ella da lui: «Voglio», disse la donna, «che tu nulla abbia veduto», e appena che l'uomo ciò promise, tornò alla donna la salute.
LXXXIV

GIOCONDA RISPOSTA DI UN CAVALIERE DI FIRENZE

Rosso de' Ricci cavaliere fiorentino, uomo molto saggio e grave, aveva la moglie di nome Telda vecchia e brutta. E' gittò gli occhi su la serva che aveva in casa, ed avendola molte volte richiesta, questa riportò la cosa alla padrona; la quale la consigliò a consentire e a dargli ritrovo per una cert'ora in luogo buio, dove Telda venne di nascosto al posto della serva. Venne Rosso a quel luogo e per lungo tempo accarezzò la mo glie credendola la servente; poi, perché l'arma non era pronta, nulla poté fare. La moglie allora si scoprì: «Cavaliere da burla», esclamò, «se qui fosse stata la serva avresti ogni cosa felicemente compiuta». Ed egli: «Per Dio, Telda, moglie mia, questo mio amico ha miglior naso di me. Ché, appena ch'io ti ho toccata, credendo che tu fossi la serva, egli ha capito ch'eri carne cattiva e si ritirò dentro».
LXXXV

Dl UN CAVALIERE FIORENTINO CHE AVEVA

LA MOGLIE BISBETICA

Un cavalier fiorentino, di gran nobiltà, aveva una moglie molto bisbetica, e cattiva, la quale ogni dì andava dal suo confessore o, come suol dirsi, dal suo direttore di spirito, a raccontar de' vizi e delle liti del marito. E il confessore lo correggeva e rimproverava; e un giorno che la mo glie gli disse di rimetter la pace fra loro, egli invitò il marito a confessione de' peccati; la quale quando fosse fatta, non dubitava che la concordia fosse fra di loro tornata. Venne il cavaliere, e quando il frate lo invitò a narrargli i peccati: «Non ce n'è bisogno», rispose, «ché mia moglie vi ha detto assai volte quelli ch'io abbia commessi e molti altri ancora».
LXXXVI

D'UN EMPIRICO CHE CURAVA GLI ASINI

Fuvvi poco tempo fa a Firenze un uomo sicuro di sé ed audace, che non aveva alcun'arte. Avendo egli letto una volta da un medico il nome e la virtù di certe pillole che si diceva giovassero per molti mali, pensò risevolmente di diventar medico con quelle pillole soltanto' e fatto di esse un gran numero, uscì dalla città, e prese a vagare per i borghi e pel contado, professando l'arte del medico; e dava per tutte le malattie quelle pillole, e con questa cura, per caso, qualcuno riebbe la salute. S'era fra gli stolti divulgata la fama dello stolto, e un giorno un tale che aveva perduto l'asino venne da lui a chiedergli se aveva un rimedio per trovar l'asino. Egli disse che l'aveva, e gli diede ad inghiottire sei pillale. E quei le prese, e il dì dopo essendo uscito per cercar l'asino, dové per l'effetto delle pillole andar giù di strada per sgombrarsi il ventre; e venne per questa bisogna per caso in un canneto, dove avendo egli trovato l'asino che pascolava, portò al cielo le lodi e della scienza del medico e della virtù delle pillole. E dopo il fatto venivano d'ogni parte a quello i villani, fra i quali si era sparsa la fama delle medicine di un dottore che anche per trovar gli asini smarriti eran buone.
LXXXVII

RISPOSTA DI PIETRO DE EGHI

Una volta a Firenze, in una di quelle sedizioni nelle quali i cittadini fra loro combattevano per la ragion del governo, un capo di una parte era stato ucciso dagli avversari in un grave tumulto. Uno di coloro che di lontano vedeano gli uomini accorrere con le spade sguainate, chiese a chi gli era vicino che cosa laggiù si facesse, ed uno di questi, chiamato Pietro de Eghi, rispose: «Là si dividono il magistrato e gli uffici della città»; e l'altro rispose: «Poiché costan sì caro, io vi rifiuto», e se ne andò sul momento.
LXXXVIII

D'UN MEDICO

Cenavano una sera meco alcuni amici miei, uomini sempre pronti alla facezia, e mangiando narravano molte cose degne di riso, ed uno fra le altre narrò ridendo questa: «Cecchino, medico d'Arezzo, fu una volta chiamato a curare una bella giovanetta, che danzando s'era torto un ginocchio; e per accomodarlo, poiché gli fu d'uopo di toccare assai la coscia e la gamba della giovinetta, ch'erano morbide e bianchissime, gli avvenne di sentirselo eretto in modo da non poterlo più contenere nella veste. Poi quando si alzò sospirando, ed ella l'ebbe richiesto quanto voleva per la cura fattale, egli rispose che nulla ella dovevagli; e chiestagliene la ragione: Perché, disse il medico, siamo nell'opera pari: io ti dirizzai un membro, e tu a me, nello stesso modo, un altro».
LXXXIX

SCHERZO DI UN VENEZIANO CHE NON CONOBBE

IL SUO CAVALLO

Fra molti dotti uomini si parlava una volta della imbecillità e della stoltezza di molti. Antonio Lusco, uomo di grande amenità, raccontò che andando una volta da Roma a Vicenza, ebbe in sua compagnia un Veneziano che, da quel che pareva, non aveva molte volte cavalcato. Egli discese a Siena ad un albergo in cui erano moltissimi altri coi loro cavalli e alla mattina dopo, quando tutti stavano per riprendere il viaggio, il solo Veneziano rimaneva sulla porta seduto, oziando distratto; e Lusco, meravigliandosi della negligenza e della pigrizia di costui che quando tutti gli altri erano in sella, stavasi là solo seduto, lo avvertì che, se volea partir seco, montasse tosto a cavallo, e gli dicesse perché stava indugiando. Ed egli: «Io certamente desidero di venire con voi; ma non conosco affatto il mio cavallo fra gli altri; per questo io aspetto che tutti gli altri montino in sella, perché trovando poi nella stalla un cavallo solo, saprò ch'esso è mio». E Antonio, conosciuta la stoltezza del compagno di viaggio, lo aspettò per un po' di tempo affinché questo sciocco potesse prendere per suo l'ultimo cavallo rimasto.
XC

DETTO DI RAZELLO DA BOLOGNA

Quando si vuol mostrare disprezzo a qualcuno si ha l'uso di dire: «Ti lascerei cento volte in un giorno in pegno all'oste». Un tale, una volta, in una raccolta di gente, disse quella frase a Razello da Bologna, uomo prontissimo alla risposta, credendo di avvilire Razello e di dare a sé valore. E Razello a lui: «Ed io te lo concedo facilmente, perché solo le buone cose e che hanno grande prezzo possono accettarsi in pegno; ma tu che sei di condizione vile ed abietta, potresti girare per tutte le taverne, che non troveresti alcuno che ti prendesse in pegno neanche per un danaro»; e così dicendo ei fece ridere gli astanti, e ritorse con acerba risposta, l'acerbo detto di colui.
XCI

DI UN USURAIO VECCHIO CHE LASCIAVA IL MESTIERE PEL TIMORE

DI PERDERE QUELLO CHE AVEVA GUADAGNATO

Un amico esortava un usuraio, che era ormai vecchio, a lasciare il mestiere per pensare alla salute dell'anima e al riposo del corpo, e lo persuadeva con molti argomenti, fra i quali anche quello di riparare all'incresciosa ed infame vita che aveva condotto. E l'usuraio: «Come tu vuoi», disse, «smetterò cotesto mestiere, perché i miei crediti van tanto male, che per amore o per forza dovrò cessare». Ei dichiarava di lasciare l'usura non pel rimorso del peccato, ma per paura di rimettere ciò che guadagnato avea.
XCII

D'UNA MERETRICE MENDICANTE

Si era raccontata questa storia in compagnia di amici, quando uno di questi disse: «È un caso simile a quello di una meretrice vecchia (e ne aggiunse il nome) che ormai decrepita chiedeva l'elemosina, dicendo: Fate la carità a chi lasciò il peccato e il mestier di puttana. Un uomo ragguardevole le chiese un dì perché mendicasse: Che cosa volete ch'io faccia? nessuno mi vuol più, rispose. E l'uomo le disse: È dunque per necessità, non per volontà tua, che hai lasciato il peccato; perché ora non avresti più maniera di commetterne».
XCCIII

DI UN DOTTORE E D'UN IGNORANTE

Il Pontefice Martino era una volta co' suoi segretari e versava in argomenti giocondi il discorso, quando egli narrò come vi fosse un dottore in Bologna, il quale, avendo chiesto qualche cosa con troppa insistenza al legato, questi lo trattò da matto: «E quando», disse il dottore udito ciò, «avete voi conosciuto ch'io sia matto?». «In questo momento», rispose il legato. «E voi non pensate bene», rispose l'altro, «poiché io lo ero quando vi feci dottor nelle leggi civili, essendo voì di esse ignorante». Il legato era dottore, ma bensì poco dotto, e quello con queste parole gli mostra l'ignoranza sua.
XCIV

DETTO DEL VESCOVO DI ALETTO

Un altro, credo che fosse il Vescovo di Aletto, riportò il detto di un Romano: «Un cardinale di Napoli, uomo sciocco ed ignorante, un giorno che egli era stato dal Pontefice, incontrò un cittadino romano, ed ei rideva di continuo come era suo costume. Il cittadino chiese a un compagno per qual ragione quel cardinale ridesse, e avendo l'altro risposto di non conoscerla: «Certamente», disse, «egli ride della stoltezza del Pontefice che lo nominò Cardinale».
XCV

DETTO FACETO DI UN ABATE

E un altro raccontò due motti allegri di due oratori del Concilio di Costanza, che erano abati dell'ordine di San Benedetto; i quali, essendo andati in nome del Concilio da Pietro de Luna, che prima era riconosciuto come Pontefice dagli Spagnuoli e da' Francesi, quando questi li vide, disse che due corvi andavano a lui; risposero che non v'era da far meraviglia se due corvi si avvicinassero ad un cadavere buttato; volendo con ciò significargli che il Concilio lo aveva come un cadavere condannato.
XCVI

ARGUTO MOTTO

E nell'alterco ch'ebbero con lui sulla questione del Pontificato, avendo Pietro detto: «Qui è l'arca di Noè», volendo dire che in lui era il diritto della Sede Apostolica: «Nell'Arca di Noè», risposero, «v'erano molte bestie».
XCVII

COSE MIRABILI NARRATE DALL'AMANUENSE

Il mio copista Giovanni, tornato da quella regione che chiamasi Brittania, verso la metà di ottobre del penultimo anno del pontificato di Martino V, a tavola con me, raccontò alcune cose mirabili che egli, uomo dotto e incapace di menzogna, aveva vedute. Prima, che piovve sangue fra la Loira, il Berrv ed il Poitou, in modo che le pietre furono di quel sangue macchiate. E che questo sia spesso avvenuto lo mostran le storie, quindi meno meraviglioso può sembrare. Ma quello che dirò appresso io non l'avrei creduto, se ei non lo avesse affermato con giuramento. Nella festa degli Apostoli Pietro e Paolo che viene in giugno, disse che certi mietitori del suo paese, che il dì prima avevano non so qual fieno lasciato nel campo, disprezzando la solennità del giorno, per non perdere il fieno, andarono a raccoglierlo, e questo in un'ora sola poteano fare. Ma per volontà di Dio rimasero per lungo tempo nel campo a rimuovere il fieno, giorno e notte, senza né dormire né cibarsi. E molti giorni trascorsero ch'essi né poteano uscire dal campo né poteano quelli che si fermavano a guardare, credendoli pazzi, a loro avvicinarsi. E il copista affermò che egli stesso li aveva veduti, e non seppe poi dire ciò che appresso fosse loro avvenuto.
XCVIII

PUNIZIONE MERAVIGLIOSA DEL DISPREZZO DE' SANTI

Nello stesso modo un altro de' miei colleghi della Curia, che era di Rouen e aveva nome Rolet, narrò di aver visto un miracolo per il disprezzo delli Santi di Dio. «Eravi presso il castello della città una parrocchia dedicata al Beato Gottardo, e ricorrendo il giorno a lui dedicato, tutti i parrocchiani' com'è costume, con pompa e processioni vi accorrevano. Una giovane di un'altra parrocchia prese a schernirli e a deridere il nome del santo e le loro cerimonie, e disse, che per mostrare il suo disprezzo avrebbe filato, e prese difatto conocchia e fuso; e questi le si attaccarono alle mani e alle dita con gran dolore, e non si poteano togliere, e poiché la fanciulla era divenuta muta, co' gesti, perché colla voce non potea, mostrò il dolore e la cagione di esso. E fattasi una gran riunione di uomini, la condussero all'altare del santo che ella aveva offeso, e fatto il voto, le caddero fuso e conocchia dalle mani e riebbe la voce». Ciò mi disse era avvenuto nella sua parrocchia, e l'affermava con tanto calore, che io, per quanto non lo volessi credere, dovetti mostrare di fargli qualche fede.
XCIX

STORIA PIACEVOLE DI UN VECCHIO CHE PORTAVA

SULLE SPALLE L'ASINO

Si diceva un giorno fra i segretari del Papa, che coloro che cedono all'opinione del volgo sono soggetti alla più deplorevole servitù, perché non è mai possibile, essendo tanto vari i pareri, piacere a tutti che su diverse cose pensano diversamente. E, a questo proposito, uno de' presenti narrò la seguente storia, ch'ei diceva d'aver vista scritta e dipinta in Germania.
Disse che vi fu un vecchio, che col figlio giovinetto si spingeano innanzi un asino senza so ma, che essi volevano vendere al mercato. Lungo la strada, alcuni che stavano lavorando ne' campi, rimproverarono il vecchio perché su quell'asino senza peso non montasse né il padre né il figlio, ma lo lasciassero andare in quel modo, mentre che uno per la vecchiaia, l'altro per la tenera età, abbisognavano di non affaticarsi. E il vecchio allora mise sull'asino il fanciullo e continuò il viaggio a piedi. Altri che li videro gridarono contro la stoltezza del vecchio, che aveva posto il ragazzo che era più forte sull'asino, ed egli, debole per l'età, li seguiva a piedi. E mutato d'avviso, fe' scendere il fanciullo e montò egli stesso sull'asino. Dopo un po' di cammino, udì altri che gli facean colpa di star egli che era il padre su l'asino, e di trascinarsi dietro, come servo, il figliuolo, non avendo nessun riguardo alla sua età. Ed egli, persuaso di queste parole, fe' salire seco il giovinetto sull'asino, e così proseguì per la via; e lungo questa, un altro gli chiese se suo fosse l'asino, e avendo egli affermato che suo era, l'altro gli diede rimprovero di averne tanta cura come se d'altri fosse, caricandolo di soverchio peso, essendo che uno fosse bastato. Quest'uomo, per tante e varie opinioni non si contenne più, e poiché non poteva far la sua strada, né coll'asino senza peso, né con uno di loro, né con entrambi sopra di esso, legò i piedi dell'asino e li infilò in un bastone e questo pose sulle spalle sue e del figlio e andò in questo modo al mercato. E poiché tutti per la novità del caso scoppiavano dalle risa, e gridavano contro la stoltezza di entrambi e specialmente del padre, questo, che era sulla riva di un fiume, gittò l'asino legato nel fiume, e così perduto l'asino tornò a casa. Per tal modo il buon uomo, che volle accondiscendere alle opinioni di tutti, non contentò alcuno e perdé l'asino.
C

LA MAGGIOR BALORDAGGINE D'UN UOMO

Un giorno, al cospetto de' Priori di Firenze, si leggeva una lettera che diceva di un certo tale, che era assai poco bene accetto al Governo. E poi che il nome di costui molto spesso occorreva nella lettera suddetta, così avveniva che a quel nome si aggiungesse il prefato; per esempio, il prefato Paolo. Uno di coloro che erano presenti, ignorante delle lettere, credendo che quella parola valesse onore, e che nel vocabolo prefato si contenesse gran lode come se di prudentissimo o di sapientissimo, prese tosto a protestare quella essere cosa indegna, che un uomo malvagio, nemico della patria, dovesse chiamarsi prefato.
CI

ALTRA BALORDAGGINE

Nello stesso modo un mio compaesano chiamato Matteozio, uomo assai rozzo, fece ridere molto. In un giorno di festa, ad un pranzo di sacerdoti, a' preparativi del quale egli insieme con altri aveva presieduto, quando si fu alla fine, poiché molti di essi erano venuti di lontano, egli come più vecchio ebbe incarico di ringraziarli, e disse in questo modo: «Padri miei, vogliate perdonarci se qualche cosa vi è mancata; non facemmo noi ciò che dovevamo fare, ma bensì a misura delle facoltà nostre abbiamo trattati voi a seconda della vostra ignoranza». Credeva il rozzo uomo, che cercava di chiudere il discorso con qualche grossa parola, di avere così dette le loro doti come se avesse detto o Prudenza o Sapienza.
CII

DI UN VECCHIO DALLA BARBA LUNGA

Antonio Lusco, che fu il più dotto e il più cortese degli uomini, ci raccontò una volta, discorrendo dopo pranzo, questa storia ridicola: «È un modo comune di dire, che quando alcuno fa rumore di ventre dica con quelli che sono presenti: Alla barba di chi non deve niente ad alcuno. Un vecchio di Vicenza che aveva la barba oltremodo lunga, fu chiamato in giudizio da un suo creditore, dinanzi al governatore della città, che era Ugolotto Biancardo, uomo dotto e severo. Il vecchio prese dinanzi al giudice a protestare, agitato, ch'egli non era di alcuna cosa debitore, ch'egli non doveva nulla a nessuno. Vattene lungi subito, disse Ugolotto, e allontana da noi questa tua fetente barba che muove a schifo col malo odore che manda. E il vecchio, meravigliato, avendo chiesto per qual ragione puzzasse essa così fortemente: Ci hanno detto, disse Ugolotto, che tutte le bombe che escano mai dal ventre degli uomini siano mandate alla barba di colui che non deve cosa a nessuno. Egli con queste parole punì molto graziosamente la iattanza del vecchio, facendo ridere tutti coloro che erano presenti».
CIII

STORIA DI UN NOTAIO NARRATA DA CERTO CARLO DA BOLOGNA

Eravamo a cena nel palazzo del Pontefice in molti, fra i quali erano ancora alcuni segretari e il discorso cadde sull'ignoranza di coloro, i quali non attingono altra scienza o dottrina fuori dalle formule scritte, né sanno dare di queste alcuna ragione, ma dicono soltanto che così trovarono scritto dai loro maggiori. Carlo da Bologna, che era uomo molto gioviale, venne fuori a dire: Costoro sono simili ad un certo notaro della città (e ne disse il nome); vennero a questi due uomini per fare un contratto di vendita, ed egli, presa la penna per cominciare a scrivere, chiese i loro nomi; e quando quelli dissero che uno aveva nome Giovanni e l'altro Filippo, il notaro subito disse che l'istrumento (ché così si chiama) non potea farsi fra loro. E avendone essi chiesta la ragione: Se il venditore, rispose, non si chiama Corrado e il compratore Tizio (questi erano i nomi che egli aveva imparati nella formula), questo contratto non si può rogare né può stare in diritto. E poiché essi dissero che non poteano mutarsi il nome, ed il notaro rimase nella sua opinione, perché così era scritto nelle sue formule, quelli se ne andarono. E andarono da un altro, abbandonando quell'uomo sciocco, che credeva di commettere delitto di falsità se mutava i nomi che erano scritti nelle sue formule».
CIV

DI UN DOTTORE DI FIRENZE CHE MANDATO AD UNA REGINA

LE CHIESE DI DORMIR SECO

E venne di poi il discorso su la stoltezza di coloro che mandano ambasciatori ai principi; e se ne erano nominati alcuni, quando Antonio Lusco disse ridendo: «Non avete mai udito parlare della temerarità di quel Fiorentino (e mi guardò) che il popolo di Firenze mandò a Giovanna che fu regina di Napoli? Egli aveva nome Francesco ed era dottore nelle leggi, per quanto fosse molto ignorante. Egli disse la ragione della sua missione alla regina, e invitato a venire il giorno dopo, seppe frattanto che essa non disprezzava gli uomini, specialmente se erano belli, e venne il dì dopo alla regina, e dopo averle parlato di molte e varie cose, le disse finalmente di voler parlare solo con lei di cose segrete. E la regina chiamò l'uomo in una stanza separata, credendo che e' dovesse dirle cose occulte che non potessero comunicarsi alla presenza di molta gente, e quello stolto, che era moltissimo persuaso della propria bellezza, chiese alla regina di dormir seco. Allora questa, senza turbarsi, e fissando in volto l'uomo: Forse che, disse, i Fiorentini vi hanno dato anche questo incarico? E senza sdegno gli comandò di andarsene e di tornare solo quando fosse incaricato di quella cosa, poiché egli si era fatto rosso in viso e non sapea più che dire».
CV

DI UN UOMO CHE VIDE IL DIAVOLO SOTTO L'ASPETTO

DI UNA DONNA

Cencio, romano, che era uomo molto sapiente, mi raccontò molte volte la storia che non è da prendersi a beffe, la quale un suo vicino, che non era uno sciocco, diceva che gli era accaduta. Ed è questa: «Una volta egli s'alzò dal letto che splendeva la luna, e poiché la notte era serena, credette che fosse l'alba e uscì per andare alla sua vigna, com'è costume de' Romani di coltivar con amore le vigne. Uscito dalla porta d'Ostia (per uscire dovette pregare i custodi che glie la aprissero) vide andare innanzi a sé una donna; e credendo che ella andasse per divozione verso San Paolo, ardendo egli di gran desiderio, affrettò il passo per raggiungerla, e poiché era sola, così credeva di persuaderla facilmente. E quando le fu vicino, ella lasciò la via maestra e prese un sentiero; e l'uomo le corse dietro per non perder la buona occasione. E andato innanzi un poco, afferrò la donna ad uno svolto, la stese a terra e compì l'opera. Dopo ciò essa scomparve lasciando odor di zolfo. L'uomo, sentendosi sul terreno erboso, sorse un po' atterrito e tornò a casa Tutti hanno creduto che egli fosse vittima di una illusione del demonio».
CVI

ALTRA STORIA NARRATA DA ANGELOTTO

Quando Cencio narrò quella storia, era presente Angelotto, vescovo di Anagni, e raccontò di un altro caso simile: «Un mio parente», disse (e ne fece il nome), «una notte che per la città deserta passeggiava, s'incontrò in una donna, a quanto credette, e che gli parve anche bella, e con quella fece l'affar suo. Ed essa, dopo ciò, per spaventarlo, cangiata in aspetto di bruttissimo uomo: E che hai tu fatto? gli disse. Per verità, io, sciocco, ti ho ingannato. Ed egli: Come ti piace, rispose franco, ma io t'ho macchiato di dietro».
CVII

