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domenica 28 febbraio 2016

Carlo Gnocchi. Non esistono malattie, ma malati, cioè un dato modo di ammalarsi proprio di ciascuno e corrispondente alla sua profonda individualità somatica, umorale e psicologica.

Non esistono malattie, ma malati, cioè un dato modo di ammalarsi proprio di ciascuno e corrispondente alla sua profonda individualità somatica, umorale e psicologica.
Carlo Gnocchi (25 ottobre 1902 – 28 febbraio 1956)

domenica 21 febbraio 2016

Le sette meraviglie del mondo antico - Il tempio di Artemide ad Efeso. Di Babilonia rocciosa le mura percorse da carri e vicino all’Alfeo Zeus ammirai, poi quei giardini sospesi e il grande colosso del Sole, le fatiche delle piramidi, che arrivano al cielo, il Mausoleo enorme; ma quando di Artemide vidi alto innalzarsi tra le nubi il tempio, tutto bianco mi parve e pesai che, oltre all’Olimpo, il Sole mai altra simile perla vide.

Di Babilonia rocciosa le mura percorse da carri
e vicino all’Alfeo Zeus ammirai,
poi quei giardini sospesi e il grande colosso del Sole,
le fatiche delle piramidi, che arrivano al cielo,
il Mausoleo enorme; ma quando di Artemide vidi
alto innalzarsi tra le nubi il tempio,
tutto bianco mi parve e pesai che, oltre all’Olimpo,
il Sole mai altra simile perla vide.
Antipatro, Antologia Palatina

IL TEMPIO DI ARTEMIDE AD EFESO: UNA MERAVIGLIA DEL MONDO ANTICO



Thanatos - [Di sconosciuto [CC BY-SA 2.5], attraverso Wikimedia Commons]
Thanatos – [Di sconosciuto [CC BY-SA 2.5], attraverso Wikimedia Commons]

Con questo epigramma, attribuito al poeta greco Antipatro e conservato nell’Antologia Palatina, viene fissato in via quasi definitiva, nel I secolo a.C., quell’elenco di manufatti umani che prende il nome di “Sette meraviglie del mondo antico”. Si tratta di opere di ingegneria, architettura, arte che hanno in comune la bellezza e dimensioni enormi. L’autore li cita in versi, con il linguaggio tipico della forma poetica: le mura e i giardini pensili di Babilonia, la statua di Zeus a Olimpia, il colosso di Rodi, le piramidi, il monumento funebre di Mausolo e, infine, il tempio di Artemide ad Efeso. L’elenco, poi, si modificherà ancora, sostituendo le mura di Babilonia con il faro di Alessandria d’Egitto, ma già in epoca romana è quasi pronto per essere tramandato nei secoli a venire. 

A leggere bene i versi dell’Antologia Palatina, è chiaro che la preferenza dell’autore cade sul tempio efesino dedicato alla dea Artemide, altrimenti noto col nome di Artemisio. Costruito nel VI secolo a.C. e parzialmente distrutto nel 356 a.C. da un terribile incendio, voluto – dice la tradizione – da Erostrato, che desiderava essere in qualche modo ricordato per sempre, fu ricostruito quasi subito, tanto che Alessandro Magno, trovandosi in città mentre fervevano i lavori per rimetterlo in piedi, si era mostrato disposto a pagare forti somme per sovvenzionare l’opera, nella speranza di poter poi fare incidere il suo nome sul marmo. Avrà ancora una lunga storia, perché verrà demolito solo nel III d.C. per opera dei Goti..
Nonostante la sua distruzione, alcune fonti scritte e le monete trovate nei pressi del tempio hanno permesso di comprenderne e ammirarne le forme. L’iconografia tramandata dalla numismatica ce lo mostra come tempio periptero, con colonne su tutti i lati, che si innalzano su gradinate. Sono colonne snelle e scanalate, con basi di marmo scolpito e bei capitelli di ordine ionico. La struttura in marmo splendente era sormontata da un tetto e le sue dimensioni erano tali che, per abbracciarla interamente col lo sguardo, l’osservatore era costretto a indietreggiare fino all’altare sacrificale posto di fronte alla facciata. Nel timpano, dove erano state collocate quattro statue di Amazzoni, che nel primo tempio portavano la firma di artisti famosi, come Fidia, Policleto, Cresila e Fradmone, erano state praticate tre aperture: quella centrale, affiancata da due di queste statue, serviva per rendere visibile la statua della dea anche a chi stava fuori dal tempio.
Questo era circondato da un ampio cortile, cosa che permetteva di scorgerlo da lontano. Qui lavoravano artigiani e mercanti, intenti i primi a riprodurre “souvenir” del monumento o della statua della dea, i secondi a venderli a fedeli, viandanti e marinai approdati in città. Il luogo, però, era meta anche di artisti, poeti e filosofi (si tramanda, per esempio, che Eraclito, filosofo vissuto nel VI a.C., avesse deciso di rifugiarsi lì per evitare il contatto con altri uomini) e, soprattutto, di tutti coloro che cercavano protezione. L’Artemisio, infatti, concedeva ai supplici diritto d’asilo e li proteggeva da ogni forma di rappresaglia: così, vi trovarono rifugio i figli di Serse, dopo la sconfitta persiana ad opera dei greci, e, secoli dopo, Arsinoe, in fuga dalla sorella Cleopatra. Ma pare che anche le Amazzoni, secondo il racconto del mito, avessero chiesto e trovato protezione lì, ragion per cui sul timpano si trovavano le loro statue.
Quanto alla statua di Artemide, dobbiamo immaginarla ben diversa dall’iconografia tradizionale della dea: non la rappresentava, infatti, come una bella giovane intenta alla caccia, scattante e snella, ma come una donna statica (la parte inferiore, infatti, ricorda un sarcofago egizio), simbolo piuttosto di fertilità per i suoi molteplici seni (è detta per tale motivo “polimastica”). Perché questa discordanza con la tradizionale immagine di Artemide? Ci sono buone ragioni per credere che la dea efesina si rifacesse più alla tradizione asiatica che a quella greca e riproponesse la figura della dea Cibele: infatti, in molti dialetti dell’Asia Minore, Artemide era detta Kubaba e al suo nome era spesso affiancato anche l’aggettivo “megale”, cioè grande, proprio come accadeva con Cibele, la “grande madre”.

Artemide, II secolo d.c. dalla domus del protiro - Di Sailko (Opera propria) [CC BY 3.0], attraverso Wikimedia Commons
Artemide, II secolo d.c. dalla domus del protiro – Di Sailko (Opera propria) [CC BY 3.0], attraverso Wikimedia Commons

Sebbene il tempio, dopo la distruzione, sia andato quasi completamente perduto (ad eccezione di alcuni resti e dell’importante Deposito delle Fondazioni, dove sono state ritrovate monete e statuette cultuali), nei secoli la sua fama non si perse mai del tutto, anzi è rimasta artisticamente intatta, tanto che nel 1952 un maestro del calibro di Salvador Dalì ritrasse il monumento nel quadro Il tempio di Diana a Efeso, riproducendone fedelmente la facciata.

http://www.milanoplatinum.com/il-tempio-di-artemide-a-efeso-una-meraviglia-del-mondo-antico.html


giovedì 18 febbraio 2016

Lapalissiano. "qui giace colui il quale se non fosse morto sarebbe ancora in vita". Il termine lapalissiano deriva da un errore di interpretazione della scritta sulla sua lapide.



Robert Delsol
98. LAPALISSIANO
È definito come un ragionamento o un'affermazione, le cui conclusioni appaiono immediatamente così ovvie e scontate, da sembrare del tutto inutile discuterne.
Derivato dal nome del maresciallo Jacques de La Palice; più precisamente si allude ai versi, divenuti proverbiali, di un’ingenua strofetta cantata dai soldati dopo la sua morte, per celebrarne la «vitalità» come combattente:
"Un quart d’heure avant sa mort Il était encore en vie"
(Un quarto d’ora prima di morire era ancora in vita).
Sinonimo di ovvio, evidente; detto di una verità o di un fatto talmente manifesti e naturali che sarebbe ridicolo enunciarli.
Ma cosa stabilisce l'ovvietà di un ragionamento lapalissiano?
È forse un enunciato tautologico oppure è un tipo di conoscenza così diffusa da somigliare a quella barzelletta raccontata così tante volte da aver perso il suo effetto esilarante?
L'enunciato "2+2=4" è una verità lapalissiana, oppure è discutibile?