DI UN AVVOCATO CHE RICEVETTE FICHI E PESCHE DA UN CLIENTE

Si parlava fra noi della ingratitudine di coloro che sono solleciti a far lavorare gli altri, ma tardi a ricompensarli, e Antonio Lusco, che era assai faceto e cortese, ci disse: «Un uomo amico mio, che ha nome Vincenzo ed era avvocato di un uomo ricchissimo, dopo avere sostenute molte cause per questo, senza mai averne ricompensa, finalmente un giorno venne al tribunale per difendere una causa più difficile delle altre, di che colui l'aveva pregato mandandogli il dì del giudizio in dono dei fichi e delle pesche. E benché gli avversari dicessero molte cose contro di lui, e per quanto lo eccitassero, egli rimase sempre a bocca chiusa, senza profferir mai parola. Tutti erano meravigliati, ed il cliente più di tutti, che gli chiese perchè fosse rimasto così silenzioso: Le pesche, rispose, ed i fichi che tu mi hai mandato, mi hanno talmente gelata la bocca che non ho potuto dir parola».
CVIII

DI UN MEDICO FURBO QUANDO VISITAVA I MALATI

Un medico ignorante, ma furbo, quando in compagnia di un discepolo visitava i malati, toccando il polso, come fanno, se sentiva che vi fosse qualche cosa di più grave del solito, ne incolpava il malato, dicendo che egli aveva mangiato o un fico, o un pomo, o qualunque altra cosa che gli fosse stata proibita. E poi che i malati spesso lo confessavano, così egli pareva un uomo divino che anche gli errori dei malati sapeva conoscere. Di questo il discepolo fece spesse volte le meraviglie e chiese al medico in qual modo dal polso, col tatto, o con qual'altra più elevata scienza conoscesse quelle cose; e il medico, per ricompensarlo della stima che egli aveva per lui, gli svelò il segreto: «Quando», disse egli, «entro nella stanza di un malato, guardomi dintorno diligentemente se sul suolo non vi siano gli avanzi di un frutto o di altra cosa; come se corteccia di fico o di castagna o guscio di noce, o scorza di mela, o qualunque altra cosa, e penso che il malato ne abbia mangiato, e così ne' mali che si aggravano incolpo l'incontinenza del malato, ed io non ho più colpa se le cose vanno male». Dopo qualche tempo il discepolo prese egli stesso a esercitare la medicina, e spesso faceva gli stessi rimproveri ai malati, dicendo che avevano mancato alle prescrizioni, o che avran mangiato qualche cosa, secondo che potea egli farne congetture dagli avanzi. E venne una volta da un povero villano, al quale promise pronta guarigione se avesse seguito il suo consiglio; e datagli una certa pozione, disse ch'ei sarebbe tornato il dì dopo. E quando tornò, l'ammalato aveva la malattia che si era fatta più grave; quest'uomo stolto e ignorante, non conoscendone la cagione, prese a guardare qua e là, né vide avanzo alcuno, quando, non sapendo che cosa dire, vide sotto il letto il basto dell'asino. Allora prese a gridare e a dire che capiva finalmente perché il malato stesse peggio; che egli aveva commesso grave disordine e che si meravigliava che non fosse morto, ed asseriva che il malato aveva mangiato un asino, credendo che la sella fosse dell'asino cotto l'avanzo, come le ossa sono della carne. L'uomo ridicolo, sorpreso nella sua stoltezza, fece ridere molta gente
CIX

DI DUE UOMINI CHE SI DISPUTAVANO IL DENARO

Evvi un castello dei Bolognesi chiamato Medicina, e a questo fu mandato per podestà un uomo rozzo e ignorante; a lui andarono un giorno due che avevano lite per ragion di denaro: il primo, che si diceva creditore, affermava che l'altro gli godeva il denaro per ragioni private, e il podestà, poiché l'ebbe udito, disse rivolto verso il debitore: «Tu ti comporti male, perché non restituisci ciò che devi». Ma poiché l'altro negava di dover qualche cosa perché ei l'avea già pagato, rimproverò il creditore di chiedere ciò che non doveva avere; e questo di nuovo sostenne la sua causa, e mostrò le ragioni del credito, e il podestà si scagliò contro al debitore di nuovo, perché negasse una cosa che era tanto palese; e questi ripeté con nuovi argomenti che il debito era stato pagato, e un'altra volta il podestà rimbrottò il creditore che voleva due volte il suo avere. E così, dopo essersi mutato molte volte alle parole di ognuno: «Ambedue le parti», disse, «han ragione: ognuno di voi ha vinto ed ha perduto. Ora, se vi piace, andate». E tenne così giudizio, senza discutere e decidere alcuna cosa. Questa storia si raccontò fra noi a proposito di un tale di nostra conoscenza, che mutava spesso di opinione nello stesso argomento.
CX

DI UN MEDICO IGNORANTE CHE DALL' L'ESAME DELL'URINA

DISSE CHE UNA DONNA AVEVA BISOGNO DEL MARITO

Era presso di noi una donna che aveva nome Giovanna, e che io ho conosciuta, e trovavasi malata. Il medico, che era astuto quanto ignorante, chiese, per curare la malattia, che gli mostrassero l'urina; e questa la figlia giovinetta ed ancora nubile ebbe cura di conservare, come è costume; ma questa dimenticandosi mostrò l'urina sua al medico, invece di quella della malata. Subito il medico disse che la donna aveva bisogno del marito; e quando ciò fu detto al marito, dopo essersi riempito bene lo stomaco alla cena, andò in letto con la moglie. Ella, che non sapeva del consiglio del medico, e poiché per la debolezza aveva molestissima la cosa, e meravigliata della novità del caso: «Che fai tu», disse, «amico mio? mi ucciderai». «Sta' zitta», rispose l'uomo, «ché questa, a parer del medico, è la migliore medicina per il tuo male, perché in questo modo ne sarai libera e restituita sana». E non s'ingannò, perché avendo egli ripetuto quattro volte la cosa, il giorno dopo cessò affatto la febbre. Così l'inganno del medico fu cagion di salute.
CXI

DI UN UOMO CHE GIACQUE CON LA MOGLIE MALATA

CHE DOPO GUARI'

Una cosa simile avvenne a Valenza, siccome disse un mio concittadino. Narrò che una donna assai giovane era stata sposata ad un notaio, e che dopo qualche tempo cadde gravemente malata che tutti credevano che ne morisse; e già i medici l'avevano spacciata, e la ragazza perduta la favella e chiusi gli occhi, inanimata ormai, sembrava morta. Doleasi il marito che gli venisse così presto tolta la moglie, della quale più volte si era servito, e che egli, come è naturale, amava molto; e pensò di giacer seco prima che morisse. Allontanò gli astanti, non so per quale pretesto di cosa segreta che aveva a fare, e fece l'officio suo. La donna tosto, come se il marito le avesse infusa la vita, riprese i sensi, e dischiusi gli occhi, prese a parlare e con voce commossa a chiamare il marito. Il quale avendo chiesto che cosa volesse, le dié a bere, e quando ebbe anche mangiato, risanò. E ne fu cagione la funzione matrimoniale; esempio questo che mostra come di molte malattie delle donne quella sia la miglior medicina .
CXII

DI UN UOMO ILLETTERATO CHE CHIESE ALL'ARCIVESCOVO

DI MILANO LA DIGNITA D'ARCIPRETE

Lamentavamo un giorno la triste condizione dei tempi, per non dire degli uomini che tengono le alte cariche della Chiesa, poiché messi da parte gli uomini dotti e prudenti, si innalzano gli ignoranti che non hanno valore alcuno. E disse allora Antonio Lusco: «Ciò non avviene tanto per colpa del Pontefice, quanto per quella dei principi, presso i quali vediamo essere in auge gli uomini sciocchi e ridicoli, e disprezzati invece quelli che eccellono per dottrina. Eravi», soggiunse, «alla corte di Cane il vecchio, signore di Verona, un uomo giovialissimo di nome Nobile, rozzo e ignorante, ma che in grazia delle sue facezie era venuto accetto a Cane, e per questo, poiché era chierico, in possesso di molti benefizi. Una volta che Cane all'antico Arcivescovo di Milano, che governava la città, mandò ambasciatori uomini di gran fama, Nobile si unì a loro. Dette le ragioni per le quali erano stati mandati, volevano gli ambasciatori ritornarsene, e l'Arcivescovo, cui Nobile, che era uomo di facili parole avea mosso il riso, disse a questi di chieder ciò che da lui volesse. E Nobile gli chiese una importante dignità di Arciprete. E l'Arcivescovo allora, ridendo della stoltezza dell'uomo: Voi vedete, gli disse, che tale carica non è proporzionata alle vostre forze, perché voi siete un uomo ignorante delle lettere, ed assolutamente incolto. E a lui, pronto e con grande franchezza, rispose Nobile: Io faccio secondo il costume del mio paese: a Verona agli uomini di lettere non si dà alcuna cosa e agli illetterati ed agli ignoranti si conferiscono i benefizi». Ridemmo tutti del faceto detto dell'uomo, che riputava che ciò che stoltamente si faceva a Verona dovesse farsi ugualmente dappertutto.
CXIII

D'UNA DONNA PUBBLICA CHE SI LAMENTAVA DI UN TORTO

FATTOLE DA UN BARBIERE

Evvi a Firenze magistrato che è preposto ai buoni costumi, detto Officiale di onestà; ed è cura sua di decidere le questioni delle donne pubbliche, e di curare che esse non abbiano molestie nella città. Venne una volta dinanzi ad esso una cortigiana a lamentarsi dell'ingiuria e del danno che le aveva fatto un barbiere, che chiamato nel bagno perché le radesse le parti inferiori, le fece col rasoio, là dentro un taglio tale, che per molti giorni non poté introdurvi alcun uomo, e per questo lo accusava di averle dato danno e chiedeva che la compensasse di ciò che non aveva potuto guadagnare.
Si chiede: come dovrà essere la sentenza?
CXIV

DI UN FRATE CHEL CONFESSAVA UNA VEDOVA

Uno di que' frati, che si dice che vivono nel l'osservanza, udiva una volta la confessione de' peccati di una bella vedova di Firenze. E la donna parlando gli si stringeva addosso, e gli moveva la faccia vicino perché parlava piano. Il frate, riscaldato da quel fiato giovanile, sentì che si destava ciò che in lui dormiva, e alzava il capo cagionandogli grave pena: e, tormentato dagli stimoli della carne, e torcendosi, disse alla donna di andarsene; e questa lo richiese della penitenza: «Penitenza!», esclamò il frate, «ma voi a me l'avete fatta fare!»
CXV

DI UN UOMO CHE SI FE' CREDER MORTO DALLA MOGLIE

A Montevarchi, che è un borgo vicino a noi, un ortolano che io conosco, che aveva la moglie giovane, una volta che ella era fuori a lavare i panni tornò a casa, e desiderando di sapere che cosa avrebbe detto o fatto sua moglie se ei fosse morto, si stese a terra supino fingendosi tale. La moglie tornò a casa carica della biancheria, e trovò il marito morto, come le parve, e stette in forse se dovesse subito piangere la morte del marito o piuttosto mangiare, poiché era ella rimasta digiuna fino a mezzogiorno. Ma cedette agli stimoli della fame, e, posto al fuoco un pezzo di lardo, prese a mangiarlo in fretta, dimenticandosi per la furia, di bere. E avendo, per cagion della carne salata, molta sete, prese un fiascoe discese presto le scale per prender vino dalla cantina. Venne frattanto una vicina a chiederle fuoco, e la donna, gettato il fiasco, risalì le scale, e come se l'uomo fosse morto allora, prese a piangere dirottamente e a dare in esclamazioni. Vennero a queste grida e a questi pianti tutti i vicini, sorpresi della morte improvvisa. Giaceva l'uomo per terra e teneva il fiato e aveva chiusi gli occhi, come se fosse morto davvero. E quando gli parve che il gioco fosse durato abbastanza, alla moglie che piangeva e che ripeteva: «O mio uomo! e che cosa farò io adesso?» disse, aprendo gli occhi: «Farai male, se non andrai subito a prendere il vino». Tutti passarono dalle lacrime al riso, quando specialmente udirono la storia e la cagion della sete.
CXVI

DI UNA BOLOGNESE INGENUA

Una giovane di Bologna, che da poco era andata a marito, si lamentava con una nobile donna che stava vicino a me, che suo marito la bastonasse fortemente e spesso. E avendole quella chiestane la cagione, rispose la giovane, che ciò era, perché, quando il marito si valeva del suo diritto, rimaneva essa immobile come un tronco: «Perché allora», le chiese, «non ubbidite nel letto al marito, e non vi lasciate fare con piacere?». Ed ella «Non so fare, signora, perché nessuno mi ha mai insegnato come si faccia; se lo sapessi lo farei, per non sentirmi bastonare». Meravigliosa ingenuità di quella fanciulla, che ignorava anche quelle cose che la natura insegna alle donne. Questa storia, per ridere, la raccontai anche a mia moglie.


CXVII

RISPOSTA DI UN CONFESSORE A BERNABO' VISCONTI A

PROPOSITO DI UNA DONNA

Bernabò, duca di Milano, fu uomo molto dato alle donne. Un giorno, che solo nel giardino se la godeva tranquillamente con una donna che egli amava, sopravvenne improvvisamente un frate, che era suo confessore, e che per la grande autorità e sapienza sua aveva ogni porta aperta al duca. Questi arrossì e si sdegnò insieme dell'inattesa venuta del confessore, e un po' commosso, per aver poi la risposta: «Che cosa fareste voi dunque», disse, «se vi trovaste nel letto una donna bella come è questa?». «Ciò che non dovrei fare», rispose, «lo so; ma ciò che io farei non so dire». Con questa risposta calmò lo sdegno del duca, confessando d'esser uomo e di poter come gli uomini fallare.
CXVIII

DI UN SERVO DISTRATTO CHE VENNE CARICATO DI

SOVERCHIO PESO

Roberto degli Albizi, uomo dotto e molto cortese, aveva un servo sciocco e distratto, senza alcun ingegno, che e' teneva in casa più per umanità che per averne vantaggio. Una volta lo mandò con certi ordini ad un amico suo' che aveva nome Dego, e abitava presso il ponte Santa Trinità; questi chiesegli che cosa lo mandasse a dirgli il padrone, e il servo, che aveva dimenticato le parole di esso, stava pensieroso come uno stupido e non sapeva che dire. Allora, visto che il servo si serbava silenzioso: «Io so», gli disse, «che cosa vuoi»; e mostratogli un gran mortaio di marmo: «Prendi questo», dissegli, «e portalo tosto al padrone, che è ciò ch'egli vuole». E Roberto lo vide di lontano portar sulle spalle il mortaio, e pensando che ciò fosse per punire il servo suo della grande balordaggine, quando gli fu vicino: «Hai fatto male, sciocco», gli disse, «ché non hai ben comprese le parole mie; porta indietro quello che è troppo grande, e recamene uno più piccolo». E sudando e stanco dal peso, tornò all'amico, confessando l'errore, e ne portò un altro ed un terzo; e in questo modo fu punito della sua sciocchezza.
CXIX

DI UNO CHE VOLEVA SPENDERE MILLE FIORINI PER ESSERE

CONOSCIUTO E RISPOSTA CHE GLI FU FATTA

Un giovane fiorentino, di poco cervello, disse ad un amico che e' voleva viaggiare il mondo e voleva spendere mille fiorini per essere conosciuto. E l'altro, che lo conosceva a fondo: «Farai meglio», gli disse, «a spenderne duemila per non essere conosciuto affatto».
CXX

FACEZIA DEL CELEBRE DANTE

Quando Dante, nostro poeta fiorentino, era esule in Siena, un dì, nella chiesa dei Minori, stava col gomito appoggiato su di un altare, rivolgendo i suoi pensieri nell'animo, e gli si accostò un tale a richiederlo di non so qual cosa noiosa. E Dante: «Dimmi dunque», gli chiese, «qual'è la più grossa di tutte le bestie?» «L'elefante», rispose l'altro. «Or bene», soggiunse Dante, «lasciami stare, o elefante, ché io penso a cose più importanti delle tue; e non voler esser noioso».
CXXI

GIOCONDA RISPOSTA DI UNA DONNA DATA AD UN TALE

CHE LE CHIEDEVA SE SUA MOGLIE POTESSE PARTORIRE

DOPO DODICI MESI

Un cittadino di Firenze, che era stato fuori di paese, quando dopo un anno tornò a casa sua, trovò sua moglie che stava per partorire, ed ei male sopportava questa cosa, poiché temeva che sua moglie non gli si fosse serbata fedele. Ed essendo egli nel dubbio, andò per consiglio da una nobile signora che abitava lì presso, e ch'era donna molto ingegnosa, e le richiese se egli avesse potuto aver un figlio dopo dodici mesi. Ed ella, conosciuta la dappocaggine dell'uomo, rispose per consolarlo: «Certamente, che se la moglie tua, quel giorno in cui concepì, vide un asino, secondo il costume di questi animali partorirà dopo un anno». E l'uomo si chetò alle parole della signora, e ringraziando Dio che toglieva a lui un forte sospetto e risparmiava a sua moglie un grave scandalo, tenne per suo il fanciullo che nacque.
CXXII

DOMANDA OSCENA DI UN PRETE

Fuori della porta di Perugia evvi la Chiesa di San Marco, e in un giorno di festa, in cui tutto il popolo era convenuto in essa, Cicero, che n'era il pievano, nella predica ch'ei faceva secondo il costume, concluse con queste parole: «Fratelli, io desidero che voi mi togliate da un grave dubbio. Quando io in quest'ultima quaresima ho udito la confessione delle vostre mogli, non ho trovata alcuna che non affermasse di aver mantenuta intatta la fede al marito. Voi invece avete quasi tutti confessato che vi siete serviti delle mogli degli altri. Ora, per non rimanere io in tal dubbio, desidero sapere da voi, chi e dove sieno queste donne».
CXXIII

FACEZIA DI UN TALE SOPRA L'INVIATO DI QUELLI DI PERUGIA

Nel tempo in cui i Fiorentini avevano guerra col Pontefice Gregorio, i Perugini, che avevano abbandonato il Papa, mandarono legati a Firenze a chiedere aiuto; uno di costoro, che era un dottore, uscì con un lungo discorso, e alle prime parole, come proemio, disse: «Dateci del vostro olio». Un uomo allegro, che detestava quei magniloquenti discorsi, lo interruppe: «Di quale olio intendi tu dire? Veniamo a domandare soldati e tu dimandi l'olio? Ti sei forse dimenticato che armi e non olio noi veniamo a richiedere?» E poiché quegli rispose che erano parole della Santa Scrittura: «Bella cosa!», rispose l'altro, «noi siamo nemici della Chiesa e tu invochi la Santa Scrittura!». Risero tutti della facezia di quell'uomo, che con le dette parole si burlò della soverchia prolissità del discorso del dottore e poté così venire all'argomento.
CXIV

DEGLI INVIATI DI PERUGIA A PAPA URBANO

Anche ad Urbano V Papa, che era in Avignone, quei di Perugia mandarono tre ambasciatori; e quando vi giunsero, il Pontefice trovavasi gravemente malato; tuttavia, per non tenerli troppo tempo in pena, li fece chiamare, pregandoli però, prima che cominciassero, di parlar poco. Un dottore, che per via aveva mandato a memoria una lunga orazione, che avrebbe poi recitata al Papa, non ebbe riguardo alcuno che egli fosse malato e in letto, e si profuse in molte parole, così che il Pontefice mostrò spesso di avere a noia l'udirlo. Quando finalmente quell'ignorante ebbe finito, Urbano, cortesemente, chiese agli altri che cosa volessero ancora. Un altro degli ambasciatori, che aveva conosciuta la stoltezza di quello che aveva parlato e la noia recata al Pontefice: «Beatissimo Padre», disse, «abbiamo avuto mandato dai nostri cittadini, che se voi non farete tutto ciò che potrete per quello che vi chiediamo, prima di partire, questo compagno mio vi ripeta ancora il suo sermone». Questa facezia fece sorridere il Papa, il quale ordinò che avessero tosto quel che chiedevano.
CXXV

DETTO SCIOCCO DEGLI INVIATI DI FIRENZE

I nostri inviati fiorentini che furono mandati in Francia, quando giunsero a Milano andarono a visitare il duca Bernabò per fargli onore. E come furono dinanzi a lui, interrogati chi fossero, risposero: «Siamo cittadini e ambasciatori di Firenze, se vi piace», come s'usa dire; ed egli li ricevette e poscia li congedò. Solo quando giunsero a Vercelli, ripensando a ciò che fino allora avevano fatto, tornarono in mente le parole che avevano dette a Bernabò, e poiché uno di loro disse che avergli detto se vi piace era mal detto, perché s'anco non gli fosse piaciuto erano essi e cittadini fiorentini e ambasciatori, così tutti vennero in questo parere e conclusero d'aver avuto torto e di non essere in quel modo stati dignitosi. E di comune accordo tornarono a Milano per ritrattar quelle parole e andarono dal Duca. Là, quello di loro che era più vecchio e pareva più dotto: «Duca», disse, «noi eravamo a Vercelli quando pensammo di averti detto che eravamo cittadini ed ambasciatori fiorentini se ti piace; e questo dicemmo da sciocchi e da ignoranti, perché, piacciati o dispiacciati, noi siamo fiorentini, cittadini e ambasciatori». Il Duca, che era uomo molto severo rise della stolta cura di costoro e disse loro ch'egli aveva piacere, perché essi erano appunto ciò che e' li credeva.
CXXVI

DETTO FACETO DI UN CERTO GIAN PIETRO DA SIÈNA

Gian Pietro, cittadino di Siena, uomo gioviale e faceto, venne una volta in Roma invitato a bere da Bartolommeo de' Bardi; eravamo là in molti, e si scherzava su l'uomo e si beveva, e mentre, com'è d'uso, avevamo tutti, prima di bere, mangiato un boccone di pane, egli solo teneva il pane in mano. Gli chiedemmo perché non mangiasse, ed egli, ridendo, rispose: «Il tuo pane, Bartolommeo, è riverente ed educato; per quanto l'abbia io molte volte avvicinato alla bocca, egli a niun patto vuol entrar prima del vino». Ridemmo tutti del detto faceto di costui, che credeva che il cibo non dovesse andar sempre innanzi alla bevanda, specialmente quando si ha sete.
CXXVII

D'UN UOMO CHE AVEVA COMPRATA UNA VESTE DI

GRAN PREZZO ALLA MOGLIE

Un tale lamentavasi con la moglie, alla quale aveva comprata una veste di gran prezzo, perché egli non si serviva del matrimonio che non gli costasse un ducato almeno. E la moglie a lui: «Questo», disse, «avviene per colpa tua. O perché non te ne servi tanto spesso che non ti venga a costar più di un soldo ?».
CXXVIII

RACCONTO GRAZIOSO D'UN MEDICO

Il cardinale di Bordeaux mi narrò una volta che un certo suo concittadino, una sera, quando tornò a casa, prese a gemere lamentevolmente per un forte dolore ad una gamba. La moglie gli unse ripetute volte la gamba, vi pose sopra lana e stoppa e tutta la recinse con una fascia di tela. Ma l'uomo continuò a lamentarsi del dolore e chiese gemendo il medico; e questi venne, e a poco a poco, dolcemente, per causa del gran dolore che gli faceva, sfasciò la gamba, e la palpò; e nulla avendo trovato di male: «È adunque a questa», disse l'uomo (e gli porse l'altra gamba), «che io sento dolore ?». Bellissima sciocchezza questa d'un uomo che voleva sapere dal medico dove sentisse il male.
CXXIX