La Battaglia di Pavia (1525).
Con il crollo dell'equilibrio degli Stati italiani, la Penisola, dal 1494 al 1559, divenne un enorme campo di battaglia sul quale combatterono l'Impero, la Francia e la Spagna. Il 24 febbraio 1525 le truppe francesi di Francesco I di Valois e le truppe spagnole e tedesche di Carlo V si scontrarono a Pavia: la battaglia fu vinta dalle truppe di Carlo V e lo stesso re di Francia venne catturato.




Kirk Vindloeper 
Su quel campo di battaglia morirono tra gli altri Fanfulla da Lodi, uno dei cavalieri della disfida di Barletta di vent'anni prima, e Monsieur de la Palice, Maresciallo di Francia, persona colta e raffinata, sulla cui lapide avrebbero scritto la celebre frase: "Qui giace Monsieur de la Palice, che se non fosse morto farebbe ancora invidia". Per errore sarebbe stata letta in seguito così: "[...] che se non fosse morto sarebbe ancora in vita", da cui l'aggettivo "lapalissiano".






L'aggettivo lapalissiano è più dovuto al deterioramento della lapide di La Palice che non alla sua partecipazione alla battaglia di Pavia! 



No: il termine lapalissiano deriva da un errore di interpretazione della scritta sulla sua lapide, che in Italiano suona su per giù "qui giace colui il quale se non fosse morto sarebbe ancora in vita".




La lapide originalmente era corretta ("se non fosse morto, farebbe ancora invidia"), ma col tempo fu sbiadita e il verbo "farebbe" fu letto come "sarebbe" (anche per l'uso barocco della "s" corsiva molto allungata, uso invece estraneo all'epoca di La Palice) e "invidia" (envie) fu letta "in vita" (en vie).




Lucia Baracco. Barriere percettive e progettazione inclusiva. Non si tratta di eliminare ostacoli fisici, bensì di «aggiungere» informazioni.

Al fine di consentire alle persone con disabilità di vivere in maniera indipendente e di partecipare pienamente a lutti gli ambiti della vita, gli Stati Parti devono prendere misure appropriale per assicurare alle persone con disabilità, su base di eguaglianza con gli altri, l'accesso all'ambiente fisico, ai trasporti, all'informazione e alla comunicazione, compresi i sistemi e le tecnologie di informazione e comunicazione, e ad altre attrezzature e servizi aperti o offerti al pubblico, sia nelle
aree urbane che nelle aree rurali.
Articolo 9. Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità



"Non si tratta di eliminare ostacoli fisici, bensì di «aggiungere» informazioni."
Barriere percettive e progettazione inclusiva
Accessibilità ambientale per persone con difficoltà visive
Lucia Baracco



Le barriere percettive possono determinare notevoli difficoltà nella mobilità e nell’orientamento di tutti, non solo delle persone con disabilità visiva. Per riconoscerle e abbatterle non basta applicare alla lettera i regolamenti tecnici, ma bisogna aver compreso davvero il problema.
Nel libro l'autrice, architetto ipovedente, descrive minuziosamente le difficoltà che incontrano le persone che vedono poco muovendosi nell’ambiente urbano, salendo (ma soprattutto scendendo) scale, attraversando strade, spostandosi in grandi spazi come stazioni o aeroporti, usando i mezzi di trasporto, cercando informazioni e altro. 
Centinaia di fotografie illustrano con esempi, sia positivi che negativi, varie situazioni problematiche spiegando le difficoltà degli utenti ma anche l’enorme gamma di possibili soluzioni che, con semplici ed economici accorgimenti, consentirebbero di superare efficacemente il problema e di migliorare la vita di tutti, non solo di chi vede poco.


<<[...] Il tentativo, per me necessario e molto stimolante, è quello di far comprendere il problema, rendendo in qualche modo «visibili» le barriere architettoniche «invisibili», fornendo nel contempo a chi ha il compito di progettare e di modificare l'ambiente qualche strumento in più per una progettazione sempre più consapevole e davvero rispondente ai principi dell'Universal Design.
Le riflessioni contenute in questo testo partono dalla constatazione della mancata declinazione del concetto di barriera architettonica di tipo percettivo così come definita dal DM 236/89, articolo 1, lettera c: «Per barriere architettoniche si intendono: [...] la mancanza di accorgimenti e segnalazioni che permettono l'orientamento e la riconoscibilità dei luoghi e delle fonti di pericolo per chiunque, ed in particolare per i non vedenti, gli ipovedenti e i sordi». Si tratta dunque di oltre un quarto di secolo di evidente incomprensione del concetto di barriera di tipo percettivo, di scarsa considerazione delle esigenze di chi vede poco o pochissimo. A conferma di questa sottovalutazione sono stati inseriti nel testo alcuni esempi che rappresentano solo la punta di un iceberg di una consuetudine ampia e diffusa. Ho incluso alcune delle numerose fotografie raccolte in questi anni di personale attenzione al tema, convinta che le immagini di casi concreti in importanti ambiti di vita quotidiana siano più eloquenti ed efficaci di mille parole. Attraverso questa «strategia» di comunicazione mi auguro sia possibile trasmettere in maniera diretta ed esemplificativa sia le buone soluzioni sia le criticità non risolte>>.

1. Decreto Ministeriale, Ministero dei Lavori Pubblici 14 giugno 1989, n. 236
«Prescrizioni tecniche necessarie a garantire l'accessibilità, l'adattabilità e la visitabilità degli edifìci privati e di edilizia residenziale pubblica sovvenzionata e agevolata, ai fini del superamento e dell'eliminazione delle barriere architettoniche» (pubblicato in suppl. ord. alla Gazzetta Ufficiale n. 145 del 23 giugno 1989).

Lucia Baracco, Barriere percettive e progettazione inclusiva, Pag. 14    

- Presentazione (Flavio Fogarolo)
- Introduzione
- L’ipovisione
     Cos’è l’ipovisione 
     Aspetti psicologici e comportamentali dell’ipovisione
     Le patologie che causano l’ipovisione 
     Invecchiamento della popolazione e ipovisione

- Le barriere percettive
     Barriere architettoniche e barriere percettive 
     Quali barriere per la popolazione 
     I fondamenti del design accessibile

- Muoversi nell’ambiente in sicurezza 
     Fonti di pericolo
     Scale e dislivelli 
     Attraversamenti pedonali
     Ostacoli lungo i percorsi 
     SCHEDA 3A – Un caso emblematico
     SCHEDA 3B – Un ottimo esempio: i ponti veneziani
     SCHEDA 3C – Il marcagradino non è solo una striscia di nastro nero 
     SCHEDA 3D – Un caso che fa riflettere
     SCHEDA 3E – Pareti e porte vetrate

- Orientarsi e fruire degli spazi
     Cosa significa orientarsi in uno spazio
     Norme su wayfinding e disabilità visiva
     Punti di riferimento
     La segnaletica
     La rappresentazione degli spazi 
     SCHEDA 4A – L’ascensore 
     SCHEDA 4B – Uso del colore 
     SCHEDA 4C – Pavimenti e materiali di rivestimento 
     SCHEDA 4D – Porte e maniglie
     SCHEDA 4E – Interfacce tecnologiche

- Viaggiare con i mezzi di trasporto pubblico
     Il diritto alla mobilità
     Muoversi in stazione
     Aspettare il mezzo di trasporto
     Conoscere gli orari
     Acquistare il biglietto e convalidarlo
     Identificare il mezzo e prendere posto
     Scendere al momento giusto
     SCHEDA 5A – Un esempio di design inclusivo 
     SCHEDA 5B – Prendere un taxi
     SCHEDA 5C –  La Metropolitana di Londra

http://shop.erickson.it/front4/Image/Products/LIBRO_978-88-590-1006-7_X513_Barriere-percettive-e-progettazione-inclusiva/Pdf/SFO_978-88-590-1006-7_Barriere-percettive-e-progettazione-inclusiva.pdf

lunedì 15 febbraio 2016

Anna Oliverio Ferraris, Pronti per il mondo. Comunicare in famiglia. Tre tipi di genitori: autoritari, permissivi, autorevoli.