DI UN UOMO CHE TROVAVA L'ORO DORMENDO

Una volta in compagnia un amico nostro narrò che in sogno aveva trovato dell'oro. E allora uno disse: «Guarda che non ti accada come al mio vicino, cui l'oro si cambiò in lordura». E perché noi gli chiedemmo di narrare il sogno: «Un mio vicino», disse, «sognò di essere condotto dal demonio in un campo a disseppellire dell'oro, e ne trovò molto; e il demonio allora gli disse: Tu non puoi ora portarlo teco, ma fa' un segno sul luogo, perché tu solo possa conoscerlo. E avendo l'altro chiesto di che segno doveva servirsi: Falla qui, disse il diavolo, chè appunto in questo modo nessuno crederà che qui sia l'oro e tu solo conosci la cosa. L'uomo acconsenti e svegliatosi incontanente sentì d'aver sgombrato il ventre nel letto; sorse fra il puzzo e la poltiglia, e per uscir di casa mise in testa un cappuccio, entro il quale il gatto quella notte aveva fatta la sua. Pien di schifo per l'iniquo tanfo, dové lavarsi la testa e i capelli. Così un sogno d'oro s'era mutato in merda».
CXXX

DI UN SEGRETARIO DI FEDERICO IMPERATORE

Pier de le Vigne, uomo saggio e dotto, fu segretario di Federico imperatore, il quale, essendo nemico di Alessandro III Papa, e avendo portata la guerra nei dominii della Chiesa, fece accecare Pietro, che era italiano, per invidia che fra i barbari si era mossa contro di questo. Poi pentito, perché aveva fatta cattiva azione, lo chiamò nel suo consiglio segreto. Una volta che l'imperatore trovavasi in grave mancanza di denaro, Pietro lo consigliò di servirsi, nella guerra colla Chiesa, delle forze di questa, di prendere e fondere, per continuar la guerra, gli ornamenti d'oro e d'argento delle chiese, fra i quali erano in quel tempo memorabili (erano allora a Pisa) le catene che erano d'intorno alla cattedrale. Piacque il consiglio a Federico, ed arricchì l'esercito con le spoglie della Chiesa, e allora Pietro gli disse: «Imperatore, io mi sono vendicato finalmente della pena che tu mi hai ingiustamente inflitto. Tu ti sei già acquistato l'odio degli uomini; io ti ho fatto per causa del sacrilegio nemico di Dio; d'ora innanzi tutte le cose tue andranno a male». Dopo però fu Federico vincitore; ma poi Alessandro schiacciò l'orgoglio dell'Imperatore; e, con quel detto, Pier de le Vigne dimostrò che le cose sacre non possono portarsi ad uso profano; e chi io fa è punito da Dio.
CXXXI

DI UN FIORENTINO CHE SENZA SAPERLO MANGIO'

DELL'EBREO MORTO

Venivano due giudei da Venezia, dove abitavano, a Bologna, e accadde che uno di essi colpito da malattia morisse in viaggio; l'altro desiderava di trasportarne il cadavere a Venezia, e poiché ciò non potea farsi palesemente, così, tagliatolo in minuti pezzi, lo pose in un piccolo barile, mescolandolo con diversi aromi e con miele, tanto che usciva meravigliosamente un soave odore dal barile, e questo raccomandò ad un altro ebreo che andava a Venezia. Costui portò seco il barile sulla barca per il canale di Ferrara, ed essendo sulla barca in molti, accadde che un Fiorentino si mettesse a sedere vicino al barile. Quando venne la notte, attratto dall'odore, e sospettando che dentro si contenessero cose buone a mangiare, tolse di nascosto il coperchio e prese a gustare ciò che dentro vi era; e poiché gli parve che questo fosse un cibo molto saporito, così quella notte a poco a poco quasi tutto lo vuotò, credendo di aver mangiato buona cosa. Quando a Ferrara l'ebreo fu per uscir dalla nave e prese il barile, sentì dalla leggerezza del peso che esso era vuoto; e mentre e' da una parte si lagnava che gli avean rubato il cadavere, il Fiorentino dall'altra sentiva che egli stesso era il sepolcro del giudeo.
CXXXII

VISIONE DI FRANCESCO FILELFO

Francesco Filelfo, geloso della moglie, viveva in continua pena che ella non avesse con qualche altro a fare, ed era giorno e notte intento a vigilarla. Una notte che e' dormiva, in sogno, poiché avviene spesso che ci tornino nei sogni le cose che desti abbiam per la mente, vide un demonio che gli promise che avrebbe la donna sicura, se facesse ciò che egli avrebbe detto di fare. Ed avendo egli nel sonno annuito, dicendo di esserne assai grato e promettendone premio, il diavolo gli disse: «Prendi questo anello e tienlo sempre diligentemente in dito; poiché, mentre l'avrai, non potrà la tua moglie, senza che tu lo sappia, con altro uomo giacere». Tolto improvvisamente per la gioia dal sonno, sentì d'avere il dito nella cosa della moglie. E quello è davvero il migliore rimedio pe' gelosi, perché le donne non possano mai, alle spalle de' mariti, essere infedeli.
CXXXIII

DI UN BEVITORE

Un famoso bevitore di vino fu preso dalla febbre, per la quale gli si aumentò la sete; vennero i medici e discutevano sul modo di toglier la febbre e la straordinaria sete: «Solo della febbre», disse il malato, «voglio che voi vi occupiate, ché quanto a curar la sete, quello è affar mio».
CXXXIV

MOTTO FACETO DI EVERARDO SEGRETARIO APOSTOLICO

CHE USCI' IN UN RUMOR DI VENTRE AL

COSPETTO DI UN CARDINALE

Un dì che il cardinale de' Conti, uomo grasso e corporuto, era andato alla caccia, quando fu verso mezzogiorno si sentì fame e discese per pranzare. Era d'estate, e tutto sudato si pose a mangiare, e poiché i servi erano lontani occupati in varie faccende, così egli comandò a un certo Everardo Lupi, segretario apostolico, di fargli vento. Questi gli disse: «Non so io come voi vogliate»; e il Cardinale: «Fa' come tu vuoi». E l'altro: «Con molto piacere, per bacco!» ed alzata la gamba destra, ruppe in grandissimo crepito, dicendo che in quel modo soltanto era egli solito di far vento. Questa cosa fece ridere moltissimo coloro che erano presenti ed erano in grande numero.
CXXXV

SCHERZO GIOCONDISSIMO DI UN ALTRO CARDINALE

Collo stesso strumento il cardinale di Tricario rispose agli avvertimenti di Alto de' Conti. Era il cardinale di vita assai dissoluta, e un giorno alla caccia Alto lo ammoniva con lungo sermone a darsi a vita migliore; il cardinale, udite le parole di Alto, fissò questo per un poco in volto; poi, piegata la testa sul cavallo, alzò il deretano e diede un gran suono dicendo: «Alla tua faccia». E dopo questa unica risposta se ne andò, mostrando così in che stima avesse quegli avvertimenti.
CXXXVI

DI UNA DONNA CHE PER COPRIRSI IL CAPO SI

SCOPRI' IL SEDERE

Una donna, che per malattia della pelle s'era fatta radere il capo, un giorno venne chiamata fuori da una vicina per certa faccenda, ed uscì di casa dimenticando nella fretta di coprirsi il capo. Quando l'altra donna la vide in quel modo, la rimproverò d'esser venuta sulla via col capo nudo e così brutto; ed ella, per coprirsi il capo, sollevando le vesti di dietro, scoprì il deretano. Tutti quelli che videro risero di ciò che aveva fatto la donna, che per piccola cagion di pudore maggior male aveva fatto.
Questo va detto di chi cerca di nascondere un piccolo delitto con più grave scelleratezza.
CXXXVII

ISTORIA GRAZIOSA DI UN TALE CHE MANDO' LETTERE A

SUA MOGLIE E AD UN MERCANTE

Francesco di Ortano, cavaliere napoletano, che ebbe da re Ladislao il governo di Perugia, ricevette una volta lettere dalla moglie e da un mercante di Genova, al quale era debitore di denaro preso a mutuo. Quella della moglie lo esortava a tornare a casa, e gli ricordava ch'e' dovea compiere l'ufficio coniugale e la promessa di tornar presto e di mantenere la data fede; l'altra lo richiedeva della restituzione del denaro prestatogli. Rispose egli, com'era giusto, al mercante, che lo avrebbe quanto prima pagato, chiedendogli una breve dilazione; e scrisse alla moglie calmandone il desiderio con molte blandizie e promesse, dicendo che sarebbe tornato subito, che avrebbe fatto ogni cosa per risarcirla della lunga astinenza; e con la confidenza che aveva con la moglie si servì di parole un po' allegre, fra le quali vi erano queste aggiunte, che l'avrebbe contentata in molte maniere, e, per servirmi delle sue frasi, l'avrebbe in diversa guisa cavalcata. Nel sigillar le lettere mandò quella del mercante alla moglie, e quella di questa al mercante. Quando la moglie
ricevette la lettera, si meravigliò assai che e' non rispondesse a ciò che gli aveva scritto. Ma il Genovese, quando lesse la lettera che gli era pervenuta, e che conteneva cose liete o da moglie, fra le quali principalmente che l'altro sarebbe tornato, e con essa avrebbe molte volte ripetuto il giuoco, e altre cose più oscene, credette che l'altro si prendesse beffa di lui e andò dal Re a mostrargli la lettera, e lamentandosi che invece del denaro che gli doveva gli prometteva di cavalcarlo finché fosse stanco, aggiungendo che egli era stato cavalcato abbastanza quel giorno che avevagli prestato il denaro. Tutti presero a ridere, e risero anche di più quando fu conosciuto l'error della lettera.
CXXXVIII

STORIA DI DANTE

CHE RIMPROVERAVA SPESSO LA MOGLIE

Uno del mio paese, di nome Dante, la cui moglie avea fama d'essere poco onesta, era dagli amici molto spesso consigliato di togliere dalla sua casa il disonore, e rimproverava acerbamente sua moglie; ed ella con molte lacrime e con giuramenti protestava della sua fedeltà. dicendo che quelle cose erano dette dagli invidiosi della loro tranquillità. L'uomo fu persuaso da queste parole, e, una volta che gli amici tornarono a consigliarlo di rimproverare la moglie: «Ohè!», disse, «non mi annoiate più con codeste parole! Forse che voi meglio di lei conoscete i suoi peccati?». E tutti dissero che la moglie meglio li conosceva. «Allora» soggiunse, «ella dice che voi tutti mentite, e ad essa più che a tutti voi io presto fede».
CXXXIX

TESTAMENTO DI UN VECCHIO IN FAVOR DELLA MOGLIE

Pietro Masini, nostro concittadino, fu uomo molto mordace nel discorso; e quando fu vecchio e presso a morte, nel testamento che fece, nulla lasciò alla moglie fuori della dote; questa mal sopportava la cosa, e lamentavasi che il marito la maltrattasse, né le lasciasse alcuna cosa della sua sostanza, e chiedeva con molto pianto che le fosse legato un qualche sussidio per la vecchiaia: «Chiamate dunque», disse il moribondo, «il notaio ed i testimoni, affinché io lasci qualche cosa alla moglie». E questi vennero prontamente, ed essendo la moglie presente, disse Pietro, rivolto ai testimoni: «Costei mi annoia perché io le lasci qualche cosa, ed io per togliermi il fastidio, chiamo voi che siete presenti ad attestare che io le lascio la più fetente e più larga vagina che vi sia in questa città». Detto questo, tutti se ne andarono ridendo, e la donna rimase mesta e delusa della risposta del marito.
CXL

RACCONTO DI ZUCCARO DI UNA DONNA CHE CHIEDEVA

UNA MEDICINA AD UN PRETE

Zuccaro, che fu il più gentile degli uomini, soleva narrare di una donna non brutta e che era sua vicina, la quale, essendo sterile, chiedeva spesso al prete, al quale essa si confessava, se e' non sapesse di un qualche rimedio atto a far concepire i figliuoli. Egli alla fine accondiscese e le disse di venire da lui un giovedì, che era il giorno meglio adatto alla cosa; quando il dì venne la donna desiderosa di figliuoli andò alla abitazione del prete, che le disse: «Io mi servirò di un incantesimo che fa sorgere molte e varie illusioni, in modo che sembra che avvengano cose, che in realtà non avvengono. Or dunque, perché la cosa riesca, occorre costanza e fermezza d'animo. Vi sembrerà che io vi tocchi, ch'io vi baci e vi abbracci, ch'io faccia ancora quelle altre cose che suol fare vostro marito; tutto questo non è vero, ma così pare per la efficacia delle parole che si devono dire, le quali hanno appunto potenza di far parere vere cose che non lo sono». Consentì la donna confidente alle parole del prete, e disse che in niun conto avrebbe essa tenute queste stregherie. Il prete fe' molti segni, disse all'aria molte parole, poi prese a baciar la donna e la distese sul letto. E quando ella tremante gli chiese che cosa facesse: «Non ve lo dissi poco fa», rispose il compagnone, «che le cose che avreste vedute non sarebbero state vere?» E così e' fece due volte il piacer suo colla donna, sempre affermando che ciò non era. E così, credendo di essere stata illusa da un incantesimo, la donna se ne tornò a casa.
CXLI

DI UN EREMITA CHE SI GODE' MOLTE DONNE

Eravi in Padova un eremita che aveva nome Ausimirio, al tempo di Francesco, che fu il settimo duca di Padova; e sotto pretesto di confessione, egli, che era in fama di uomo santo, ebbe molte donne anche della nobiltà. Finalmente, poiché l'ipocrisia non si può lungamente nascondere, si divulgò la fama di queste scelleratezze, e preso dal Podestà, confessò molte di quelle nefandità e fu condotto a Francesco. Questi fe' venire un segretario, e per riderne, chiese all'eremita certe notizie e i nomi delle donne che egli aveva avute. E il segretario scriveva i nomi, molti dei quali erano di donne mogli a familiari del Duca, e questo per averne poi causa di riso. Quando alla fine parve che avesse il romito finito di nominare, il Duca chiese se ve ne fossero ancora, egli costantemente negò; ma il segretario lo redarguì più aspramente e lo minacciò della tortura se non avesse detto ogni cosa. Allora l'eremita sospirando: «Scrivete», gli disse, «anche la vostra e mettete anche quella nel numero delle altre». Quando udì ciò, cadde di mano, pel dolore, la penna al segretario; e il Duca ne fece gran riso, dicendo che era giusto che quegli che con tanto piacere aveva udita la sventura degli altri venisse ad essere in loro compagnia.
CXLII

DI UN FIORENTINO CHE SI ACCOMODO' CON LA

MOGLIE DI SUO PADRE

A Firenze, una volta, mentre un giovane stava sulla noverca, sopravvenne il padre e lo sorprese nel fatto con la moglie; la cosa nuova ed indegna colpì costui, che prese con gran rumore a rimproverare acerbamente il figliuolo, e questi balbettando cercava di scusarsi. Era molto tempo ch'essi disputavano, quando, mosso dalle grida, venne un vicino, ignaro della cosa, per comporre la contesa. E quando e' chiese la ragione del litigio, essi per pudor della cosa tacevano; finalmente, poiché il vicino più fortemente insisteva, e il padre dava la colpa al figlio, questi per primo prese a dire: «Costui, che è mio padre, oltre misura indiscreto, ebbe mille volte mia madre ed io nulla dissi; ora, perché io ho avuto per una volta sola sua moglie, per la mia sconsideratezza riempie la casa di grida come un matto». Rise colui della faceta risposta del figlio e condusse seco il padre, cui cercò, come gli fu possibile, di consolare.
CXLIII

DISPUTA DI CERTI FRATI MINORI SUL MODO DI

FAR L'IMMAGINE DI S. FRANCESCO

Certi frati dell'ordine de' Minori chiamarono un pittore perché dipingesse loro l'immagine di San Francesco; ma erano fra loro discordi, perché alcuni lo volevan colle stimmate, altri in atto di predicar al popolo, altri in diversa guisa. Passarono tutto un giorno a disputar della cosa e alla sera andarono a dormire, lasciando il pittore senza aver nulla deciso; e il pittore, conosciuta la stoltezza dei frati, vedendosi beffato, lo dipinse in atto di sonare il flauto, altri dicono impiccato pel collo. Veduta la figura, i frati cercarono dappertutto il pittore per fargli del male, credendo essi che egli avesse fatto gravissimo oltraggio alla religione e meritasse la maggior pena; ma egli si era raccomandato alle gambe.
CXLIV

DI UN PRETE FIORENTINO CHE ANDO' IN UNGHERIA

È costume nel regno d'Ungheria, che, dopo la messa, coloro che sono in chiesa e che han male agli occhi, s'avvicinino all'altare e si faccian bagnar gli occhi dal prete con acqua versata nel calice; nello stesso tempo il sacerdote pronunzia alcune parole dei sacri libri, con le quali egli prega la sanità. Andò una volta in Ungheria un prete di Firenze con Filippo detto lo Spagnolo; e avendo una volta detta la messa alla presenza del re Sigismondo, quando ebbe finito, vide avvicinarglisi molti malati agli occhi, perché questi egli bagnasse loro coll'acqua del calice. Ed egli, credendo che il male fosse loro venuto per la crapula e il troppo bere, prese il calice, come aveva visto che gli altri facevano, e li asperse, dicendo in italiano: «Andatevene, che siate morti a ghiado». Ciò udì il Re ed Imperatore, e non poté trattenere il riso; e a tavola il dì dopo riportò, per riderne, le parole del prete, che mossero il riso a tutti e l'ira a coloro che avean gli occhi malati.
CXLV

RISPOSTA DI UN VILLANO AL PADRONE

Uno de' nostri villani fu una volta interrogato dal padrone in qual tempo avessero essi maggior lavoro ne' campi. «In maggio», rispose. E poiché egli glie ne chiedeva la ragione, perché ciò pareva strano in quanto sembra che in quel mese riposino i lavori della campagna: «perché», disse, «è in quel mese che noi dobbiamo coprire e le nostre e le vostre donne».
CXLVI

DETTO DI UN UOMO RIDICOLO

Un Romano, che noi abbiamo conosciuto, montò una volta su di un muricciuolo che era in un canneto, e, come se si trovasse dinanzi al popolo, prese a parlare alle canne, intrattenendole sulle cose della città. Mentre parlava, per un po' di vento che s'era mosso, le canne piegavano le cime; e quell'uomo sciocco che fingeva a se stesso che quelle canne fossero uomini, come se esse lo ringraziassero del discorso: «Non abbiate tanto rispetto», disse, «o signori Romani, per me che sono l'ultimo di voi». E questa frase venne poscia in proverbio.
CXLII

COME UN UOMO CHE VOLEA UCCIDERE IL PORCO FU DERISO

Era costume una volta, in un borgo del Piacentino, che, quando alcuno all'inverno ammazzava il maiale, invitasse i vicini a cena. Un tale, al fine di evitar quella spesa, consultò un compare. E questo gli disse: «Di', domani, che questa notte t'han rubato il porco». E quella notte, di fatti, mentre l'altro non sospettava d'alcuna cosa, gli rubò il porco. Alla mattina, quando vide che gli mancava la bestia, andò dal compare amentando con alte grida che glielo avessero rubato. E l'altro: «Tu dici bene, compare; è così che io ti ho insegnato di dire». E per quanto l'altro ripetute volte e per tutti gli Dei giurasse che quel che diceva era vero: «Fai bene», l'altro diceva, «era secondo il consiglio che ti diedi». E siccome l'altro ripeteva il giuramento: «Io ti dissi prima che tu dovevi parare di questa guisa; ed io ti diedi buon consiglio». Finalmente il pover'uomo se ne andò deluso.
CXLVIII

DETTO DI FACINO CANE

Facino Cane, capitano de' Ghibellini, entrò in Pavia e, come era convenuto, saccheggiò soltanto i beni dei Guelfi. Quando questi furono finiti, cominciò le sue scorrerie anche nelle case dei Ghibellini. Andarono questi a lagnarsi di essere stati spogliati essendo della stessa fazione: «Voi dite la verità», disse Facino, «o figli miei, voi siete tutti Ghibellini, ma i beni sono Guelfi». In questo modo, senza far differenza tra le fazioni, tutti i beni furono tolti.
CXLIX

DI UN GIOVANE INESPERTO CHE NON SI SERVI' DELLA

MOGLIE LA PRIMA NOTTE

Un giovane bolognese, senza ingegno e sciocco, prese per moglie una giovinetta bellissima. E la prima notte, ignaro della cosa, poiché non aveva mai avuto alcuna donna, non seppe consumare il matrimonio. Alla mattina dopo, interrogato da un amico del come le cose della notte fossero andate: «Male», rispose, «perché, dopo aver lunga
mente cercato di far la cosa con mia moglie, holla io trovata senza il taglio che le donne, dicono, hanno comunemente». E allora l'amico, conosciuta l'imbecillità dell'altro: «Taci», gli disse; «ti scongiuro di non farne parola, perché è cosa di grande pudore e di grave pericolo se si viene a sapere». Ed avendo quegli richiestolo di consiglio e di aiuto: «Io», rispose, «farò la fatica per te, e se mi paghi una cena sontuosa, ti farò quel taglio; ma per far questo ho bisogno di otto giorni di tempo, perché la è cosa assai difficile a farsi». E lo stolto acconsentì, e di nascosto lo pose quella notte nel letto colla moglie, ed egli in altro letto solo andò a coricarsi. Dopo gli otto giorni, essendo per opera dell'amico molto larga la via, da non lasciar più alcun timore, chiamò questi il marito, e gli disse che per amor suo aveva egli molto e lungamente faticato e che finalmente aveva finito di fare quel taglio che egli voleva. La fanciulla, essa pure istruita molto, si compiacque col marito del lavoro dell'amico. E lo stolto, quando trovò la moglie forata, tutto lieto ringraziò l'amico e gli pagò la cena.
CL

DELLA MOGLIE DI UN PASTORE CHE EBBE UN FIGLIO

DA UN PRETE

Un pastore di Rivo, borgo nevoso di montagna, aveva la moglie che giaceva spesso col prete e concepì da questo un fanciullo, che nacque e crebbe in casa del pastore. Quando questo ebbe sette anni, il prete con molta dolcezza disse al pastore che il fanciullo era suo, e che volevalo, giunto com'era a sett'anni, condurre in casa sua: «Questo non potrà mai essere», disse il pastore, «il fanciullo è mio perché è nato in casa; perché, soggiunse poi, «sarebbe un brutto affare per me per il mio padrone se tutti gli agnelli che nascono dalle mie pecore coperte dai maschi degli altri dovessero essere del padrone dei maschi».
CLI

DI UN VILLANO CHE CONDUSSE DEGLI ASINI CARICHI

DI FRUMENTO

All'assemblea de' magistrati di Perugia un villano chiedeva una certa grazia e uno di essi si oppose come se essa fosse disonesta. Il dì dopo, il villano molto avveduto condusse a casa del suo contradditore tre asini carichi di frumento; al quarto giorno quel tale mutò d'avviso e sostenne la causa del villano con molto calore. Uno che gli era vicino disse ad un amico mentre egli parlava: «Non odi come quegli asini ragliano? Alludeva scherzando al frumento che l'altro aveva ricevuto.
CLII