TRE TIPI DI GENITORI: AUTORITARI, PERMISSIVI E AUTOREVOLI
Tre tipi di genitori. Vediamone le caratteristiche e le conseguenze sullo sviluppo dei figli.
GENITORI AUTORITARI. Stabiliscono le regole senza fornire spiegazioni e raramente tengono conto dell'opinione dei figli. Questi genitori si aspettano che i figli obbediscano senza discutere. I figli di genitori autoritari tendono a essere obbedienti, con un forte senso del dovere, ma anche sgarbati, insolenti. Possono presentare difficoltà nelle relazioni sociali.
GENITORI PERMISSIVI. Credono nella naturale bontà dei bambini. Qualunque cosa chiedano, la concedono. Non svolgono una funzione di guida, non pongono limiti né fanno richieste. In altre parole, i genitori si aspettano che i figli si educhino da soli.
I figli di genitori permissivi sono più spesso confusi, poco propositivi e non interessati ai risultati.
GENITORI AUTOREVOLI. Richiedono rispetto e stabiliscono regole che possono essere rispettate perché si adattano all'età e alle caratteristiche dei figli. Riconoscono i desideri e i bisogni dei figli e chiedono la loro opinione. Non sono invadenti, non si sostituiscono a loro, dialogano, danno risposte. Sanno dire “no” quando lo ritengono necessario. Educano all'autonomia e a imparare dai propri errori. Hanno un rapporto caldo e rispettano la personalità dei figli. I figli di genitori autorevoli risultano, in media, i più capaci. Tendono a essere più fiduciosi nelle proprie possibilità, socialmente responsabili, contenti, dotati di autocontrollo e cooperativi.
Elaborato dal testo di Anna Oliverio Ferraris, Pronti per il mondo, BUR, pp 177-180



Modelli familiari: il modello democratico-permissivo
Autore: Dott.ssa Gloria Agostini 10 Agosto 2015

Oggigiorno si possono individuare modelli e stili familiari diversi che non possono essere considerati, a priori, giusti o sbagliati; ognuno di loro ha sicuramente degli aspetti più o meno funzionali al raggiungimento di un determinato obiettivo, all'interno di una determinata situazione.

Come ogni cosa però, quando questi modelli finiscono per irrigidirsi, allora sfociano nel patologico. Cosa vuol dire irrigidirsi? Che vengono mantenuti sempre e comunque gli stessi tipi di comportamento anche quando non si raggiungono i risultati sperati.


Diamo un'occhiata alla ricerca-intervento orientata allo studio dell'evoluzione dei modelli di famiglia italiana condotta alla fine degli anni Novanta (Nardone, Giannotti, Rocchi, 2001).


"Modello familiare democratico- permissivo"
Oggi viviamo in un tipo di società in cui, per cultura e/o tradizione, siamo poco abituati all'utilizzo di certi sani "no" per i nostri figli. Probabilmente cerchiamo di prendere le distanze da un retaggio culturale passato che vedeva il padre come una figura autoritaria impegnata nel lavoro e la madre come figura più mite, sottomessa al marito. A quello stile familiare si ricollega l'idea, non sempre reale, dell'utilizzo di certe maniere forti e poco educative.

Come accade spesso, per prendere le distanze da un qualcosa che non ci piace, si finisce per cadere nell'esatto contrario, con risultati che non sono mai quelli attesi; si finisce semplicemente nel cambiare la faccia della stessa medaglia.