DETTO FACETO DI UN POVERO AD UN RICCO

CHE AVEVA FREDDO

Un ricco, che avviluppato nelle vesti andava a Bologna d'inverno, incontrò per la montagna un villano coperto di una camicia sola tutta lacera, e meravigliato che tanta forza del freddo (cadeva la neve e soffiava il vento) quell'uomo potesse sopportare, gli chiese se non si sentisse diacciato. «Niente affatto» rispose l'altro, lieto in volto; e avendogli aggiunto ch'egli era stupefatto della risposta, poich'egli sotto le pellicce aveva anche freddo: «Se voi», disse il villano, a portaste tutti i vestimenti, che avete, indosso come faccio io, non sentireste più freddo».
CLIII

DI UN MONTANARO CHE VOLEVA SPOSARE UNA FANCIULLA

Un montanaro di Perugia voleva sposare una giovane figliuola di un vicino; e quando la vide, essendogli parsa troppo fanciulla e ancor tenera, il padre di questa, che era uomo sciocco, gli disse: «Ella è più matura di quello che credi; ha già avuto tre figli dal chierico del nostro curato».
CLIV

DI UN PRETE CHE CHIESE LA DECIMA AD UNA GIOVANE

A Bruges, che è una gran città d'Occidente, una giovane molto inesperta confessava un giorno i suoi peccati al prete della sua parrocchia. E questi, fra le altre cose, le chiese ancora se avesse sempre pagate le decime al piovano, e la persuase che queste si dovevano dare anche nella parte cui ha diritto il marito; e la giovane, per non aver da essere debitrice di nulla ad alcuno, lo contentò immantinente. Tornò essa a casa più tardi del solito, e al marito, che glie ne chiese la ragione, disse senza alcun timore ciò che era avvenuto. Il marito finse di non darsene per inteso e dopo quattro giorni invitò a pranzo il prete, insieme con molti amici perché la cosa fosse meglio conosciuta; e quando furono a tavola, narrò la storia, e rivolto al prete: «Poiché», gli disse «voi dovete avere le decime su tutte le cose di mia moglie, abbiatevi dunque anche queste», e così dicendo, pose sotto la faccia del prete, che non si moveva, un vaso pieno di sterco e di urina della moglie, e lo costrinse a mangiare.
CLV

DI UN MEDICO CHE SI SERVI' DELLA MOGLIE DI UN SARTO

CHE ERA MALATA

Un certo sarto di Firenze pregò un medico di visitare la moglie che non si sentiva bene. E questi, essendo lontano il marito, venne alla casa e si giovò della moglie sul letto per quanto ella non volesse. Quando tornò il marito, il medico stava per uscire, e seppe che egli avea curata la moglie come si conveniva; ma questa trovò poi tutta in lacrime. Conosciuto il tradimento del medico, tacque; e dopo otto giorni prese seco una pezza di finissimo panno e andò dalla moglie del medico, dicendole che questi l'aveva mandato per prenderle la misura di una sottoveste che si chiama cotta. Era necessario che, per tale bisogna, quella donna, che era bellissima di forme, si mettesse quasi nuda, perché ei potesse più giustamente prendere la misura del corpo e far meglio la veste. E quando fu nuda, e non v'era alcuno, il sarto fece l'affar suo, e rese la pariglia al medico; al quale di poi non mancò di raccontarlo.
CLVI

DI UN FIORENTINO CHE ERA FIDANZATO COLLA FIGLIA

D'UNA VEDOVA

Un Fiorentino, che si reputava furbo, erasi fidanzato con la figlia di una vedova e veniva spesso, come è costume, alla casa di lei; un giorno che la madre non v'era, egli si godé la fanciulla. Quando ella tornò, seppe tutto ciò che era avvenuto dal viso della figlia, e prese a rimproverarla acerbamente, dicendole che aveva disonorata la casa e conchiudendo in ultimo che quel matrimonio non si sarebbe conchiuso e che ella avrebbe fatto ogni sforzo per scioglierlo. Tornò il giovane quando la sua futura suocera era uscita, come e' soleva fare, e quando vide la fanciulla mesta e ne chiese la causa e seppe che la madre avea deciso di dissolvere il matrimonio: «E tu», le chiese, «che intendi fare?». «Di ubbidire la mamma», rispose. «Puoi farlo, se tu vuoi», soggiunse il giovane; e poiché ella gli chiese in qual modo poteasi ciò fare: «Poco fa», disse egli, «tu sei stata di sotto; ora vieni tu sopra, ché coll'atto contrario si dissolve il matrimonio». Ed ella acconsentì e sciolse il matrimonio. Dopo del tempo ella andò a marito ed egli prese un'altra moglie, e alle nozze di questo ella venne, e quando si videro, al ricordo delle cose passate sorrisero fra di loro; la sposa, che vede questo, sospettando a male, alla notte, chiese al marito che cosa significasse quel sorriso; egli non voleva dirlo, ma fu costretto, e confessò la sciocchezza di quella fanciulla. E allora la moglie: «Che Dio confonda colei che fu tanto matta da far capire la cosa alla madre. Che bisogno c'era di andare a dire alla mamma la faccenda vostra ? So bene che io feci la stessa cosa più di cento volte col nostro servo, ma io non feci mai di ciò parola alcuna alla madre». Tacque il marito e capì di aver avuto ciò che si meritava.
CLVII

DI UN USURAIO DI VICENZA

Un usuraio di Vicenza invitava spesso un frate, che era uomo di grande autorità e che spesso predicava al popolo, a fare una predica contro gli usurai, imprecando con tutte le forze contro quel vezzo che era fra tutti il più radicato nella città; e ripeteva questo invito con tanta insistenza da riuscire molesto. Meravigliato un tale che egli così continuamente insistesse perché fosse vituperato il mestiere che egli stesso faceva, gli chiese a che volesse riuscire con le sue sollecitazioni: «Qui», rispose l'usuraio, «sono moltissimi che dànno a prestito con usura, e poca gente viene da me e non guadagno niente. Ma se gli altri si persuadessero di smettere, io farei il guadagno che ora tutti assieme fanno». Questa storia mi narrò ridendo quel frate.
CLVIII

NOVELLA FACETISSIMA DEL CUOCO GIANNINO

Giannino, cuoco di Baronto Pistoiese, che aveva fatto il cuoco anche a Venezia, narrò al pranzo dei segretari una novella molto faceta. Fuvvi una volta un Veneziano sciocco che fu offeso da un'ingiuria, e desiderava di avere dei figliuoli che gliela avessero vendicata. Ma la moglie era sterile ed egli pregò un amico, che diceva di essere assai abile artefice per procrear figliuoli, perché gli facesse questo favore. E l'amico pose ogni sua cura per far le parti del marito. Un giorno che questi, per non disturbar la grande opera, l'aveva lasciato a lavorare il campo, e passeggiava per la città, incontrò il nemico suo ancor più minaccioso dell'usato: «Oh! oh! », disse il nostro uomo, «taci tu, stolto; ché non sai ciò che contro di te si faccia in casa mia; e se tu lo sapessi, freneresti le tue minacce e penseresti a te stesso. Si fa, sappilo dunque, si fa quello che farà poi le mie vendette».
CLIX

DI UN VENETO SCIOCCO CHE ESSENDO A CAVALLO

PORTAVA GLI SPERONI IN TASCA

Ci raccontò ancora una simile sciocchezza di un altro Veneziano, il quale, essendo montato a cavallo per andare in villa, teneva gli speroni in tasca. E poiché il cavallo lentamente camminava, egli lo batteva spesso ai fianchi coi talloni: «Ah! non ti muovi?», gli diceva: «se tu sapessi che cosa ho in tasca, tu cambieresti il passo».
CLX

DI UNO SCIOCCO VENEZIANO

CHE FU DERISO DA UN CIARLATANO

Narrò ancora un'altra novella, della quale ridemmo moltissimo. Disse che venne una volta a Venezia un ciarlatano, che aveva dipinto in una banderuola un ordegno maschile cinto da molte legature. Andò da lui un Veneziano e gli chiese che cosa significasse quella distinzione; e il ciarlatano, per ridere, disse che il suo affare era di tal natura, che se una donna ne avea solo la prima parte, faceva dei mercanti; la seconda, dei soldati; la terza, dei capitani; la quarta, dei papi; e chiedeva il prezzo dell'opera proporzionalmente. Ciò credette prontamente lo stolto, e, narrata la cosa alla moglie, chiamò a casa sua il ciarlatano, e stabilito il prezzo, volle che gli facesse un figliuolo soldato. E quando questi fu sulla moglie, il marito fece finta di andarsene, ma si nascose dietro il letto; e mentre essi erano intenti a fabbricare il soldato, saltò fuori improvvisamente lo sciocco e spinse di dietro l'uomo con forza, perché v'entrasse anche la quarta parte: «Per i Santi Evangeli di Dio», esclamò, «avrò un papa!» e credeva di aver frodato l'amico.
CLXI

DI UN VENEZIANO CHE ANDAVA A TREVISO E CHE EBBE

UNA SASSATA NELLE RENI DAL SERVO

Un Veneziano, che andava a Treviso, cavalcava un cavallo preso a nolo ed aveva il servo dietro a piedi. E nell'andare, questi ebbe dal cavallo un calcio in una gamba, e adirato pel dolore, afferrato un sasso per far male al cavallo, lo scagliò per caso contro le reni del padrone; e questi, da sciocco, credette che la cosa gli venisse dal cavallo; e poiché rimproverava il servo che in causa della ferita lo seguiva lentamente e di lontano: «Non posso venir più in fretta», gli rispose questi, «per causa del calcio che mi fa male». «Non te ne affliggere», rispose il padrone, «che è un cavallo che ha questo vizio; anche a me poco fa ha esso dato un gran calcio nelle reni».
CLXII

DI UNA VOLPE CHE FUGGIVA DAI CANI E CHE UN VILLANO

NASCOSE NELLA PAGLIA

Una volpe, che fuggiva da' cani che la inseguivano nella caccia, si incontrò in un villano che sull'aia batteva il suo grano, pregandolo a difenderla dai cani e promettendogli di non dargli più danno al pollaio. Il villano acconsentì, e presa una forcata di paglia, coprì con essa la volpe. Poco dopo vennero i cacciatori a chiedergli se avesse vista una volpe che fuggiva e che via avesse presa. Ed egli rispose loro che la volpe era andata per una certa strada, con le parole, ma cogli occhi e col gesto indicava ch'essa era sotto la paglia; e i cacciatori, più attenti alle parole che ai gesti, continuarono la loro via. Allora il villano, scoperta la volpe: «Mantieni dunque», le disse, «la promessa che mi hai fatta, perché l'hai scampata per le mie parole, avendo io detto che eri lontana». Ma essa, che aveva avuta grande paura ed aveva visti i gesti del villano: «Le tue parole», rispose, «furono buone, ma l'azione cattiva». Questo va detto di coloro che dicono una cosa e ne fanno un'altra.
CLXIII

DI UN FIORENTINO CHE COMPRO' UN CAVALLO

Un Fiorentino, che io conosco, fu costretto a vivere a Roma per comprare un cavallo di cui aveva bisogno; e pattuì col venditore, che chiedeva venticinque ducati per prezzo ed era troppo caro, di dargliene quindici alla mano e di voler essere debitore del resto. Il giorno dopo, quando venne a chiedere i dieci ducati che rimanevano, ricusò di darglieli il Fiorentino: «Abbiamo stabilito», egli disse, «io sarei tuo debitore di dieci ducati; ma se io te li pagassi, non sarei più debitore».
CLXIV

FACEZIA DI GONNELLA SALTIMBANCO

Gonnella, che fu un saltimbanco molto faceto, promise per pochi denari, di far diventare indovino un tale di Ferrara, il quale desiderava molto questa cosa. Lo fece venire una volta seco in letto, e silenziosamente mandò fuori dal ventre un grande vapore, poi gli disse di mettere la testa sotto le lenzuola; e quegli la mise e la ritrasse tosto pel gran puzzo: «Tu hai fatto un gran peto», gli disse; e Gonnella: «Paga tosto il tuo denaro, perché hai indovinato».
CLXV

ALTRA FACEZIA DI UNO CHE VOLEVA DIVENTARE INDOVINO

Anche un altro gli chiese di diventare indovino: «Con una pillola sola», gli disse, «ti farò tale», e fatta una piccola pillola di sterco, glie la pose in bocca, e quello sputò fuori pel fetore. «La pillola che mi hai data», gli disse, «sa di sterco». E Gonnella gli rispose che aveva indovinato giustamente e lo richiese del prezzo che avevano stabilito
CLXVI

DI ALCUNI PRODIGI NARRATI A PAPA EUGENIO

Quest'anno, d'ottobre, essendo di nuovo venuto il Pontefice a Firenze, si narrò di molti prodigi e da persone di tanta fede che a non credergli sembrerebbe follia. Lettere giunte da Como da persone onoratissime che hanno vista la cosa, narrano che in un certo luogo che è lontano cinque miglia di là, alle ventun'ora di sera, fu vista una gran moltitudine di cani che parevano rossi e che si credette fossero quattromila, andare verso la Germania, e seguivano questa prima schiera una gran quantità di bovi e di pecore, dopo questi venivano fanti e cavalieri divisi in coorti ed in bande, alcuni dei quali collo scudo e in così gran numero da parere un esercito; e alcuni di essi pareva che avessero il capo, altri senza capo si vedevano. L'ultima schiera era di un uomo grandissimo come un gigante; stava sopra un grandissimo cavallo e aveva seco gran quantità di giumente di tutte le sorta. Questo passaggio durò quasi tre ore e lo videro in diversi luoghi; e di ciò sono molti testimoni, uomini e donne, che per veder meglio si avvicinarono. E dopo il tramonto del sole, come se passassero ad altri luoghi, non si videro più.
CLXVII

ALTRO PRODIGIO

Dopo pochi giorni da Roma raccontarono altre cose, e di non dubbia fede, poiché vi sono le prove. Il venti di settembre si scatenò un turbine di venti e furono strappate dal suolo le mura di un castello abbandonato chiamato Borghetto, che è lontano sei miglia dalla città, e la chiesa antichissima che è vicina a quel luogo, e le pietre erano così sminuzzate che pareva fossero state le mani dell'uomo. In una bettola, che era luogo di riposo pei viandanti e dove molti si erano rifugiati, tutto il tetto fu sollevato e portato molto lungi di là sulla via, senza che ne venisse danno ad alcuno. La torre della chiesa di Santa Ruffina, che è lontana dieci miglia dalla città dall'altra parte del Tevere, e verso il mare, in un luogo che si chiama Casale, fu svelta dal suolo e rovinò. E a coloro che meravigliati ne chiesero la cagione, due bifolchi, che stavano a Casale a coltivare i campi, venuti per questi avvenimenti a Roma, narrarono di avere spesso veduto camminare per le foreste vicine quel cardinale detto il Patriarca, che poco tempo prima era morto di ferita, con una veste di lino, com'è dei cardinali, e col berretto quadro come soleva portarlo, mesto, che si lagnava e piangeva. E lo videro quel giorno in cui fu così violento il turbine del vento, là in mezzo, fra i venti, abbracciare quella torre e strapparla dal suolo e rovinarla a terra. Oltre a ciò molti grossi alberi e querci furono divelti dalle radici e gettati lontano. Nelle quali cose prestandosi comunemente poca fede, molti andarono a vedere e dissero che era vero.
CLXVIII

DI UN NOTARO FIORENTINO DISONESTO

Un notaro di Firenze, e che guadagnava assai poco dall'arte sua, pensò a qualche altra scaltrezza per guadagnar danaro e andò da un giovane a chiedergli se gli erano stati restituiti cinquecento fiorini, che suo padre aveva una volta prestati ad un tale che era già morto. Il giovane, che non sapeva alcuna cosa di ciò, disse che tale debito egli non aveva visto in nome del padre. Il notaro asseriva che l'istrumento l'aveva egli stesso rogato, e spinse il giovane a chiedere ciò che doveva dinanzi al podestà, rinnovando con denaro l'atto. Il figlio di colui che si diceva essere debitore, quando fu citato, negò che il padre suo avesse mai presa alcuna cosa in prestito, e che di quest'affare nulla risultava, com'è uso dei mercanti, dai suoi libri; e subito andò dal notaro e lo prese a rimbrottare come uomo falso, che aveva scritta cosa che non era avvenuta. E il notaro: «Tu non sai», gli disse, «figlio mio, che nel tempo in cui fu fatto quell'affare tu non eri ancor nato; tuo padre prese a prestito quella somma, ma la restituì dopo pochi mesi, ed io stesso ho fatto il contratto pel quale tuo padre e assolto di quel debito». E quello diedegli il denaro per rinnovar l'istrumento e fu tolto da quella molestia. E così con bella frode il notaro ebbe denaro da entrambi.
CLXIX

DI UN MONACO CHE INTRODUSSE IL CORDONE

IN UN FORO DI UN'ASSICELLA

Nel Picentino è una città chiamata Iesi. In essa eravi un frate, che aveva nome Lupo, il quale amava una giovinetta che era anche vergine; e questa, esortata molte volte, cedette e acconsentì a far la voglia del frate. Ma temendo di dover provare troppo grave dolore, esitava alquanto, onde il frate disse che avrebbe interposta una tavoletta di legno, per il foro della quale avrebbe lanciata la freccia. Poi prese una tavoletta di abete sottilissima, la perforò, e andò di nascosto dalla fanciulla, introdusse il cordone nel foro, e prese a baciarla soavemente, mentre sotto le vesti cercava il buon boccone. Ma il cordone suddetto, per la bellezza del viso e per il contatto di sotto, risvegliatosi, prese a gonfiarsi stranamente e fuor di misura entro il foro, rimanendovi come strangolato; e la cosa ben tosto fu a un punto tale, che non potea più né entrare né uscire senza grande dolore. Cambiato in dolore il piacere, il frate prese a gridare ed a gemere per il martirio troppo grave. La fanciulla atterrita voleva consolar l'uomo, e lo baciava e voleva che compiesse la cosa desiderata, e gli accresceva il dolore; perché aumentandosi in quel modo il volume, lo spasimo si facea peggiore. E il disgraziato si doleva e chiedeva dell'acqua fredda per calmare quel gonfiore, bagnandolo. La ragazza, che aveva paura di que' della casa, non osava chiedere acqua; poi, commossa dalle grida e dal dolore di quell'uomo, andò a prenderne, e bagnatolo, tolse alquanto il gonfiore. E come un po' di rumore si faceva nella casa, il frate, desideroso di svignarsela, tolse il cordone dalla tavoletta, ed era scorticato, massime al di sopra; e quando dové chiamare il medico per la cosa, la novella venne sulle bocche di tutti. Ché se a tutti costassero altrettanto i loro vizi, molti sarebbero più continenti.
CLXX

ORRIBILE STORIA DI UN GIOVANE

CHE MANGIAVA I BAMBINI

Io racconterò ancora, tra queste fiabe, una storia nefanda ed orribile, non mai udita ne' secoli addietro, che io stesso credevo favolosa, ma della quale ho potuto convincermi per una lettera di un segretario del Re. Ecco come press'a poco era scritto in una parte di quella lettera. «A dodici miglia da Napoli è avvenuto un fatto mostruoso, in un luogo de' monti di Somma, dov'è un borgo così chiamato. È stato preso e condotto dal Podestà un ragazzo di circa tredici anni, che aveva mangiato due bambini di tre anni. Egli li attirava con blandizie in una spelonca, li impiccava e li tagliava a pezzi, e parte di quella carne mangiava cruda, parte cotta al fuoco. Ed ha confessato di averne mangiati molti altri, perché quelle carni gli sembravano più saporite delle altre; e che ne mangerebbe sempre, se potesse. E poiché si dubitava che ciò facesse per pazzia, rispose saggiamente sulle altre cose, e constò che operava non per demenza ma per ferocia».
CLXXI

DI UN CAVALIERE FIORENTINO CHE FINSE DI ANDAR FUORI

DI CASA E SENZA SAPUTA DELLA MOGLIE SI NASCOSE

NELLA STANZA DA LETTO

Un cavaliere fiorentino, uomo podagroso, il nome del quale taccio per suo onore, aveva moglie e questa aveva gittati gli occhi sull'intendente della casa. Di ciò s'era egli accorto, e in un giorno di festa finse d'andar fuori di casa, e nella stanza da letto, senza saputa della moglie, si nascose. Questa, credendo che il marito fosse lontano, andò tosto dall'intendente e lo chiamò nella stanza: «Voglio», gli disse dopo poche parole d'accoglienza, «che noi facciamo fra di noi qualche giuoco». E avendo l'altro acconsentito: «Fingiamo», disse la donna, «di fare fra di noi la guerra, poi concludiamo la pace». E poiché l'altro non capiva: «Lottiamo un poco», disse ella, «e quando mi avrai distesa per terra, metti la tua freccia nella mia ferita e allora con iscambievoli baci concluderemo la pace». E la cosa piacque molto all'uomo, che aveva sempre udito far le lodi della pace e che la pace sarebbe stata tanto soave. E poiché entrambi giacevano e ormai si preparavano alla pace, il marito uscì dal nascondiglio: «Cento volte», egli disse, «ai miei giorni ho io procurata la pace; ma questa sola contro l'uso mio, non voglio che si faccia». Così se ne andarono, senza aver potuto concluderla.
CLXXII

DI UN TALE CHE VOLEA FARSI CREDERE DI UNA GRANDE

CASTITA' E CHE FU SORPRESO IN ADULTERIO

Un tale nostro concittadino, che voleva sembrare uomo casto e di grandissima religione, fu una volta sorpreso da un amico nell'atto, e fu acerbamente da lui redarguito che egli, che predicava la castità cadesse in così brutto peccato. «Oh! oh!» rispose, «non credere che ciò io faccia per lussuria, ma bensì per domare e macerare questa misera carne e per purgare i reni». E son così fatti questi pezzi d'ipocriti, che fanno di ogni erba fascio e vogliono sempre coprire con qualche onesto velame la loro ambizione e le loro nefandità.
CLXXIII

SULLO STESSO SOGGETTO

Un eremita, che dimorava a Pisa, al tempo di Pietro Gambacorta, condusse una notte nella sua cella una donna pubblica e se ne servì una ventina di volte, ma sempre movendosi, per sfuggire il peccato di lussuria, dicendo in volgare: «Dòmati, carne cattivella». E quando la donna lo disse, e' fu cacciato dalla città.
CLXXIV

DI UN POVER'UOMO CHE GUADAGNAVA COLLA BARCA

Un povero che traeva il viver suo traghettando il fiume, una sera, che non vi aveva passato alcuno, tornava tardi a casa, mesto, quando di lontano vide uno che gridava perché lo passasse; e sperando nel piccolo guadagno, passò all'altra riva quell'uomo. Ma avendogli chiesto il denaro, quegli giurò che non ne aveva affatto e gli promise di dargli buoni consigli in premio dell'opera sua: «Come», disse il barcaiuolo, «mentre la mia famiglia muore di fame, dovrò darle de' consigli a mangiare?». «E questo soltanto», rispose, «io posso dare». Il barcaiuolo, molto adirato, chiese che cosa dicessero questi consigli: «Che tu», disse il viaggiatore, «non devi mai trasportare alcuno senza aver prima avuto il denaro; e che tu non dica mai a tua moglie che un altro lo ha più abbondante». Udite queste cosee e' tornò afflitto a casa. E alla donna, che gli chiese denaro per comprar del pane, disse, che in luogo di denaro egli recava dei buoni consigli, e le narrò la cosa, e le disse i consigli che aveva ricevuti. La donna quando sentì parlar d'abbondanza, drizzò le orecchie: «Forse che», chiese, «voi uomini non ne avete tutti la stessa quantità?». «Che! «rispose, «vi sono fra di noi grandi differenze; il nostro prete ne ha forse più del doppio», e stendendo il braccio, le mostrò la misura. La donna, tosto accesa di voglia, volle il più presto che poté esperimentare se suo marito avesse detto il vero. Così mutata in stoltezza quella che doveva esser sapienza, imparò il pover'uomo che non si hanno a dire le cose che ci sono nocive.