Comunque, scendendo nello specifico, il modello democratico-permissivo prevede l'assenza di ogni gerarchia, tutti i suoi membri sono uguali ed è tutto improntato al dialogo per raggiungere e mantenere l'obiettivo comune: l'armonia del contesto familiare e l'assenza di conflitto.

Le regole stesse sono concordate da tutti i membri e possono essere negoziate cercando di evitare accuratamente le punizioni. In questi contesti il genitore non ricopre il ruolo di guida, ma di amico del figlio e nel caso in cui sia necessario un intervento educativo, si ripete lo stesso copione: si entra in simmetria col figlio, ma, per evitare il conflitto, poi il genitore finisce per cedere alle richieste.

È proprio questo stile che porta a crescere dei piccoli tiranni, infatti i figli capiscono subito come utilizzare capricci e prepotenze per raggiungere i loro obiettivi.

Oltre a tutto ciò, però, c'è un aspetto che i genitori tendono a sottovalutare: proprio perché sono considerati più amici che guide, nel momento in cui il figlio si troverà in difficoltà, andrà a cercare aiuto altrove, non ritenendo il genitore all'altezza della situazione.

Inoltre capita frequentemente che questi ragazzi crescano con l'idea di essere chi non sono in realtà e vadano in crisi di fronte alle prime difficoltà e ai primi "no" che, inevitabilmente, la realtà porrà loro di fronte.

Come gestire questo sistema familiare? La prima cosa è ristabilire una gerarchia che espliciti quelli che sono i ruoli dei genitori e quelli dei figli per poi stabilire il rispetto di certe regole.

Nessuno sa come diventare un buon genitore, ma dobbiamo sapere che imparare ad osservarsi e mettersi in discussione può aiutarci ad individuare i nostri limiti per trasformarli in risorse.

Bibliografia
Nardone, G., Giannotti, E., Rocchi, R. (2001). Modelli di famiglia, TEA.
Nardone, G., coll. (2012). Aiutare i genitori ad aiutare i figli, Milano, Ponte alle Grazie.

http://www.guidapsicologi.it/articoli/modelli-familiari-il-modello-democratico-permissivo



12 frasi tossiche che un genitore non dovrebbe mai dire al figlio
Ana Maria Sepe Ott 25th, 2016 

Sin da piccoli siamo influenzati dalle parole; su di noi incidono le parole che pronunciamo, quelle che ci vengono dette e quelle che vorremmo dire o sentire. Le parole, infatti,  possono determinare la nostra felicità, influendo sulle emozioni e sugli stati d’animo. Possono ferire, innervosire, alterare oppure possono fortificare, calmare, sostenere e rassicurare chi le pronuncia e chi le ascolta e riceve.

Quello che diciamo da adulti, il modo in cui ci esprimiamo e ci rapportiamo all’altro ci caratterizza e identifica.

Per comprendere l’importanza estrema delle parole, ci basti pensare a quelle frasi (pronunciate o ascoltate) che, seppure non accompagnate da gesti eclatanti, sono state capaci di segnare in maniera determinante il percorso della nostra vita.

Ti Amo”, quello detto la prima volta dal compagno;
ti lascio”, quella ferita che significava solitudine, che ha il sapore della resa e segna la fine;
sono orgoglioso\a di te” e all’opposto “mi hai deluso” …

Un adulto che sia diventato genitore è chiamato a riconoscere l’importanza delle parole e a gestirle nel modo migliore per assicurare una sana crescita al figlio o ai figli e per garantire anche a se stesso un ambiente familiare equilibrato e felice.”

Quello che facciamo ascoltare ai nostri bambini, la maniera in cui proponiamo loro di verbalizzare sentimenti ed emozioni, invece, li influenza e ne condiziona il processo di crescita e maturazione. Se si riconosce questo valore e questo potenziale alle parole si hanno più possibilità di imparare a misurare il proprio linguaggio educando i figli a fare altrettanto, tutto nel rispetto dei sentimenti altrui.

Pronunciare parole “tossiche” equivale ad avvelenare chi le riceve.
Il destinatario di frasi ed affermazioni dolorose, facilmente e per naturale reazione, adotterà un linguaggio e quindi un atteggiamento oppositivo, difensivo, rigido, provocatorio che andrà a discapito del confronto e della crescita. Adoperare un linguaggio positivo o “rigenerante” equivale a stimolare l’interlocutore a vantaggio di una pacifica riflessione ed intesa. I bambini hanno fiducia nei propri genitori, sono i loro punti di riferimento, per cui prendono alla lettera ciò che essi dicono, non riescono a considerare che mamma e papà potrebbero aver sbagliato.

12 frasi tossiche da non dire mai a un bambino.
La regola del linguaggio vale sempre, vale tanto per i bambini quanto per gli adulti

Qui di seguito proponiamo, come spunto di riflessione, 
10 frasi che un genitore non dovrebbe mai dire al proprio figlio


1) Se fai così, non ti voglio più bene
È una frase che ha un impatto devastante sul bambino, anche se l’adulto in realtà non lo pensa davvero. È un’espressione assolutamente da evitare, si tratta di un ricatto emotivo, in cui il bambino diventa insicuro dell’affetto che mamma e papà provano per lui, è sottoposto allo stress di poter perdere l’amore dei suoi genitori, pensando che sia per colpa sua e del suo comportamento.

Il bambino che si sente dire: “Non ti voglio più bene” 
percepisce un’interruzione affettiva violenta che lo priva del suo più saldo punto di riferimento, così, queste poche parole di rabbia, possono ingenerare nel figlio un profondo senso di vuoto. Per di più rappresentano un esempio sbagliato: il bambino deve avvertire il bene, l’amore familiare e l’affetto come qualche cosa di radicato e stabile che non si deve spezzare con facilità né mai si deve rompere in modo definitivo o radicale. I bimbi hanno sempre bisogno di continuità affettiva.

2) Faccio io, tu non sei capace
Maria Montessori diceva che non bisognerebbe mai, in nessun modo, inibire un bambino che sta cercando di fare. Senza essere montessoriane radicali, è evidente che dire a un bambino che non è capace di fare qualcosa è un modo sbagliato di apostrofarlo come inetto. Il consiglio è quello di lasciarlo fare, intervenendo solo qualora sia il bambino stesso a chiedere il nostro aiuto o a innervosirsi.

3) Sei cattivo, gli altri bimbi sono più buoni di te
Dire a tuo figlio “sei cattivo” non ti rende orgoglioso/a come genitore o non mette il bambino in buona luce. E’ sempre preferibile spiegare al piccolo che un determinato comportamento non è corretto, non è educato. A parte che gli aggettivi ‘cattivo’, ‘brutto’, ‘capriccioso’… andrebbero comunque limitati (cosa significa dire ‘cattivo’ a un bambino?), è assodato che un bimbo che per tutta la sua vita viene definito ‘cattivo’ finirà per crederci, assecondando l’idea che gli altri gli hanno imposto di lui.

Piuttosto, di fronte a un bambino che fa i capricci, è il caso di fermarsi e non appena si calma, guardandolo negli occhi e con aria calma, chiedergli le ragioni del suo comportamento e spiegare il perché dei vostri no o della vostra rabbia.


4) Tuo fratello (tua sorella) si comporta bene, perché tu no?
Ogni bambino ha una sua personalità, un suo percorso, una sua storia. A nessuno piace essere paragonato ad altri, soprattutto quando il paragone implica una critica. Mai, quindi, cedere a questo istinto. Il bambino va valutato nella sua singolarità, come essere autonomo e distinto.

Ciascun bimbo cresce e matura con un proprio ritmo ed un proprio temperamento. Paragonarlo a qualcun altro gli lascia intendere che lo vorreste diverso. E, in ogni caso, il paragone non serve a fargli modificare il proprio comportamento. Fargli pressione su qualcosa che ancora non è pronto a fare (o che non gli piace fare) può solo confonderlo e renderlo insicuro. Come conseguenza, proverà probabilmente risentimento nei vostri confronti e sarà deciso più che mai a non fare quello che voi desiderate cosi tanto che faccia. E’ il suo modo di protestare.