CLXXIV

DI UN POVER'UOMO CHE GUADAGNAVA COLLA BARCA

Un povero che traeva il viver suo traghettando il fiume, una sera, che non vi aveva passato alcuno, tornava tardi a casa, mesto, quando di lontano vide uno che gridava perché lo passasse; e sperando nel piccolo guadagno, passò all'altra riva quell'uomo. Ma avendogli chiesto il denaro, quegli giurò che non ne aveva affatto e gli promise di dargli buoni consigli in premio dell'opera sua: «Come», disse il barcaiuolo, «mentre la mia famiglia muore di fame, dovrò darle de' consigli a mangiare?». «E questo soltanto», rispose, «io posso dare». Il barcaiuolo, molto adirato, chiese che cosa dicessero questi consigli: «Che tu», disse il viaggiatore, «non devi mai trasportare alcuno senza aver prima avuto il denaro; e che tu non dica mai a tua moglie che un altro lo ha più abbondante». Udite queste cosee e' tornò afflitto a casa. E alla donna, che gli chiese denaro per comprar del pane, disse, che in luogo di denaro egli recava dei buoni consigli, e le narrò la cosa, e le disse i consigli che aveva ricevuti. La donna quando sentì parlar d'abbondanza, drizzò le orecchie: «Forse che», chiese, «voi uomini non ne avete tutti la stessa quantità?». «Che! «rispose, «vi sono fra di noi grandi differenze; il nostro prete ne ha forse più del doppio», e stendendo il braccio, le mostrò la misura. La donna, tosto accesa di voglia, volle il più presto che poté esperimentare se suo marito avesse detto il vero. Così mutata in stoltezza quella che doveva esser sapienza, imparò il pover'uomo che non si hanno a dire le cose che ci sono nocive.
CLXXV

DI UNO SCIOCCO MILANESE CHE PORTO' AL CONFESSORE

IL MANOSCRITTO DEI SUOI PECCATI

Un certo milanese, sia per sciocchezza, sia per ipocrisia, sia per paura di dimenticarli, aveva scritto in un grosso quaderno i suoi peccati, e andò con questo una volta da un uomo molto dotto e perito in sì fatta materia, chiamato Antonio Randanense di Milano dell'ordine dei Minori, per confessare i peccati suoi; e pòrtogli il quaderno, lo pregò di leggerlo, ché esso conteneva tutta la confessione de' suoi peccati. L'uomo avveduto e saggio, che vide che la lettura di quel volume richiedeva molto tempo, conosciuta la stoltezza dell'uomo, lo interrogò sommariamente, poi gli disse: «Io ti assolvo compiutamente di tutti i peccati che sono qui scritti». E poi che l'altro gli chiese qual penitenza fosse per infliggergli: «Per un mese», gli disse, «tu leggerai questo codice sette volte il giorno». E per quanto dicesse che ciò non si potea fare, il confessore rimase sull'avviso. E così la prolissità dello sciocco fu vinta dalla risposta.
CLXXVI

DI UN TALE CHE ANDANDO A VISITARE I PARENTI DELLA MOGLIE

VOLEVA ESSERE LODATO DA UN AMICO

Un tale che era di poco ferma salute, e poco ricco, aveva preso moglie; andò, d'estate, una sera a cena dai parenti di questa, e condusse seco un amico, pregandolo di aggiungere sempre col discorso a ciò che egli avrebbe detto. Quando la suocera lodò la veste che egli indossava, disse che ne aveva un'altra più bella, e l'amico che esso ne aveva una il doppio più bella ancora. E quando il suocero gli chiese se avesse dei possedimenti, ed ei rispose che aveva un fondo fuori del paese, che gli rendeva abbastanza per vivere: «Non ricordi dunque», disse l'amico, «l'altro fondo che possiedi e che ti produce tanto denaro?» E così via, di tutte le cose che egli vantava, l'amico aggiungeva il doppio. E poi che il suocero gli diceva che mangiava poco e lo pregava di prender cibo: «Io», disse, «all'estate non sto bene»; e l'amico, per mantenere le cose come aveva cominciato: «Egli è», soggiunse, «assai più di ciò che egli dica; perché, se sta male all'estate, sta assai peggio nell'inverno». A queste parole tutti scoppiarono dalle risa, e la esagerazione dell'uomo, indirizzata a false lodi, ebbe il premio che si conviene alla stoltezza.
CLXXVII

DI PASQUINO DA SIENA CHE DISSE AD UNO DEL CORPO

DI STATO CHE QUESTO CREPASSE

Pasquino da Siena, che fu uomo gioviale e faceto, quando la città mutò governo, si recò esule dalla patria a Ferrara; venne qui per vederlo un cittadino senese, uomo di poco valore, che da Venezia tornava a Siena; fu ricevuto cordialmente da Pasquino, e nella conversazione promisegli l'opera sua se egli in favor suo potesse qualche cosa e mostrando per vanità che egli a Siena era molto potente, aggiungendo che egli faceva parte del corpo di Stato: «Che Dio voglia», disse Pasquino, «che questo presto crepi affinché tu e i pari tuoi ne possano il più presto uscire». E così giocondamente punì la vanità di quel tale.
CLXXVIII

DI UN DOTTORE CHE ALLA CACCIA PARLAVA IN LATINO

ED ERA IGNORANTE

Un dottore di Milano, uomo sciocco ed ignorante, un dì che vide un tale che con una civetta andava alla caccia, lo pregò di condurlo seco, perché desiderava di vedere. Il cacciatore acconsentì e nascose il nostr'uomo sotto le frondi vicino alla civetta, col patto che non proferisse parola, perché gli uccelli non si spaventassero. Ed essendo venuti molti uccellini, quello sciocco lo gridò subito, perché l'altro tirasse le reti. E gli uccelli, udita la voce, scapparono. Ma sgridato acerbamente dal cacciatore, promise il silenzio; ed essendo gli uccelli tornati, quello stolto lo disse prontamente con parole latine: «Aves permulta sunt», credendo in questa lingua gli uccelli non avrebbero compreso. E questi fuggirono di nuovo, e il cacciatore, smarrita la speranza di far buona preda, rimproverò anche più acerbamente il dottore di aver parlato. E questi: «Forse che», disse, «gli uccelli sanno il latino? « Credeva egli che se ne fossero andati non pel suono, ma per il significato delle parole, come se le avessero capite.
CLXXIX

DI UNA DONNA CHE SI CREDEVA LODATA UDENDO DIRE

CHE ERA MOLTO APERTA

La moglie di un tale di Siena era coll'amante nel giuoco, e, dopo questo, avendogli egli detto per contumelia che non aveva mai trovato donna meglio aperta, ella credendo che ciò le tornasse a lode: «Questo che dici», gli rispose, «è per bontà tua, non per merito mio; magari che quello che mi hai detto fosse vero! che io per questo mi riputerei più nobile e degna di maggior stima».
CLXXX

FACEZIA DETTA DA UNA GIOVANE CHE ERA SOTTO

IL DOLORE DEL PARTO

Una giovane di Firenze, un po' vuota di testa, era nel parto e soffriva atroci dolori; e duravano già da molto tempo, quando la comare, con un lume, andò ad osservare di sotto se il bambino non stesse per uscire, e la partoriente le disse di guardare anche dall'altra parte, perché qualche volta il marito aveva preso quella via.
CLXXXI

DI UNO CHE LODO' GRANDEMENTE UN GIOVANE ROMANO

Uno de' miei amici lodava assai un giovane romano di bellissime forme, e oltre ogni dire virtuoso, che coltivava le buone lettere, e ne esaltava la bellezza e il costume. E infine, dopo averne fatte molte lodi: «Io penso», disse, «che nostro signor Gesù Cristo alla sua età non fosse altrimenti». Enorme elogio della bellezza, che né Cicerone né Demostene avrebbero saputo dire!
CLXXXII

DI MOLTE PERSONE CHE AVEVANO DIVERSI DESIDERI

Un giorno, a Firenze, erano in molti che parlando fra di loro mostravano di avere diversi desiderii, come avviene. Uno diceva di voler esser Papa, un altro Re, un altro non so che cosa; allora un fanciullo un po' loquace che era presente: «Ed io», disse, «vorrei esser popone». E chiestagli di ciò la ragione: «Perché», rispose «tutti mi fiuterebbero di dietro« Perché è costume di fiutare in quel luogo i poponi quando si comprano.
CLXXXIII

DI UN MERCANTE CHE PER FAR L'ELOGIO DELLA SUA DONNA

DICEVA CHE NON AVEVA MAI FATTO RUMORI PER DI DIETRO

Un mercante faceva una volta, dinanzi al padrone dal quale dipendeva, l'elogio di sua moglie, e fra le altre diceva che non l'aveva mai udita mandar fuori rumori disaggradevoli di ventre. Il padrone se ne meravigliò, e negando che ciò potesse essere, scommise una cena che, prima che fossero passati tre mesi, la moglie avrebbe lasciato andare qualcuno di que' rumori; e il dì dopo mandò a chiedere in prestito al mercante cinquecento ducati, dicendo che li avrebbe restituiti fra otto giorni; eragli piuttosto grave di dare così somma in prestito; tuttavia consentì, per quanto di malavoglia. E mandò il denaro. E atteso con impazienza il giorno convenuto, andò al padrone e lo richiese della somma; e questi, come se fosse oppresso da più grave cura' pregò il mercante che per essa gli prestasse altri cinquecento ducati, che dentro il mese prometteva di restituirgli. Il buon uomo negò lungamente, per causa della sua povertà, ma infine, per non perdere gli altri cinquecento, con molti sospiri li portò. Tornato a casa afflitto, con la testa smarrita, pensando molto, dubitando moltissimo, passava le notti insonni. Ed essendo spesse volte desto, udì molte volte la moglie, che dormiva, mandar fuori que' rumori. Trascorso il mese, il padrone chiamò a sé il mercante e gli chiese se dopo quel giorno non avesse mai udito sua moglie a fare rumore. Allora egli confessò il suo errore: «L'ho udita tante volte», disse, «che non una cena, ma dovrei perderci il patrimonio». E ciò detto, riebbe il denaro suo e pagò la cena. Molte cose non s'intendono da coloro che dormono.
CLXXXIV

SAPIENTISSIMA RISPOSTA AD UN CALUNNIATORE

Luigi Marsili, frate dell'ordine degli Agostiniani e uomo di eccellente ingegno e dottrina, abitò di recente a Firenze. Da vecchio aveva educato ed istruito nelle umane letture un povero giovane di nome Giovanni, che io ho conosciuto e che era del mio paese, e lo fece diventare poi uomo assai dotto. Un Fiorentino suo condiscepolo (poiché molti per apprendere venivano da quel vecchio), mosso da invidia, prese a dir male di nascosto di Giovanni col maestro, dicendogli che molta ingratitudine e' pensava e diceva male di lui. Questo fece molte volte, ed il vecchio, che era uomo di grande prudenza: «Da quanto tempo», gli chiese, «conosci tu Giovanni ? «E il detrattore gli rispose che non lo conosceva da più di un anno: «Mi meraviglio», soggiunse, «che tu stimi te stesso tanto sapiente e me creda tanto stolto da credere di avere tu meglio conosciuto la natura e i costumi di Giovanni in un anno, di quello che io in dieci». Sapientissima risposta che rimproverava la malvagità del detrattore e lodava la fede del giovane. E se così molti facessero, vi sarebbero meno invidiosi malevoli.
CLXXXV

FACETA RISPOSTA CHE SI PUO' APPLICARE A DIVERSI VESCOVI

Lo stesso, interrogato da un amico, che cosa volessero significare le due punte che sono nelle mitre dei vescovi, rispose che quella dinanzi esprimeva il Nuovo Testamento, quella di dietro l'Antico, i quali essi devono sempre avere in mente. E continuando l'altro ad interrogarlo, gli chiese ancora che cosa volessero dire i due nastri di velluto che cadono dalla mitra di dietro sulla schiena: «Che i vescovi», rispose, «non sanno né l'uno né l'altro». Faceta risposta che si può applicare a diversi vescovi.
CLXXXVI

DETTO FACETO DI UN TALE SU FRANCESCO FILELFO

Una volta, nel palazzo apostolico, nella riunione de' segretari, alla quale per solito venivano molti dotti uomini, cadde il discorso su la impura e turpe vita del più scellerato degli uomini che fu Francesco Filelfo, e avendo molti narrate molte malvagità di lui, chiese uno se il Filelfo fosse di nobile stirpe. Allora uno de' suoi compatriotti, buon uomo assai gioviale, composto il volto a molta gravità: «Per verità», disse, «e' rifulge di gran nobiltà, perché suo padre alla mattina vestiva sempre vesti di seta». Voleva dire che egli era figliuolo di prete; perché i preti nelle funzioni usano per lo più vestimenti di seta.
CLXXXVII

FACEZIA SULLO STESSO

E allora sorse a dire un altro, che pure era uomo gioviale: «Non è da maravigliarsi se nipote di Giove egli abbia imitate le imprese del nonno, e abbia rapita un'altra Europa e un altro Ganimede». Il nostro amico ricordava con queste parole il ratto che Filelfo aveva fatto di una fanciulla greca, figlia di Giovanni Chrysoloras, che mandò poi in Italia quando se ne fu servito, e la storia di un certo giovinetto di Padova che per la sua bellezza egli avea condotto seco in Grecia.
CLXXXVIII

DI UN NOTAIO CHE SI FECE LENONE

In Avignone eravi un notaio francese molto conosciuto alla Curia Romana, il quale innamoratosi di una donna pubblica, lasciò l'arte sua e campava facendo il lenone. Costui' in principio dell'anno, indossò una veste nuova e scrisse sulla manica in parole francesi con lettere d'argento: «Di bene in meglio». Voleva dire che il suo nuovo mestiere riputava più onorevole di quello del notaio.
CLXXXIX

ISTORIA FACETA DI UN TAL PETRILLO CHE LIBERO'

UN OSPEDALE DALLA CANAGLIA

Il cardinale di Bari, che era napoletano, aveva un ospedale a Vercelli, che è nella Gallia Citeriore, dal quale ritraeva poco guadagno, per causa delle spese che bisognava fare ai poveri. E vi mandò uno de' suoi' che aveva nome Petrillo' per far denaro. Quando costui trovò l'ospedale pieno di malati e di oziosi, che consumavano tutte le rendite di quel luogo, vestito di un abito da medico, entrò nell'ospedale, e dopo aver visitato ogni sorta di piaghe: «Non vi è», disse, «alcuna medicina che sia atta a sanare le vostre piaghe, fuor che un unguento fatto col grasso d'uomo. Così oggi fra di voi si tirerà a sorte chi per risanar gli altri debba esser posto vivo nell'acqua ed esser cotto». Tutti fuggirono, atterriti da queste parole, temendo ognuno di dover per la sorte morire. E così liberò l'ospedale dalla spesa che si faceva per tutta quella gentaglia.
CXC

STORIA PIACEVOLE DI UN TALE CHE SI SERVI'

DI TUTTA UNA FAMIGLIA

Un Fiorentino aveva in casa sua un giovane che insegnava le lettere a' suoi figliuoli. Costui, colla continua dimora nella casa, ebbe prima la cameriera, poi la nutrice, quindi la padrona e finalmente gli stessi discepoli. Quando il padre, che era uomo molto gioviale, se ne accorse, chiamò segretamente il giovane nella sua stanza: «Poiché», gli disse, «vi siete servito di tutta la mia famiglia (e che buon pro vi faccia) voglio che ora di me stesso usiate».
CXCI

DEL SUONO

Una volta, al tempo di Bonifazio nono, venne fra alcune persone il discorso, su quale fra tutti i suoni fosse il più giocondo e il più soave. I pareri eran vari, quando Lito da Imola' che era segretario del cardinale di Firenze e che fu di poi cardinale, disse che fra tutti i suoni quello della campanella era il più giocondo per chi aveva fame. Perché è costume dei cardinali di far chiamare la famiglia a pranzo ed a cena al suono di una campanella, la quale spesso suona assai più tardi di quello che la desiderino certi appetiti e che è molto gradita agli orecchi di chi abbia fame. Tutti dissero che egli aveva risposto bene, e quelli in specie che si erano spesso trovati in quel caso.
CXCII

DEL FIGLIO DI UN PRINCIPE CHE IN CAUSA DELLA SUA

CATTIVA LINGUA DOVETTE RESTAR MUTO

PER COMANDO DEL PADRE

Un principe spagnuolo aveva una volta un figlio che per la sua lingua maledica e ingiuriosa erasi procurato molto odio; e per questa cagione il padre gli aveva comandato a tacer sempre, ed egli ubbidiva. Avvenne che entrambi andassero un giorno ad un solenne pranzo del Re, al quale era presente la Regina, e il giovane serviva attentamente come un muto il padre. La Regina, che poco onesta era, credendolo davvero sordo e muto, e sperando che le giovasse, chiese al padre di averlo al suo servizio e l'ottenne; e lo ebbe seco nelle più segrete cose, in modo che fu spesso testimonio delle sue oscenità. Dopo due anni fuvvi di nuovo il convito e il Re frattanto aveva spesse volte veduto il giovane che tutti credevano muto. Questi stava servendo la Regina, e il Re chiese a suo padre se per caso o per nascita fosse il figlio senza favella; rispose il padre che non era per l'una o per l'altra cosa, ma che ciò era per comando suo, in causa della cattiva lingua che aveva; e il Re lo pregò di dare a suo figlio licenza di parlare. Il padre resisté lungamente, dicendo che ne sarebbe venuto qualche scandalo, ma finalmente, per la preghiera del Re, comandò al figlio di parlare; e questi al Re tosto rivoltosi: «Voi avete», disse, «una donna tale, che non vi è donna pubblica né più lasciva né più impudente». II Re, confuso, gli proibì di continuare. È di fatti costume di certa gente, che per quanto parlino poco, parlano sempre male.
CXCIII

STORIA DI UN TUTORE

Daccono degli Ardinghelli, cittadino di Firenze, chiamato ad essere tutore di un pupillo, ne amministrò per lungo tempo i beni, e tutti li consumò a mangiare ed a bere; quando finalmente gli vennero chiesti i conti, il magistrato gli ordinò di presentare i libri dell'entrata e dell'uscita, come si dice; ed ei mostrò la bocca e il sedere, dicendo che non aveva fuori di quelli alcun libro di entrata e d'uscita.
CXCIV

DI UN FRATE CHE EBBE UNA COMARE

CON UNA GRAZIOSA ASTUZIA

Un frate dell'ordine dei mendicanti aveva gittati gli occhi su di una giovane comare assai bella, e si consumava di grande amore per lei. Ma poiché avea vergogna di chiederle cosa disonesta, pensò d'ingannarla con un'astuzia; e si fece vedere per molti giorni col dito indice fasciato, fingendo di essere tormentato da grave dolore. Finalmente, dopo che glie ne ebbe chiesto molte volte, la donna gli domandò se aveva provato qualche rimedio: «Moltissimi», rispose, ma non avevano giovato; uno solo ve ne era, indicatogli dal medico, ma del quale egli non si poteva servire, ché era di natura tale che solo a dirlo avrebbe arrossito; e poiché la donna lo esortava a dirlo, che per guarire di così grave male non doveva arrossire, egli con molta timidezza rispose o bisognava tagliarlo, o tenerlo per qualche tempo nel taglio di una donna, e che in quel calore sarebbesi ammorbidito il gonfiore; e per ragione di onestà non osava chiederlo. La comare, mossa a compassione, offri l'opera sua; ed egli, per verecondia, chiese di andare in un luogo oscuro, perché alla luce non avrebbe mai osato; e la donna acconsentì in buona fede. Il frate, quando fu al buio, fe' coricare la donna e, prima il dito, poi l'altro membro introdusse, e fece l'affare suo; poi disse che l'ascesso erasi rotto e che ne era uscito l'umore. Ecco come quel dito fu risanato.
CXCV

MOTTO FACETO DI ANGELOTTO SU DI UN CARDINALE GRECO

CHE ERA BARBUTO

Angelotto, cardinale romano, che in molte cose fu giocondissimo, un dì che vide venire alla Curia un cardinale greco che, come è costume del suo popolo, aveva una lunghissima barba, ad alcuni che si meravigliavano ch'ei non l'avesse tolta secondo la consuetudine degli altri: «Egli fa assai bene», disse, «perché fra tante capre è comodo che rimanga un becco».
CXXVI

DI UN CAVALIERE CORPULENTO

Un cavaliere, che era molto corpulento, entrò in Perugia, dove molti gli si fecero incontro (gli abitanti di quella città sono per natura pronti alla facezia), e presero a farsi beffe di lui, perché contro l'uso, dicevano, portava le valige dinanzi, ed egli rispose argutamente: «Io le porto dinanzi, perché ciò è necessario in una città di briganti e di ladri come è questa».
CXCVII

MOTTO FACETO DI UN GIUDICE AD UN AVVOCATO CHE CITAVA

LA «CLEMENTINA «E LA «NOVELLA «

Dinanzi ad una curia secolare, a Venezia, trattavasi di una causa testamentaria. Erano presenti gli avvocati delle parti, ognuno dei quali difendeva il diritto del suo cliente. Uno di questi, che era prete, citò in appoggio della sua difesa la Clementina e la Novella, riportando certi passi di quelle. Allora, uno de' più vecchi dei giudici, al quale quei nomi erano sconosciuti e che poca aveva della sapienza di Salomone, si volse con viso severo verso l'avvocato: «Che diavolo», disse, «non arrossisci di nominare in presenza di uomini come noi, donne impudiche e meretrici, e di portarci le loro parole come massime di legge?». Credeva quello sciocco che Clementina e Novella non fossero leggi, ma bensì nomi di donne, che l'avvocato come concubine avesse in casa.
CXCVIII

RIMEDIO PER EVITARE IL FREDDO

Io una volta chiesi come poteasi di notte evitare il freddo nel letto: «In quel modo» disse uno che era presente, «che usava un amico mio quando era agli studi. Imperocché, essendo egli solito di sgombrarsi il ventre dopo cena, quando da questo uso si asteneva, asseriva che la materia ch'egli tratteneva gli riscaldava il corpo». Rimedio questo, contro il freddo, che non è più usato
CXCIX

DI UN PREDICATORE

Uno che predicava al popolo nella festa di San Cristoforo faceva con molta eloquenza il panegirico del Santo, ripetendo spesso questa interrogazione: «E chi mai ebbe l'onore di portare il Salvatore? «e con molta noia continuava a chiedere: «Chi mai ebbe una consimile grazia?» Uno degli astanti, uomo allegro, stanco del lungo interrogare: «L'asino», rispose, «che portò insieme il figlio e la madre».
CC

DI UNA GIOVANE SEPARATA

DAL MARITO

Un giovane di Verona di belle forme condusse in moglie una giovinetta, e perché si abbandonava con troppo fervore al matrimonio, ne venne che fece il viso pallido e debole il corpo. La madre, che amava molto il figliuolo e che temeva un male più grave, condusse il figlio in villa, lontano dalla moglie. Questa, piangendo pel desiderio del marito, vide due passeri che facevano all'amore: «Andate», disse «andate via subito, ché se vi vede la suocera, vi manda uno in un luogo e l'altro in un altro».
CCI

CONTESA DI DUE UOMINI PER LA STESSA

FIGURA NEGLI STEMMI

Un Genovese, padrone di una grossa nave che per conto del re di Francia faceva la guerra contro gli Inglesi, aveva uno scudo sul quale era dipinta una testa di bue. Lo vide un nobile francese e disse che quella era la sua impresa e, venuti a contrasto, il Francese invitò a duello il Genovese; e questi accettata la sfida, discese in campo senza alcun apparato; l'altro con grandissima pompa venne. E allora disse il Genovese: «Per qual ragione siamo noi qui per combattere?» E l'altro: «Io affermo che il tuo stemma è mio e fu de' miei prima che de' tuoi fosse». E siccome il Genovese domandò che cosa portasser le armi sue: «Una testa di bue», rispose. «Allora», riprese, «non ci è bisogno di batterci, perché sul mio non è una testa di bue, ma di vacca». E col detto faceto fu delusa la vana esagerazione del Francese.
CCII

DETTO FACETO DI UN MEDICO CHE DAVA

LE MEDICINE A CASO

È costume in Roma che gli infermi mandino le urine ai medici con una o due monete d'argento perché conoscano e curino la malattia. Un medico, che io stesso conobbi, alla notte scriveva sulle carte (ch'essi chiamano ricette) vari rimedi per diversi mali, poi le poneva tutte in un sacco; e al mattino, quando gli portavano le urine per richiedergli il rimedio, egli metteva la mano nel sacco e prendeva su quella che per caso gli veniva, e diceva, dandola al cliente: «Prega Dio te la mandi buona». Misera condizione quella di coloro che e' curava non secondo ragione ma secondo fortuna.
CCIII

CONSIGLIO AD UN UOMO CHE ERA AFFLITTO PEI DEBITI

Uno di Perugia passeggiava per un vicolo, triste e cogitabondo, e incontrò un tale che lo interrogò sulla causa del suo dolore. Ed egli rispose che aveva molti debiti che non poteva pagare: «Va , dunque, sciocco», gli disse l'altro, «e lascia queste afflizioni a' tuoi creditori».
CCIV

PENA CHE FU INFLITTA AD OMICIDI GRECI E GENOVESI

Alcuni Genovesi che abitavano Pera (che è una città dei Genovesi vicino a Costantinopoli) essendo venuti a Costantinopoli per ragioni di commerci, ebbero contesa con dei Greci, e in essa alcuni rimasero morti, altri feriti. Essendosi chiesto all'imperatore di far giustizia di quegli omicidi, egli promise di farla tosto e ordinò che in pena del delitto fosse rasa ai Greci la barba, cosa che presso di loro è molto ignominiosa. Il Podesta de' Genovesi, che era a Pera, credendo di essere burlato, promise a' suoi compatriotti che egli stesso avrebbe vendicata l'ingiuria che era stata a loro fatta; e dopo qualche tempo entrò con altri Genovesi in Costantinopoli, ed uccisero e ferirono molti Greci. Allora l'Imperatore presentò vivissimo richiamo al Podestà di Pera, chiedendo pena del delitto; e questi promise che avrebbe puniti i colpevoli; e quel giorno che per la pena fu stabilito, prese gli uccisori e gli altri, e li condusse sulla piazza, come se li volesse far decapitare. Ed era accorso a quello spettacolo tutto il popolo di Pera, e tutti aspettavano la punizione; e v'erano ancora i sacerdoti parati con le croci, come se dovessero trasportare i cadaveri; allora il Podestà, imposto il silenzio per mezzo del banditore, fece radere il deretano a tutti i colpevoli, dicendo che i Genovesi portavano la barba non sulla faccia ma sulle natiche. Così fu resa uguale pena ad uguali delitti.
CCV

DETTO GIOCOSO SU I ROMANI CHE MANGIANO LE «VIRTU'

Ai primi di maggio i Romani raccolgono varie specie di legumi che chiamano virtù, le cociono e le mangiano alla mattina. Francesco Lavegni, di Milano, per ridere parlandosi fra amici di questo costume: «Non è da meravigliare», disse, «che i Romani abbiano degenerato dai loro maggiori, perché ogni anno le loro virtù hanno consumato mangiandole».
CCVI

DI UN TALE CHE VOTO' UN CERO ALLA VERGINE MARIA

Quando mi trovavo in Inghilterra, udii un motto faceto di un tale che era capitano di una nave mercantile, di Irlanda. In alto mare, una volta era la sua nave agitata e percossa dai flutti, e scossa dalla tempesta in modo che si disperava di salvarla; il capitano fece voto che, se la sua si salvasse dalla tempesta, avrebbe donato ad una certa chiesa della Vergine Maria, che era insigne per simili miracoli, una candela di cera grossa come l'albero maestro; e poiché l'amico gli disse che quel voto era di impossibile attuazione, perché in tutta Inghilterra non v'era tanta cera per fare una simile candela: «Oh!» disse il capitano, «taci; e lasciami promettere quel che mi piace alla madre di Dio; ché, quando l'avremo scampata, si contenterà di una candela da un soldo».
CCVII

ALTRA FACEZIA DI UNO CHE FECE VOTO A SAN CIRIACO

Fu dello stesso avviso un mercante d'Ancona verso San Ciriaco, che è il patrono della città e che si dipinge con una lunga barba. Una volta che la sua nave era combattuta dalla tempesta e che egli temeva la morte, fe' voto di donare una casa a San Ciriaco. Sfuggito il pericolo, confessò il voto a] curato della parrocchia, e questi (perché gli sarebbe venuto guadagno) lo esortava a compiere il voto, ed ei rispose che si sarebbe levato di dosso quel peso; e qualche volta fu anche ripreso e sempre trasse in lungo la cosa; finalmente, essendo di continuo richiesto, o per empietà o perché il sacerdote lo avesse annoiato: «Ohé!» gli disse un giorno, «non mi tediate più con questo affare; ché io ho ingannato al mondo molta gente che aveva la barba anche più lunga di quella di Ciriaco».
CCVIII

DI UNA VEDOVA CHE DESIDERAVA

UN MARITO DI ETA' AVANZATA

Una vedova diceva ad una vicina sua che, per quanto essa non curasse più le cose del mondo, avrebbe tuttavia desiderato un uomo tranquillo, di età matura, più per vivere assieme e per aiutarsi scambievolmente nella vita, che per altra ragione, perché meglio alla salute dell'anima doveva porsi pensiero che alle miserie della carne; e quella promise di trovarle un uomo di tal fatta, e il dì dopo venne a casa della vedova e disse che glie l'aveva trovato, e che aveva tutte le buone qualità che ella desiderava, e specialmente quella da lei preferita, ossia ch'egli era privo di ciò che hanno gli uomini. E la vedova allora: «Costui io non voglio ad alcun patto; che se manca il piacere (con questo nome chiamava il generante) poiché io voglio vivere in pace col marito, chi si farà mediatore, se quando, come avviene, nato un grave alterco fra di noi, ci sia bisogno di alcuno che faccia ritornar la concordia?».
CCIX

DI UN FRATE CHE INGROSSO' UN'ABBADESSA

Un frate dell'ordine dei Minori amava un'abbadessa di un convento di Roma, la quale io ho conosciuta, e la richiedeva spesso di giacer seco; e la donna non voleva, per timore di concepire; e spaventata per la pena che ne avrebbe avuta; e il frate le promise un breve (come li chiamano) che ella avrebbe portato appeso al collo con un filo di seta e per virtù del quale non avrebbe potuto aver figli e così potea ella accondiscendere alla sua voglia. Ed ella, che desiderava che ciò fosse, lo credette; e il frate si godé molte volte la donna; dopo tre mesi, quando s'accorse che la donna si faceva più rotonda, il frate scappò, e l'abbadessa vedendosi ingannata, scucì il breve e lo aprì per vedere ciò che dentro vi fosse scritto; e v'erano queste parole in cattivo latino: Asca imbarasca non facias te supponi et non implebis tascam. Che vuol dire, che non lasciandosi fare, non si sarebbe riempita. E questo è il migliore incanto contro la gravidanza.
CCX

MERAVIGLIOSA RISPOSTA DI UN FANCIULLO

AL CARDINALE ANGELOTTO

Angelotto, cardinale Romano, che era uomo mordace e sempre pronto alla satira, aveva assai poca prudenza. Quando Papa Eugenio fu a Firenze, venne a lui per visitarlo un giovinetto decenne, molto astuto, che gli si presentò con un discorso di poche ma assennate parole. Angelotto, meravigliato della gravità del fanciullo e della eleganza con la quale e' parlava, gli fece molte domande, alle quali prontamente il fanciullo rispose; e voltosi verso gli astanti: «Questi fanciulli», disse, «che hanno ingegno e coltura alla loro età, quando crescono con gli anni calano di intelletto, e quando son vecchi si fanno stolti». E allora il fanciullo, senza turbarsi: «Voi, per verità, dovevate essere il più sapiente di tutti nella tenera età». Il Cardinale rimase meravigliato della pronta ed arguta risposta, e la sua stoltezza fu castigata da un fanciullo.
CCXI

DEL GARZONE DI UN CALZOLAIO CHE SI SERVIVA

DELLA MOGLIE DEL PADRONE

Il garzone di un calzolaio di Arezzo veniva spesso alla casa del padrone, dicendo che ivi era più comodo di cucire le scarpe. Questa sua frequenza fe' nascere il sospetto nel marito, che tornato un giorno inaspettato a casa, trovò il garzone con la moglie nel fatto, e rivoltosi a lui: «Per questa fattura», gli disse, «non ti pagherò certamente, ma ti mando al diavolo».
CCXII

RACCONTO GRAZIOSO DI UNA GIOVANE

CHE TIRAVA PETI

Una giovane maritata andava a visitare i parenti, e attraversava col marito un bosco. In questo vide alcune pecore che avean di sopra i maschi, e chiese perché questi piuttosto l'una che l'altra scegliessero, e l'uomo le rispose per gioco: «La pecora che manda un peto, quella è subito coperta dal maschio». E la donna chiese se questo fosse anche il costume degli uomini. E avendo l'uomo detto che questo era, ella tosto diede in un gran rumore; e l'uomo, preso al suo giuoco, fe' l'affar suo con la moglie. Dopo avere per un poco continuato il cammino, la donna di nuovo dié un colpo. E il marito ripeté la cosa. Ed erano insieme venuti al limite della foresta, che la donna, godendone, tonò per la terza volta. Ma l'uomo, che era stanco del viaggio e del giuoco, disse: «Neanche se cacassi le viscere io ti rinnoverei quell'ufficio».
CCXIII

SE A DIO SIANO PIU' ACCETTE LE PAROLE O LE OPERE

Un tale che io conosceva, uomo assai arguto, chiese una volta a un frate, se a Dio fossero più accette le parole dei fatti; e avendo il frate risposto, i fatti: «Allora», disse, «è assai più meritorio fare un Pater noster che dirlo».
CCXIV

DI UN EGIZIANO CHE ERA ESORTATO

A CONVERTIRSI ALLA FEDE

Un Cristiano esortava un infedele Egiziano, che aveva lunga abitudine di vita seco e che era venuto in Italia, a entrare in una chiesa un giorno che vi si celebrava la messa solenne. E quegli accondiscese, e insieme co' Cristiani fu alla messa. Interrogato poi, che cosa gli paresse delle cerimonie e della solennità di quell'ufficio, rispose che tutto gli era piaciuto, fuori di una cosa sola; che in quella messa non si osservava carità alcuna, perché mentre tutti avevan fame, uno solo mangiava e beveva, non lasciando né un briciolo di pane né una goccia di vino.
CCXV

DI UN VESCOVO SPAGNUOLO CHE MANGIO'

LE PERNICI PER I PESCI

Un vescovo spagnuolo che viaggiava in venerdì, discese ad un albergo, mandò il servo a comprargli de' pesci, e questi, non ne avendo trovati, gli comprò due pernici. II vescovo gli comandò di cuocerle e di servirgliele a mensa. Meravigliato il servo, che le aveva comprate per la domenica, ricordò al vescovo, mentre stava per mangiarle, che in quel giorno le carni sono proibite. E il vescovo a lui: «Le mangio come se fossero pesci». E poiché il servo rimase molto meravigliato di quella risposta: «Non sai tu», gli disse, «che io sono prete? Quale ti par cosa maggiore, mutare il pane nel corpo di Cristo, o le pernici
in pesci?». E fatto il segno della croce, e ordinato che esse si mutassero in pesci, come se pesci fossero, le mangiò.
CCXVI

DI UN MATTO CHE DORMI' COLL'ARCIVESCOVO DI COLONIA

E DISSE CH'EGLI ERA UN QUADRUPEDE

L'Arcivescovo di Colonia, che è morto, amava molto un matto ch'egli faceva spesso dormir seco in letto. Una volta che in quel letto era anche una donna, il matto, che stava nella parte inferiore, sentì che i piedi erano più del solito ; e ne toccò uno e chiese di chi fosse; e l'Arcivescovo rispose che era suo; poi ne toccò un altro, e un terzo e un quarto infine, e tutti disse l'Arcivescovo che erano suoi. Allora si alzò in furia e andò alla finestra ad urlare con quanto fiato aveva: «Venite tutti ad ammirare un prodigio strano e nuovo. Il nostro Arcivescovo è diventato quadrupede». Così svelò la turpitudine del padrone; ché è più matto di un matto chi di questi si diletta.
CCXVII

ARGUZIA DI PAPA MARTINO CONTRO UN

AMBASCIATORE IMPORTUNO

Un inviato del Duca di Milano chiedeva non so che cosa a Papa Martino V, che questi non voleva concedere. E l'oratore, insistendo con molta importunità, seguì il Pontefice fino alla sua camera da letto. Allora egli, per togliersi la molestia, portò le mani alle guance: «Ho», disse, «un gran dolore ai denti»; e lasciato l'Ambasciatore, entrò nella camera.
CCXVIII

DI UN TALE CHE SPARLAVA DELLA VITA

DEL CARDINALE ANGELOTTO

Un tale con acerbe parole diceva male della vita e dei costumi del Cardinale Angelotto, quando questi fu morto; e fu di fatti uomo rapace e violento, che non aveva alcuna coscienza. Allora sorse uno degli astanti a dire: «Io penso che il diavolo lo abbia divorato e cacato già, per i suoi grandi delitti». E un altro, che era uomo argutissimo: «Fu», disse, «di carne così cattiva, che niun demonio, per quanto abbia buono stomaco, oserebbe mangiarne per paura del vomito».
CCXIX

DI UN PAZZO CHE IRRIDEVA UN CAVALIERE FIORENTINO

Eravi una volta a Firenze un Cavaliere, da me conosciuto, che era molto piccolo di statura e portava la barba assai lunga. Un pazzo lo prese a schernire per la statura e per la barba quante volte lo incontrava per la via, e con tanta importunità da riuscire molesto. Venuto ciò all'orecchio della moglie del Cavaliere, questa chiamò a sé il matto, lo rimpinzò di buon cibo, gli diede un vestito e lo pregò di non burlarsi più del marito; e quegli lo promise, e avendolo qualche volta incontrato, passava senza nulla dire. Quelli che erano presenti, meravigliati, lo incitavano a parlare, e gli chiedevano perché non dicesse quello che prima diceva. Allora il matto, postosi un dito sulla bocca: «Egli», disse, «ha chiuso la mia bocca in modo che non potrò più parlarne». È di fatti un ottimo mezzo, il cibo, per conciliarsi la benevolenza.
CCXX

COME UNA FIGLIA SCUSO' COL PADRE LA SUA STERILITA

La moglie di un signore fu, dopo qualche anno di matrirnonio, reietta e ripudiata per la sua sterilità. Tornata alla casa del padre, questi segretamente la richiese perché non avesse fatto ciò che poteva, magari con altre persone, per aver figlioli. Ed ella: «Padre mio», disse, «io non ho alcuna colpa di ciò; perché mi son servita di tutti i camerieri e perfino degli uomini di stalla, per poter concepire, e tutto questo a nulla mi è giovato». E il padre si dolse della sfortuna della figlia, che non aveva alcuna colpa della sua sterilità.
CCXXI

SI RIPRENDE L'ADULTERIO DI GIOVANNI ANDREA

Giovanni Andrea, dottore Bolognese, uomo di molta fama, fu una volta sorpreso dalla moglie mentre cavalcava su di una donna di casa. Meravigliata la donna del fatto strano, voltasi verso il marito: «Ma Giovanni», disse, «dov'è dunque la vostra sapienza?». Ed egli, senza turbarsi: «In questo buco», rispose, «che è un luogo assai adatto per essa».
CCXXII

DI UN FRATE DELL'ORDINE DE' MINORI CHE FECE

IL NASO AD UN FANCIULLO

Un Romano, che era uomo molto arguto, mi raccontò una storia molto amena, che era avvenuta ad una sua vicina: «Un frate», disse, «dell'ordine dei Minori, che aveva nome Lorenzo, aveva posti gli occhi su di una bella giovine che era moglie di un vicino mio (e ne fece il nome). E volendo andar più oltre, chiese al marito di essere padrino del primo figlio che gli sarebbe nato; e il frate, che osservava di continuo la giovine, s'accorse ch'ella era gravida, e alla presenza del marito, come se fosse un indovino, disse e che essa era gravida e che partorendo avrebbe avuto grande mestizia. E la donna, credendo che egli parlasse di una femmina che doveva nascere: «Anche se fosse una femmina», disse, «io l'avrei graditissima». Ma il frate disse che era cosa più grave, tutto afflitto nel viso, e fece nascere nella donna il desiderio di sapere che cosa fosse; ma quanta maggiore insistenza poneva ella a chiedergli ciò che sarebbe avvenuto, altrettanta ostinazione egli metteva a non dirlo. Finalmente, desiderosa di sapere qual male le sovrastasse, la donna, di nascosto del marito, chiamò il frate e con molte preghiere lo scongiurò a dirle che mostro avrebbe ella dato alla luce; ed egli, sempre dicendo che su questo conveniva mantener il silenzio, finalmente le confessò che avrebbe partorito un maschio, ma senza naso, cosa che è la più deforme nella faccia di un uomo. Spaventata la giovine e richiestolo di un rimedio, annuì il frate, ma le disse era d'uopo stabilire un giorno nel quale egli, per supplire alla mancanza del marito, avrebbe aggiunto il naso al bambino. E per quanto questa paresse dura cosa alla moglie' tuttavia, perché il figlio non nascesse imperfetto, si dié al frate; ed egli, dicendo che il naso non era ancora ben formato, fu spesso con la donna, e le ingiungeva di muoversi perché coll'attrito meglio si attaccasse. Finalmente nacque un maschio e per caso aveva un naso voluminoso; e alla donna, che se ne meravigliava, il frate disse che per far quel membro aveva lavorato troppo; e questo narrò al marito, dicendogli che aveva stimata oscena cosa se il fanciullo fosse nato senza naso e il marito la lodò e non disprezzò l'opera del compare».
CCXXIII

DI UN FIORENTINO CHE DICEVA SEMPRE MENZOGNA

Eravi a Firenze un tale talmente abituato alla menzogna che mai dalla sua bocca usciva la verità. Uno che andava spesso seco e si era avvezzo a tutte quelle bugie, una volta che incontrò il bugiardo, prima che questo aprisse bocca: «Tu menti» gli disse. «Come mento», rispose l'altro, «se non ho detto alcuna cosa?». «Intendevo di dire», aggiunse il primo, «se tu avessi parlato».


CCXXIV

DI UN GELOSO CHE SI CASTRO' PER CONOSCERE

L'ONESTA DELLA MOGLIE

Un tale di Gubbio che aveva nome Giovanni, ed era uomo molto geloso, non sapeva trovar certo modo per conoscere se sua moglie avesse avuto relazioni con altri. E il geloso pensò ad una furberia degna di se stesso, e si castrò, con questo scopo, che, se sua moglie si fosse poi incinta, egli sarebbe stato sicuro del suo adulterio.
CCXXV

CHE COSA UDI' UN SACERDOTE ALL'OFFERTORIO

Un giorno di festa, all'offertorio, un prete di Firenze riceveva i doni che i fedeli sogliono fare; e, come e costume, a chi offriva diceva parole: «Avrete per uno cento e possederete la vita eterna». Un vecchio nobile, che dava un soldo, udite queste parole: «Sarei contento», disse, «se mi si rendesse soltanto il capitale».
CCXXVI

DI UN PRETE CHE PREDICAVA E SBAGLIO' IL NUMERO E DISSE «CENTO»

QUANDO DOVEVA DIR «MILLE»

Nello stesso modo, un sacerdote che predicava a' suoi parrocchiani l'Evangelo, narrava come il nostro Salvatore con cinque pani sfamò cinque mila uomini; e in luogo di cinque mila disse cinquecento. II chierico piano gli disse che aveva sbagliato nel numero, perché di cinquemila parla il Vangelo. «Taci, sciocco», gli disse il prete, «che dureranno fatica credere a cinquecento soli».
CCXXVII

SAGGIA RISPOSTA DEL CARDINALE D'AVIGNONE

AL RE DI FRANCIA

Mi piace di raccontare tra queste facezie anche la mordace risposta del Cardinale d'Avignone, che era uomo di molta prudenza. Quando i Pontefici furono in Avignone, faceansi precedere da molti cavalli riccamente bardati e senza cavalieri per maggior pompa; e il Re di Francia, sdegnato della cosa, gli chiese un giorno se gli Apostoli avessero mostrato tanto splendore; e il Cardinale rispose: «Giammai, ma gli Apostoli vissero in un tempo nel quale anche i Re avevano altri costumi, poiché erano pastori e custodi di armenti».
CCXXVIII

TERRIBILE FATTO AVVENUTO IN SAN GIOVANNI LATERANO

Non per scherzare, ma per far sentire spavento delle scelleratezze, si racconta questa storia mostruosa. In questa quaresima un frate dell'ordine degli Agostiniani predicava al popolo (ed io era presente) e lo esortava alla confessione dei peccati, e narrava il seguente miracolo che gli era avvenuto sei anni prima. Una volta erasi alzato con gli altri a mezzanotte per cantar mattutino in San Giovanni Laterano, e udirono una voce uscire da un sepolcro, dove era stato deposto diciotto dì prima un cittadino romano; e lo udirono più volte; spaventati alla prima, poco per volta si riebbero, poiché il morto diceva che di nulla temessero, che portassero il calice e togliessero la pietra. E fatto ciò, il morto sorse e sputò nel calice l'ostia consacrata che aveva ricevuto prima della morte; disse che era dannato ed afflitto dalle più atroci pene, perché aveva avuta la madre e la figlia e non se ne era mai confessato; e detto ciò, il cadavere ricadde.
CCXXIX

COME FU CONFUSO UN PREDICATORE CHE GRIDAVA MOLTO

Un frate che predicava spesso al popolo, aveva, come è degli sciocchi, uso di gridar molto, e una delle donne che eran presenti piangeva con così alti gemiti che parean muggiti. S'accorse più volte di questa cosa il frate, e credendo che la donna fosse commossa dalle sue parole, dall'amor di Dio e dalla coscienza, la chiamò a sé e la richiese della ragione di quei gemiti, e, se erano le sue parole che le avevano agitato lo spirito, le disse che spargesse pure quel pianto che era cosa pia. E la donna rispose che per il suo vociare e per le sue grida era commossa e dolente; che era vedova e il suo povero marito le aveva lasciato un asino dal quale traeva di che vivere; e che quest'asino spesso soleva, di giorno e di notte, ragliare come il frate faceva; e l'asino era morto e l'aveva lasciata senza pace; e quando udiva le grandi grida del predicatore, simili alla voce dell'asino suo, gli tornava questo in memoria, anche senza volerlo, sì che era costretta a piangere. E così quello sciocco, più che predicante, latrante, se ne andò confuso della sua stoltezza.
CCXXX

DI UNA GIOVANE CHE FU BURLATA DA UN MARITO VECCHIO

Un Fiorentino, già vecchio, condusse in moglie una giovine, che aveva appreso dalle matrone a resistere la notte alle prime violenze del marito, ed a non cedere la fortezza al primo assalto. E rifiutò. E l'uomo, che a navigar per quel mare aveva spiegate tutte le vele, quando la vide così ritrosa, le chiese del perché non fosse docile seco. E la vergine disse che ciò era dolor di capo, e l'uomo, ritirati gli ordegni, si volse sull'altro lato e dormì fino all'alba. La ragazza, quando s'accorse che ei non la cercava, dolente del consiglio che le avevano dato, destò il marito e gli disse che il capo più non le doleva. Ed egli: «Ora mi duole la coda», rispose, e lasciò la moglie vergine com'era. Perché è ben fatto ricevere le cose buone tosto che vengono offerte.
CCXXXI

LE BRACHE DI UN FRATE MINORE DIVENTANO RELIQUIE

Un fatto molto ameno, e che trova luogo fra queste storielle, avvenne tempo fa ad Amalia. Una donna maritata, mossa, come credo, da ragione di bene, andò a confessare i suoi peccati ad un frate dell'ordine dei Minori. Costui, parlando, mosso dal desiderio, fece tanto con la donna, che finalmente la trasse alla sua voglia e insieme cercarono il modo di far la cosa; e si combinò fra di loro che la donna si sarebbe finta malata ed avrebbe a sé chiamato il confessore; con questi è costume lasciar solo il malato, che così più liberamente apregli l'anima sua. E la donna finse una malattia, si mise a letto, simulando un grave dolore, e chiese del confessore, il quale, essendosi tutti gli altri ritirati, rimase con lei e giocò seco più volte. Ed essendo stati molto tempo insieme, entrò alcuno nella stanza, e il frate se ne andò, dicendo che il dì dopo sarebbe tornato a ricevere la fine della confessione. Tornò, e levatesi le brache e postele sul letto della donna, continuò la confessione nello stesso modo del dì prima. Il marito, che di nulla sospettava, meravigliato della lunghezza di quel sacramento, entrò nella stanza, e il frate, sorpreso da quella venuta, se ne andò dimenticando le brache; e il marito, vistele, gridò che quello non era un frate, ma un adultero, e andò al priore del convento, protestando, lamentandosi del fatto indegno e minacciando di morte il reo. Il priore, che era vecchio, calmò l'ira dell'uomo, dicendo che quelle grida tornavano anche a disonore della sua famiglia; che era meglio metter tutto in silenzio e coprire la cosa. E il marito disse che essa era manifesta per modo delle brache e che non si poteva nascondere; e il vecchio trovò rimedio anche a questo; disse che quelle poteano passare per le brache di San Francesco, che, per guarire la moglie, quel frate aveva portate; che egli verrebbe con pompa e processione a riprenderle. Così fu convenuto, e il Priore convocò i frati, e vestiti degli indumenti sacri, colla croce in testa, si recarono alla casa di quell'uomo, presero divotamente le brache, e come se fossero sante reliquie le recarono su un cuscino di seta, e le fecero baciare al marito, alla moglie e a tutti quelli che incontrarono per la via, e con gran canti e cerimonie le portarono al convento e le collocarono nel Santuario fra le altre reliquie. Ma poi l'affare fu scoperto e vennero a Roma inviati di quella città a chieder ragione dell'ingiuria.
CCXXXII

DI UN BREVE CONTRO LA PESTE DA PORTARSI AL COLLO

Andai, di recente, a Tivoli, per vedere i figliuoli che io avevo colà mandati dalla città per causa della peste, e udii là narrare una cosa che non è indegna di riso e di esser messa fra queste fiabe. Pochi giorni prima, un frate, di quelli che vanno attorno (si cominciava già a temere della peste) prometteva di dare un di quei che chiamano brevi da portare al collo, e chi l'aveva non sarebbe morto di peste. Quella sciocca plebe, mossa da questa speranza, spesero i danari che avevano a comprare i brevi e se li attaccarono al collo con un filo. Il frate aveva prescritto di non aprire il breve che dopo quindici giorni; se l'avessero fatto prima, avrebbe perduta la sua virtù; e dopo aver fatti molti denari, se ne andò. I brevi poi furono letti, per desiderio che gli uomini hanno di conoscere le cose celate; ed in essi era scritto in volgare:
Donne, se fili e cadeti lo fuso

Quando te fletti tien lo culo chiuso.

Questo supera tutte le prescrizioni dei medici e tutte le medicine.
CCXXXIII

DEL CARDINALE ANGELOTTO CUI APRIRONO LA BOCCA

INVECE DI CHIUDERLA

Angelotto Romano, uomo loquace e mordace, non la perdonava ad alcuno. Quando per colpa dei tempi, per non dire per la stoltezza degli uomini, egli fu fatto Cardinale, una volta, come è costume, nel concistoro segreto dei cardinali tacque; e volgarmente si dice che i nuovi Cardinali hanno chiusa la bocca fino a che il Papa, dando loro permesso di parlare, glie la apra. Un giorno chiesi al Cardinale di San Marcello che cosa avessero fatto nel Concistoro: «Abbiamo» rispose, «aperta la bocca ad Angelotto». «Oh», risposi, «era assai meglio chiudergliela con un forte catenaccio».
CCXXXIV

IN QUAL MODO RIDOLFO PRESTO' UN BUON CAVALLO

AD UNO CHE GLIE LO CHIESE

A Ridolfo di Camerino, del quale abbiamo più sopra detto, fu chiesto una volta da un nobile Piacentino un cavallo in dono, che doveva riunire tante buone qualità e tanta bellezza, da non potersene trovar uno sì fatto nelle stalle del principe. E Ridolfo, perché quell'altro fosse contento, gli mandò una cavalla ed uno stallone de' suoi, aggiungendovi che gli spediva quegli ordegni perché potesse con essi fare un cavallo a suo modo, perché come egli lo aveva richiesto non l'aveva. Queste parole insegnano a non chieder cose così squisite, che o siano troppo difficili, o si possono onestamente negare.
CCXXXV

LA CONTESA DI DUE DONNE FA DARE UNA

RISPOSTA DEGNA DI RISO

Una donna di Roma, che io conobbi, che guadagnava la vita col suo corpo, aveva una figlia maggiore molto bella, che aveva dedicata a Venere. Sorta una volta contesa fra lei e una vicina che facea lo stesso mestiere, vennero a ingiurie e contumelie di ogni maniera. E avendo la vicina minacciata la madre e la figlia, parlando di non so quale alta protezione, quella, toccando la figliuola sotto il ventre: «Che Iddio», disse, «salvi e custodisca questa e me; che io disprezzerò le tue parole e le tue minacce». E rispose bene; perché si confidava ad un ottimo patrocinio, nel quale molti avevano diletto.
CCXXXVI

UN PRETE INGANNO' UN LAICO CHE VOLEVA SORPRENDERLO

Un prete era di gran giorno in letto con la moglie di un villano, e questo era nascosto sotto per sorprenderlo. Forse pel troppo lavoro, come caduto in delirio, e non sapendo del villano che era nascosto sotto il letto, saltò su il prete a dire: «Oh! si dispiega sotto i miei occhi tutto quanto il mondo». E il villano che il dì prima aveva perduto l'asino: «Ehi, vi prego», disse, «guardate se in qualche parte non vedeste l'asino mio».
CCXXXVII

DI UN TINTORE INGLESE CHE EBBE UN'AVVENTURA

MERAVIGLIOSA CON LA MOGLIE

Quando io era in Inghilterra, accadde ad un tintore una cosa molto da ridere e che merita di trovar luogo qui. Questi aveva moglie e in casa aveva molti garzoni e serve, e sopra una di costoro gittò gli occhi che più delle altre pareva bella; egli più volte le chiese di venir seco, ed essa alla padrona riferì ogni cosa, e per consiglio di questa accondiscese. Nel giorno e nell'ora stabiliti la padrona andò invece dell'ancella nel luogo segreto ed oscuro; e l'uomo venne e compì l'opera sua, non dubitando ch'ella fosse la moglie; e quando ebbe finito ed uscì, narrò la cosa ad uno de' suoi giovini dicendogli, che se voleva, poteva anch'egli servirsi della ragazza. E quegli vi andò, e la moglie che lo credette il marito lo prese senza dir verbo; e dopo quello andò un terzo, e la donna, sempre credendo che fosse il marito, si assoggettò per la terza volta al sacrifizio. Quando finalmente poté, uscì la donna di nascosto dal luogo e alla notte rimproverò il marito, che verso di lei si mostrava così tranquillo e colla serva tanto acceso da ripetere per tre volte un giorno seco la stessa cosa. E il marito fe' finta di non saperne e del suo errore e del peccato della moglie, del quale egli era stato la causa.
CCXXXVIII

CONFESSIONE TOSCANA CHE FU POI FRANCA

Un tale, che non aveva risparmiato né anche il pudore di sua sorella, venne a Roma per confessar quel peccato e cercò un confessore toscano. E quando glie ne indicarono uno, egli vi andò chiedendo prima di tutto se egli fosse toscano. E quegli rispose che era, e l'altro incominciò la confessione, e fra le altre scelleratezze narrò che un giorno, essendo nella stanza di sua sorella e aveva l'arco pronto, le scoccò una freccia; e il confessore: «Scellerato!», esclamò, «forse hai uccisa la sorella?». «No», rispose l'altro, «ma voi non capite il toscano». «Lo comprendo benissimo, se son nato in Toscana, ora tu mi dici che tesa la balestra saettasti tua sorella». «Non intendo in questo modo», soggiunse, «ma che avevo l'arco teso, che vi posi una freccia e che colpii la sorella». E il confessore: «E la feristi o nella faccia o in altra parte del corpo». «Oh!» rispose il penitente, «voi non sapete parlar toscano». «Ma se ho capito le tue parole»», riprese il confessore; «guarda piuttosto che tu non sia quello che non sa parlare in quel sermone». «Non dico», aggiunse l'altro, «di aver ferita la sorella, ma di aver scoccata una freccia dall'arco teso». E avendo il confessore concluso che non capiva quel che si dicesse, e l'altro ripetendo che egli non capiva il toscano, e rinnovando la storia della balestra e della saetta: «Se non ti servi di altre parole», disse il confessore, «io non arrivo a capire». E l'altro, dopo avere così a lungo tergiversato per il pudore, disse finalmente con parole proprie tutto ciò che aveva fatto. «Ora», disse il confessore, «tu parli toscano a un toscano, e capisco perfettamente», e datagli la penitenza lo assolse. È davvero segno di cattivo animo dimostrare il pudore con le parole, mentre nei fatti si è impudico e scellerato.
CCXXXIX

DI UN COMBATTIMENTO FRA GAZZE E CORNACCHIE

In quest'anno l45l, nel mese di aprile, è avvenuta una cosa meravigliosa fra la Gallia e quella che ora si chiama Britannia. Gazze e cornacchie, schieratesi in aria con acute grida, combatterono accanitamente per tutto un giorno. E la vittoria fu delle cornacchie, e furono trovate morte per terra duemila di loro e quattromila gazze. Vedremo che cosa ci recherà questo prodigio.
CCXL

DETTO GRAZIOSO DI FRANCESCO SU I FIGLI DEI GENOVESI

Francesco Quartente, mercante fiorentino, dimorava a Genova con la moglie e la famiglia; e i suoi figliuoli erano macilenti e di corpo gracile; e i figli dei Genovesi sono invece più forti e robusti. Un giorno un Genovese chiese a Francesco per qual ragione fossero i figliuoli suoi tanto deboli e magri, mentre che per i loro figli non era in quel modo. Ed egli: «La ragione è facile», rispose. «Io faccio i figli miei da me solo, mentre voi altri per farli avete bisogno che molti vi aiutino». Perché i Genovesi, appena hanno preso moglie, vanno subito sul mare e le mogli abbandonate lasciano, come essi soglion dire, alla custodia degli altri per moltissimi anni.
CCXLI

GESTO DI UN FIORENTINO, GIUSTO MA BRUTALE

Uno de' miei amici raccontò una volta che egli aveva conosciuto un Fiorentino, il quale aveva la moglie bella che era perseguitata da molti amatori. E alcuni di quelli, alla notte, sulla via vicino alla casa venivano con le fiaccole a fare la serenata, come si dice. Il marito, che era uomo molto arguto, spesse volte destato dal suono delle trombe e dai canti, s'alzò una notte dal letto e venne alla finestra con la moglie, e vista la turba degli amanti che facean baccano, con gran voce li pregò di stare un poco a vedere. Tutti a quell'invito alzarono gli occhi, ed egli espose fuori della finestra un arnese molto abbondante, in funzione, dicendo loro, che per quanto essi ne avessero egli ne aveva anche di più per contentare la donna, che era quindi vano ed inutile che si dessero tanto attorno, sperava adunque che non gli avrebbero più dato noia. E questo grazioso discorso li distolse dall'inutile cura.
CCXLII

GRAZIOSA DOMANDA DI UN VECCHIO IMPOTENTE

Un altro narrò una storia simile di un Fiorentino, che era suo vicino, il quale in età avanzata aveva sposata una donna giovine. Questa, Riccardo degli Alberti, giovine nobile e bello, prese ad amare e similmente alla notte con molti sonatori e cantanti sulla via destava l'uomo che dormiva. Questi finalmente andò da Benedetto, che era padre del giovane, e invocata l'antica amicizia, e i servizi che s'eran resi, dopo molti lamenti concluse che e' non s'era meritato che suo figlio lo uccidesse. A queste parole meravigliato il padre rispose che ciò non avrebbe egli mai sopportato e che avrebbe impedito il delitto, e chiese in che modo potesse meglio punire suo figlio. E l'altro: «Tuo figlio è innamorato di mia moglie, e spesso la notte con suoni e con canti desta me e la moglie dal sonno, e per questo avviene che io, sveglio, più di quello che possa, e perché ella non pensi ad altri, debba dare opera seco. E poiché ciò accade assai spesso, così mi mancano le forze, e se tuo figlio non smette, io sono presso a morire». E con questa facezia Riccardo, ammonito dal padre, non gli fu più molesto.
CCXLIII

DETTO FACETO DI UNA CORTIGIANA ALLE

SPALLE DEI VENEZIANI

Ai bagni di Petriolo udii da una dotta persona narrare di una faceta risposta di una meretrice, che non è indegna di essere registrata fra queste facezie. Eravi a Venezia una cortigiana da bassa gente, alla quale andavano uomini di tutti i paesi; uno di questi un giorno le chiese quali fra gli uomini del mondo le paressero meglio forniti. E la donna tosto rispose che erano i Veneziani. E chiestane la ragione: «L'hanno tanto lungo», disse, «che per quanto siano in mare e in lontani paesi, arrivano fino alle loro mogli e fanno loro fare fanciulli». Scherzava in questo modo sulle mogli dei Veneziani, che, quando questi vanno lontano, sono lasciate alle cure degli altri.
CCXLIV

FACEZIA DI UN IGNORANTE CHE CONFUSE I PIU' DOTTI

Molti frati conversavano sulla età e sulle opere di nostro Signore e come Egli al trentesimo anno incominciasse la predicazione. Un tale, che non sapeva di lettere e che era presente, li richiese di ciò che avesse fatto Gesù dopo aver compito il trentesimo anno. E poiché alcuni dei frati tacevano, e altri in diversa guisa rispondevano: «Con tutta la vostra sapienza», soggiunse, «non sapete una cosa che è tanto facile». E domandando quegli che cosa fatto egli avesse dopo il trentesimo anno, disse l'altro: «Entrò nel trentunesimo». E tutti scoppiarono in riso e lodarono la facezia di quell'uomo.
CCXLV

MORDACE RISPOSTA DI UN TALE CONTRO UN MERCANTE

CHE DICEVA MALE DEGLI ALTRI

Carlo Gerio, mercante fiorentino, uno di quei banchieri che seguono la Curia Romana, venne in Avignone, com'è costume dei mercanti che fanno commercio in varie province; poi, tornato a Roma, e in un pranzo di amici, parlando, un giorno fu richiesto del come vivessero i Fiorentini che ad Avignone si trovavano; ed egli rispose che erano contenti ed allegri come matti, perché, soggiunse, a stare un anno in quel paese si diventava matti. Allora un convitato, che si chiamava Allighieri ed era un uomo arguto, chiese a Carlo per quanto tempo fosse egli rimasto in Avignone. E Carlo rispose che solo per sei mesi ci aveva fatta dimora. E l'altro: «Tu hai dunque molto ingegno, Carlo», gli disse, «perché in soli sei mesi hai fatto ciò che gli altri fanno in un anno». E tutti ridemmo del mordace detto di quel tale.
CCXLVI

BELLA RISPOSTA DI UNA DONNA AD UN GIOVANE CHE

ARDEVA D'AMORE PER LEI

Un giovane di Firenze bruciava d'amore per una donna nobile ed onesta, e spesso la seguiva in chiesa o in qualunque luogo ella andasse. E soleva dir con gli amici che e' desiderava di trovar luogo e tempo per dirle poche parole, che egli aveva già pensato e composte. Un dì di festa venne la donna alla chiesa di Santa Lucia, e uno degli amici disse al giovane che era quella l'occasione per parlarle, quando la vedesse andare al santo fonte a prendere l'acqua benedetta. Ed egli, istupidito, come se avesse perduta ogni forza, cedendo agli incitamenti dell'amico, andò vicino alla donna: e dimenticate le parole che aveva pensate, non osava né anche parlare; e poiché l'amico gli ripeteva che era tempo di dirle qualche cosa: «Signora», disse finalmente, «io sono vostro servitore». Alle quali parole rispose la donna sorridendo: «A casa ho abbastanza e anche troppi servitori, che spazzano le camere e lavano il vasellame; perciò non ho io bisogno di voi». E tutti risero e della stupidaggine del giovane e della bella risposta della donna.
CCXLVII

DI UN NOBILE DEL TEMPO DELL'IMPERATORE FEDERICO CHE

AVEVA MOLTA PRESUNZIONE NELLE ARMI

MA CHE NULLA FECE

Quando l'imperatore Federico (che morì a Buonconvento su quel di Siena) pose, come nemico, gli accampamenti a due miglia da Firenze, molti nobili presero le armi per difendere la loro città e uscirono ad attaccare i nemici nel loro campo; un millantatore, di nobile famiglia, montò armato a cavallo e si slanciò di galoppo fuori dalle porte della città, rimproverando la lentezza degli altri, che venivano dietro come se avesser paura, e urlando che sarebbe anche solo andato contro ai nemici. Quando correndo, e buttando le forze in queste millanterie, ebbe trascorso un miglio e vide alcuni che ritornavano coperti di ferite avute dai nemici, prese ad andar più piano e ad allentare il passo. E quando udì le grida dei nemici che combattevano co' suoi concittadini, e vide di lontano la battaglia, si fermò. E quando uno, che aveva udite le sue millanterie, gli chiese perché non si spingesse innanzi e non entrasse nella mischia, egli, dopo essere stato per qualche tempo in silenzio, rispose: «Non mi sento così forte e valoroso nelle armi come credevo». Si devono pesare le forze del corpo e dell'animo per non promettere mai più di quello che si possa dare.
CCXLVIII

DI UN UOMO CHE PER DUE ANNI NON PRESE

NE' CIBO NE' BEVANDA

Temo, che ciò che sto per raccontare non sembri una favola, perché ripugna alla natura e pare che si possa facilmente negare. Un tale, che aveva nome Giacomo, e che al tempo di Papa Eugenio era nella Curia Romana, nel posto chiamato di copista, tornò a Noyon in Francia, che era il suo paese natale, e qui cadde in grave e lunga malattia. Il mio racconto sarebbe troppo lungo se dovessi dire tutte le cose che egli disse e che gli erano durante quella malattia accadute. Finalmente, dopo molti anni, al sesto anno del pontificato di Niccolò V, tornò alla Curia, per andare al sepolcro di nostro Signore, nudo e povero, perché per la via i ladri lo avevano spogliato; e andò da alcuni della Curia, miei vicini, uomini onestissimi che lo avevano prima conosciuto. E raccontò loro, che già da due anni dopo la malattia non aveva né mangiato né bevuto, per quanto avesse provato spesso. È un uomo magrissimo, ed è prete; ha la mente perfettamente sana, dice l'ufficio, ed io ne ho udita la messa. Molti teologi e fisici hanno lungamente parlato con lui, e dicono che è cosa contro natura, ma talmente stabilita che sarebbe ostinazione non crederla. Ogni giorno vengono moltissimi a vederlo e ad interrogarlo; e si hanno su di ciò diverse opinioni. Alcuni credono che il suo corpo sia abitato dal demonio; ma egli non ne dà alcun segno, e pare uomo prudente, probo e religioso, e anche ora lavora al suo mestiere di copista. Altri affermano che il suo umore malinconico gli sia di nutrimento. Io stesso ho molte volte parlato seco, ed egli crede false queste opinioni; e confessa che ne è più meravigliato degli altri. Ma non venne a questa consuetudine tutt'in una volta, ma a poco a poco. Io mi meraviglierei di più di questo prodigio, se sfogliando certi annuali che copiai in Francia, non avessi letto che similmente ciò avvenne al tempo di Lotario imperatore e di Papa Pasquale, nell'anno 822. Una fanciulla di dodici armi a Commercv, nel territorio di Toul, dopo avere avuta la comunione pasquale, si astenne dal mangiar pane per dieci mesi prima, poi per tre anni da qualunque cibo e bevanda; poi tornò alla consuetudine di prima; ed egli spera di far lo stesso.
CCXLIX

DETTO GRAZIOSO DI UN TALE CHE AVEVA PROMESSO

DI EDUCARE UN ASINO

Un signorotto, allo scopo di rapire i beni di un vassallo, che si vantava di saper fare molte cose, gli comandò sotto grave pena di insegnar a leggere a un asino. E quello rispose che ciò era impossibile, se non gli avesse lasciato molto tempo per educar l'asino a far quella cosa; e poiché il signore gli concesse di chieder quanto tempo voleva, così e, chiese un decennio. Tutti lo deridevano perché si era assunto di fare una cosa impossibile, ed egli consolava in questo modo gli amici: «Non temo nulla», diceva, «perché in questo tempo, o io muoio, o muor l'asino, o muore il signore». Con queste parole dimostrò che è saggio trarre alle lunghe e differire una cosa difficile.
CCL

DI UN PRETE CHE NON SAPEVA SE L'EPIFANIA

ERA MASCHIO O FEMMINA

Un amico mio nel giorno dell'Epifania mi narrò di una stoltezza di un certo prete, suo compaesano: «Fuvvi», disse, «un prete che annunziò in questo modo al popolo la festa del dì dopo: «Domani», disse, «veneriamo con molta divozione la Epifania; perché questa è una delle principali feste. Non so davvero se fosse uomo o donna; ma in qualunque modo è necessario osservare questo giorno con la massima riverenza».
CCLI

DI UN USURAIO CHE FINSE DI PENTIRSI E FECE PEGGIO

Venne una volta ad un vecchio usuraio, che simulava di avere smesso il mestiere, un tale a cercare denaro ad usura, e gli portò in pegno una croce d'argento, nella quale era una particella del legno della croce di nostro Signore; e avendo chiesto al vecchio il danaro: «Io», disse questi, «ho già smesso di commettere questo peccato di dare ad usura; ma va' da mio figlio, (e gli disse il nome), il quale vuol perdere l'anima sua e domanda a lui il prestito». E mandò seco un servo perché gli insegnasse la casa dove abitava il figliuolo; erano già lontano, quando il vecchio richiamò il servo: «Ohè tu», gli disse, «di' a mio figlio, che si ricordi di detrarre dalla croce il peso del legno». E quest'uomo, che pareva pentito, non volle che suo figlio stimasse per argento il legno della croce, credendolo di minor prezzo. Ognuno torna facilmente alla sua abitudine.
CCLII

FAVOLA DEGLI UCCELLETTI CHE PARLAVANO RETTAMENTE

Un tale prendeva degli uccelletti che erano chiusi in una gabbia e li uccideva stringendo loro la testa. E mentre ciò faceva, prese per caso, a gemere lacrime dagli occhi. Allora uno degli uccelli carcerati disse agli altri: «State di buon animo, perché ora lo vedo lacrimante, ed avrà compassione di noi». E il più vecchio rispose: «Figlio mio, non guardargli agli occhi, ma alle mani». E mostrò come non si debba por mente alle parole, ma bensì alle opere.
CCLIII

UN TALE SI CINSE IL COLLO CON VARIE CATENE E FU RIPUTATO PIU' STOLTO

Un tale di Milano, soldato millantatore, di stirpe di cavalieri, venne a Firenze ambasciatore, e tutti i giorni per ostentazione portava al collo catenelle di vario genere. Vide la sciocca vanità di costui Niccolò Niccoli, che fu uomo dottissimo e arguto: «Quegli altri matti», disse, «soffrono di essere legati ad una catena sola; costui invece è tanto matto, che di una catena non si contenta».
CCLIV

FACEZIA DI RIDOLFO SIGNOR DI CAMERINO CONTRO UN AMBASCIATORE CHE INVEI' CONTRO I SIGNORI

Nella guerra che si fece fra Papa Gregorio XI e i Fiorentini, il Picentino e quasi tutte le province Romane abbandonarono la causa del Pontefice. L'ambasciatore di Recanati, mandato a Firenze, venne a ringraziare i Priori della libertà che i Recanatesi avevano avuto per aiuto dei Fiorentini ed inveì con gravi parole contro il Pontefice e i suoi ministri, e principalmente contro tutti i Signori e i tiranni, detestando il loro cattivo governo e i loro delitti, non avendo alcun rispetto né anche per Ridolfo, che allora era capitano dei Fiorentini, il quale per questo assisteva alle udienze degli ambasciatori e udì la lunga detrazione che di lui si fece. Allora Ridolfo chiese all'ambasciatore di che facoltà o arte fosse, e quegli rispose esser dottore in diritto civile, e Ridolfo gli chiese ancora per quanti anni avesse studiate le leggi. E avendo risposto quello, che per più di un decennio aveva data opera a quegli studi: «Come vorrei», esclamò Ridolfo, «che tu per un anno solo avessi studiata la discrezione!». E rispose degnamente con quelle parole a quello stolto, che essendo egli presente aveva tanto detto male de' Signori.
CCLV

DI UN PORCO CHE ROVESCIO' UN VASO D'OLIO IN CASA DI UN GIUDICE

Un tale che era giudice di un litigio, ebbe da uno dei litiganti un orcio d'olio, con la promessa che la sentenza sarebbe a quello favorevole; quando l'altro seppe la cosa, mandò al giudice un porco grasso, pregandolo che lo favorisse. Ed egli dié la sentenza in favore di quello del porco, e all'altro che si lamentava seco e della mancata promessa e dell'olio mandato, disse il giudice: «Venne in mia casa un porco, e quando trovò il vaso dell'olio lo ruppe, e sparse l'olio; ed è così che io ho dimenticato». E questa per quel giudice venale fu un'eccellente risposta
CCLVI

RISPOSTA FACETA DI UN UOMO CALVO A DUE GIOVANI

Due ragazze erano alla finestra della loro casa che dava su di un orto, e in quel mezzo uscì l'ortolano, vecchio e calvo, per mangiare; e avendolo visto deforme per la calvizie, gli chiesero se desiderava sapere il modo di far nascere i peli. Ed avendo risposto che ciò desiderava, dissero le giovani per giuoco che si lavasse il capo coll'urina della moglie. Ed egli, voltosi verso di loro: «Questa vostra medicina», disse ridendo, «non è punto buona; e lo provai col fatto: poiché da trent'anni lavo in quel modo questo amico mio (e lo additò con la mano) e pur tuttavia né anche un pelo gli è spuntato sul capo».
CCLVII

DI «MESSER PERDE IL PIATO»

Enrico da Monteleone era procuratore delle cause nella Curia Romana, ed era assai vecchio, e assai ignorante nell'arte sua; e per questo aveva il soprannome di Messer perde il piato. Una volta che gli chiesero per qual ragione perdesse sempre le sue cause: «Perché», rispose, «tutti quelli che chiedono il mio patrocinio voglion le cose ingiuste, e per questo in qualunque causa sono inferiore». E questa fu una graziosa risposta di quell'uomo ignorante.
CCLVIII

DI UNA CANZONE CHE PIACE AGLI OSTI

Un viaggiatore affamato si fermò ad una taverna e riempì il ventre di cibo e di vino; e quando l'oste gli chiese il denaro, rispose che non aveva un soldo, ma che gli avrebbe cantato delle canzoni. E il taverniere soggiunse che non ci volevano canzoni, ma denari. E l'altro: «Se ti dirò una canzone che ti piaccia, la prenderai tu pe' il denaro?». E l'oste acconsentì, e il viandante ne cantò una. Chiese all'oste se gli piacesse, e questi scosse il capo; e il viaggiatore ne disse un'altra ed un'altra ancora; e l'oste disse che non gli piaceva: «Ora», disse l'altro, «te ne dirò una che ti piacerà». E cavata la borsa, come se la volesse aprire, intonò la canzone dei viaggiatori: «Metti mano alla borsa e paga l'oste» . E; quando ebbe finito, chiese se gli piacesse: «Questa mi piace», rispose. E il viandante: «Per il patto che abbiam fatto, tu se' pagato; perché questa canzone ti è piaciuta». E se ne andò senza pagare.
CCLIX

FACETA RISPOSTA RIGUARDO AD UN UOMO MAGRO

Un nostro concittadino, mio amicissimo, è di corpo molto magro e macilento. Un giorno uno se ne meravigliava e ne chiedeva la ragione, ed un altro argutamente gli rispose: «Perché meravigliate di così semplice cosa? egli sta mezz'ora a tavola a mangiare, e a metter fuori le materie del corpo perde due ore». Alcuni hanno davvero costume di perdere molto tempo a sgombrarsi il ventre.
CCLX

FACETA RISPOSTA DI UNA DONNA CHE AVEVA IL CALAMAIO VUOTO

Una signora, nostra concittadina, onestissima donna, era richiesta da un messaggero se non avesse ella lettere da consegnargli per suo marito, che era lontano, ambasciatore della Repubblica: «Come mai», rispose, «potrei io scrivere, se mio marito ha portato seco la penna ed ha lasciato vuoto il calamaio?». Faceta ed onesta risposta.
CCLXI

RISPOSTA GRAZIOSA SULLA SCARSITA DEGLI AMICI DI DIO

Uno dei nostri concittadini, che era uomo molto arguto, era da molto tempo tormentato da grave malattia. E venne a lui un frate per esortarlo alla pazienza e, fra le altre parole di consolazione, gli disse che Dio soleva infliggere dei mali a coloro che egli amava: «Non mi meraviglio», disse il malato, «che Iddio abbia così pochi amici; ché se li tratta in questo modo, ne avrà anche meno».
CCLXII

DI UN FRATE DI SANT'ANTONIO DI UN LAICO E DI UN LUPO

Uno di quei frati che vanno intorno e chieggono la elemosina per Sant'Antonio, persuase un contadino a dargli non so qual frumento, con la promessa che tutte le cose sue, e specialmente le pecore, sarebbero per un anno immuni da danno qualsiasi. E il villano, fidando sopra questa promessa, lasciò liberamente vagare le sue pecore, e un lupo glie ne mangiò molte. Sdegnato per questa cosa, quando, l'anno dopo, il frate tornò pel frumento, negò di darglielo, e si lamentò anche che fossero state vane le sue promesse. E chiestane il frate la ragione, rispose il villano che il lupo gli aveva rapito le pecore: «Il lupo», disse l'altro; «oh! oh! è esso una cattiva bestia, e non te ne fidare; non solo ingannerebbe Sant'Antonio, ma lo stesso Cristo se potesse». Ed è cosa stolta aver fede in coloro che fanno mestiere della frode.
CCLXIII

MERAVIGLIOSA COMPENSAZIONE FRA PENITENTE E CONFESSORE

Un tale, o sul serio o per ingannare il prete, andò da questo, dicendogli che voleva confessare i suoi peccati. E invitato a dire ciò che si ricordasse, disse che aveva rubata non so che cosa di nascosto ad un altro, ma aggiunse che quello aveva molto più rubato a lui. E il sacerdote: «Una cosa», disse, «si computa coll'altra e siete pari»,. Poi aggiunse che aveva bastonato qualcuno, ma che aveva ricevuto anch'egli qualche colpo; e nella stessa guisa, disse il prete, che uguale era la colpa e la pena. E avendo nello stesso modo parlato di molte cose, il sacerdote dissegli che una cosa coll'altra si compensava. E il penitente: «Ora», disse, «rimane un peccato del quale mi vergogno ed arrossisco, con voi specialmente che ne siete offeso». E avendolo il sacerdote esortato a lasciar la vergogna e a dire liberamente dove avesse peccato, egli resistette lungamente, poi mosso dall'insistenza del sacerdote: «Io», disse, «ho avuto tua sorella». «Ed io», disse il prete, «ho più volte avuta tua madre, e come per le altre cose, l'una compensa l'altra». E per questa eguaglianza di peccato lo assolse.
CCLXIV

DETTI ARGUTISSIMI DI DUE FANCIULLI FIORENTINI

Un fanciullo di Firenze portava nell'Arno di quelle reti che servono per lavar le lane; un altro fanciullo che incontrò, gli chiese per giuoco: «A che caccia vai con coteste reti?». E l'altro: «Vado all'uscita del lupanare per vedere di prender tua madre». «Ah!», rispose l'altro, «sta' ben in guardia e fa' con diligenza, che troverai anche la tua». E ambedue furono argute risposte.
CCLXV

CONFUSIONE DI UN GIOVANE CHE PISCIO' SULLA TAVOLA DA PRANZO

Un giovane nobile ungherese, invitato a pranzo da un parente di maggior nobiltà, vi andò a cavallo, seguito dai servi; e quando vi giunse, disceso da cavallo, si fecero incontro gli uomini e le donne, e tosto, poiché l'ora era tarda, lo portarono alla tavola che era preparata. Lavate le mani, lo posero a mensa fra due belle fanciulle, figliuole dell'ospite. Il giovane che sentiva bisogno di mingere, taceva per pudore, e non essendovi pretesto di alzarsi durante il pranzo, aveva così forte dolore alla vescica, che si dimenticava di prendere cibo. Tutti s'erano accorti di questa sua sospensione di animo, e che andava lento a mangiare, e tutti lo eccitavano, quando egli, mosso dal dolore, pose la destra sotto la tavola, e di nascosto quell'affare gonfio introdusse in uno degli stivali, per lasciar finalmente andare quel liquido. In quel punto, la giovane ch'egli aveva alla destra gli disse: «Su dunque! mangiate!». E in questa gli prese il braccio, e trasse sulla tavola la mano, con quel che c'era, in modo che tutta la tavola ne fu inondata. A questo insolito spettacolo risero tutti e il giovane si fe' rosso di vergogna.
CCLXVI

UNA DONNA FIORENTINA COLTA SUL FATTO

Una donna che abitava nei dintorni di Firenze, moglie di un oste, e che era molto liberale, giaceva un giorno con l'amante suo; venne frattanto improvvisamente un altro, per far quello che l'altro faceva, e la donna che lo sentì salir le scale gli andò incontro, e prese a rimproverarlo e a impedirgli di andar oltre, dicendo che non aveva tempo per contentarlo e pregandolo di andarsene subito. Quegli non voleva, ed essendo durati qualche tempo nella contesa, in questa sopravvenne il marito, che volle sapere la ragione del litigio: «Costui», rispose la donna, «è adirato e vuol andar di sopra, per ferire un tale che si è rifugiato nella casa e che io ho nascosto perché non avvenga questo delitto». Colui che stava nascosto, udite queste parole, prese a proferir minacce e a dire che voleva vendicar l'affronto. E l'altro simulò di minacciare e di far forza contro quello. E il marito, sciocco, cercò la causa del dissenso di que' due, e si assunse l'impegno di metter pace fra loro, e dopo aver parlato con entrambi, la concluse e fece bere loro del suo vino, e all'adulterio la donna aggiunse anche il danno della bevuta. Perché le donne prese sul fatto sono sempre molto astute per rimediarvi
CCLXVII

DI UN MORTO CHE ERA VIVO E CHE PORTATO AL SEPOLCRO PARLO' E FECE RIDERE

Eravi a Firenze uno stoloto, chiamato Nigniaca, che non era furioso e anzi abbastanza giocondo. Alcuni giovani allegri, per averne da ridere, vollero persuaderlo che aveva molto male, e concertata la cosa, quando uno di loro uscì di casa la mattina e incontrò il matto e gli chiese che male avesse, perché aveva la faccia stravolta e pallida: «Nessuno», rispose il matto. Poi, dopo essere andato un poco innanzi, un altro della congiura lo interrogò se avesse egli la febbre, da quel che si vedeva dalla faccia smorta e da ammalato. E lo stolto prese a dubitarne, come se quel che e' dicevano fosse vero. E andava timidamente e a passo lento, quando s'imbatté in un terzo che, come era stabilito, appena vistolo: «Hai una faccia», disse, «che mostra che sei gravemente malato ed hai una violentissima febbre». E quello temé sempre di più, e fermatosi, stava pensando se realmente si sentisse in febbre. E sopraggiunse un quarto, che affermò che egli era infermo, e si meravigliò che e' non fosse in letto e lo persuase ad andarsene subito a casa, e si offerse come amico, e promise che l'avrebbe curato come un fratello. Lo sciocco tornò indietro, come se fosse preso da grave malore, ed entrò nel letto, che parea che spirasse. E gli altri amici vennero tutti alla casa e dissero che aveva ben fatto quello che l'aveva messo a letto. Poco dopo venne un tale che si spacciava per medico, e toccato il polso, disse che il malato poco dopo sarebbe per quel male morto. E i circostanti diceansi gli uni agli altri: «Già incomincia a morire, già gli si freddano i piedi, già balbetta, già si fan di vetro gli occhi». E tutti in una volta: «È spirato. Chiudiamogli dunque gli occhi e componiamolo e portiamolo a seppellire». E poi: «Oh! che disgrazia è per noi questa perdita! Egli era buono e nostro amico». E si consolavano a vicenda. Lo stolto, come se fosse morto, persuase se stesso di esser morto. Postolo sul feretro, quei giovani lo portarono per la città, e quando i passanti chiedevano che ciò fosse, rispondevano che era Nigniaca che essi portavano al sepolcro. E lungo il viaggio molti presero parte al giuoco. Ad un punto saltò su un taverniere: «O che cattivo animale fu egli mai, e che pessimo ladro, degno di essere appiccato!». Allora lo stolto, udite queste parole, alzò il capo: «Se fossi vivo», rispose, «come son morto, ti direi, furfante, che tu menti per la gola». E coloro che lo portavano diedero in un gran riso e lasciarono l'uomo nel feretro.
CCLXVII

DI UN SOFISMA

Due amici, al passeggio, discutevano se fosse maggiore la voluttà nel fare all'amore o nello sgombrarsi il ventre, e videro una donna che non aveva mai disprezzato di trovarsi con gli uomini: «Chiediamolo a costei», disse uno, «che è esperta in entrambe le cose». «No», rispose l'altro, «costei non può giudicare la cosa; perché fece all'amore di più che non abbia cacato».
CCLXIX

DI UN MUGNAIO CHE FU INGANNATO DALLA MOGLIE CHE GLI DIE' A MANGIARE CINQUE UOVA

È da aggiungersi alle altre storielle anche questa, che è molto conosciuta a Mantova. E' vicino alla città un mulino il cui padrone era nominato Cornicula. Una sera di estate stava seduto sul ponte, e vide passare una giovane contadina che pareva senza asilo, e la invitò, poiché l'ora era tarda, e il sole tramontava, ad entrare in casa da sua moglie. Avendo ella acconsentito, chiamò un servo e gli ingiunse di accompagnarla dalla moglie, di darle da cena, e di metterla a letto. Rimandato il servo, la moglie, che aveva capito che il marito faceva la voglia della giovane, la pose nel suo letto, e nel letto che egli le aveva destinato andò essa a dormire. Il marito stette per il suo mestiere alzato tutta la notte, e tornato di nascosto a casa entrò nella stanza, e non sapendo dell'inganno, in silenzio si servì della moglie, che non disse parola. E quando uscì, raccontò la cosa al servo, dicendo che se voleva, entrasse; e questo ebbe la moglie del padrone. Cornicula, poi, andò nella camera solita e andò in letto zitto per` non destar la moglie, come credeva Alla mattina sorse pel primo e se ne andò senza parlare, credendo di avere avuta la ragazza. Quando tornò a casa all'ora del pranzo, la moglie gli si fe' incontro e gli diede cinque uova da bere. Meravigliato l'uomo della novità della cosa, le chiese che volesse ciò significare, ed essa tutta allegra disse che gli offriva tante uova quante miglia quella notte aveva seco fatte. Capì l'uomo di essere stato preso al laccio che egli aveva teso, e fingendo di essere stato egli solo nella camera con la moglie, bevve le uova. Accade spesso che i malvagi siano puniti con la loro stessa malvagità.
CCLXX

GRAZIOSO DETTO PER NEGARE LA BELLEZZA

Andavano per le vie di Firenze due amici parlando, e uno di questi era bislungo e corpulento, e brutto e nero di faccia. Questi, veduta una giovinetta che passeggiava con la madre: «Costei», disse per scherzo, «è una giovinetta bella e molto graziosa». L'altra, fatta insolente da tali parole: «Non si potrebbe», rispose, «dire altrettanto di voi». «Oh, sì anzi», disse l'altro, «se uno volesse mentire come ho fatto io con voi».
CCLXXI

RISPOSTA FACETA MA POCO ONESTA DI UNA DONNA

Uno Spagnuolo amico mio mi raccontò di un motto arguto di una donna, il quale mi pare debba aggiungersi a queste nostre storie. Un tale, di età matura, condusse in moglie una vedova, e nella prima notte, servendosi del matrimonio, trovò la stanza più larga di quel che credeva: «Amica mia», le disse, «questa tua stalla è più grande di quello che abbisogni al mio armento». E la donna: «Ma questa», rispose, «è colpa tua; poiché il marito mio che morì (e che Dio gli abbia misericordia) la riempiva così bene, che spesso i becchi non trovavan posto e stavano di fuori». Risposta arguta e graziosa.
CCLXXII

OSCENO CONFRONTO COI DENTI CHE CIONDOLANO

Un vescovo, che io ho conosciuto, aveva perduto qualche dente e ne aveva altri che ciondolavano, e temeva della loro caduta. Un giorno gli disse un amico: «Non temete, i denti non cadranno». E chiestane la ragione: «I miei testicoli», rispose, «già da quarant'anni ciondolano, pare che cadano, e non son mai caduti».
CONCLUSIONE

Ho io in animo, prima di chiudere la serie di queste nostre storielle, di aggiungere anche in qual luogo la maggior parte di esse, come il teatro fosse, furon dette; e questo fu il nostro Bugiale, specie di officina di menzogne che fu da' Segretari fondata per ridere. Fin dal tempo di Papa Martino avevamo abitudine di scegliere un luogo in disparte, in cui ci comunicavamo l'un l'altro le nuove, e dove si parlava di varie cose, sia sul serio, sia per distrarre l'animo. Ivi non la si perdonava ad alcuno, e si diceva male di tutto ciò che ci dispiaceva; e spesso lo stesso Papa dava materia alle critiche nostre; ed era per questo che molti venivano in quel luogo per paura di non essere i primi colpiti. E fra i narratori il primo era Razello da Bologna, dal quale ho raccolto molte delle storie narrate. E anche Antonio Lusco, del quale spesso si parla, era uomo molto arguto, e anche Cencio Romano, dato anch'egli alla burla. E pure qualcuna delle mie vi aggiunsi, che non sono del tutto sciocche. Ora i miei amici sono morti e il Bugiale non è più, e per colpa de' tempi e degli uomini si va perdendo il buon uso dello scherzo e del conversare.


Traduzione in lingua italiana di autore ignoto, pubblicata dall'editore Sommaruga di Roma nel l884.


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