Al contrario, incoraggiate le sue piccole vittorie, i suoi progressi: “Wow, hai infilato il cappotto da solo!” oppure “grazie per avermi avvisata per tempo che dovevi fare la pipì”. Servirà a rinforzare i suoi comportamenti corretti e lo motiverà a fare sempre meglio.


5)  Lo faccio io, tu non sai farlo
Con una frase del genere generiamo nel bambino la perdita di iniziativa. Si sentiranno incapaci e goffi, e non avranno più fiducia nelle loro azioni e nel futuro.

Proprio per evitare di innescare meccanismi del genere, lasciate che i bambini facciano, anche se non faranno come voi, purchè si invogli la loro iniziativa e la loro autostima.


6) Vai via!
la maggior parte dei genitori ogni tanto desidera ardentemente una pausa e lo stress e la pressione quotidiana ci spingono talvolta ad allontanare i nostri bambini per poter terminare la cena, o per cambiare quella lampadina che si è fulminata da mesi o semplicemente perché siamo stanchi e vorremmo tanto rilassarci per qualche minuto sul divano.

Il problema è che se diciamo troppo spesso ai nostri figli frasi come “vai via” o “ora ho da fare”, loro si convinceranno che non vale la pena parlare con noi, proprio perché li allontaniamo sempre. E se si istaura questo circolo vizioso da piccoli, quasi sicuramente faranno fatica ad aprirsi con noi una volta cresciuti.

Una buona regola per noi genitori sarebbe quella di abituare sin dall’infanzia i nostri bimbi al fatto che mamma e papà hanno il diritto di ritagliarsi una pausa per se stessi, ogni tanto. Impariamo ad organizzarci con nonni, baby sitter, amici o vicini di casa. Basta anche mezz’ora per rilassarsi e ricaricare le batterie.



7) Piangi per niente!
Non bisogna mai sminuire o ridicolizzare i dispiaceri dei bambini, anche se possono sembrare di poco conto. State certi che con un’affermazione del genere non solo non si sentiranno compresi, ma probabilmente, un domani non vi racconteranno nemmeno i problemi più seri. La cosa migliore e mettersi al loro livello e consolarli in modo adeguato.


8) Non ci riuscirai mai!
Il bambino può non saper fare qualcosa, l’adulto ha il compito di indirizzare il bambino affinché riesca nei suoi obiettivi, nel caso in cui non ci riesca, allora si cerca una via alternativa oppure semplicemente si cambia la cosa da fare! Senza fare pesare al bambino la sconfitta, che, l’adulto sa, essere momentanea e non della vita!


9) Sei grasso/a!
Il bambino ha una fisicità non definita ed in via di crescita, criticare l’aspetto fisico di un bambino non fa altro che abbassare la sua autostima.
Il bambino può instaurare con il cibo un rapporto anomalo, sino a portarlo a disturbi alimentari che nell’adolescenza possono tramutarsi in obesità o anoressia.


10) Sei come tuo padre/madre
Questa frase, con tutte le possibili varianti, non necessariamente aiuta il bambino; paragonarlo ad un modello negativo non lo porta sulla giusta strada. Il risultato è che il bambino si spaventerà vedendo come potrebbe diventare e cercherà di rimuovere i sentimenti che sono dietro a un comportamento , mettendoli a tacere. Inoltre i bambini hanno bisogno di amare i genitori e di non vederli sminuiti. Insinuargli dei dubbi, significherebbe negare il bambino stesso, che per natura vorrebbe assomigliare a mamma e papà.


11) “Non ne posso più di te”
Frutto spesso dell’esasperazione, questa frase “Non ne posso più di te”, che potrebbe essere paragonata anche a “Mi hai stufato” o “Lasciami in pace”, non andrebbe mai detta i figli. Non andrebbe mai detta perché, nonostante la stanchezza e la mancanza di energie, un genitore è e rimane sempre una figura di riferimento fondamentale per i bambini. Con queste parole si rischia di mortificare il bambino, che non ne capisce circostanze, attenuanti e veri significati. Si rischia di instillare in lui una sorta di senso di colpa e di insicurezza.


12) Non ho tempo, lasciami stare
Se si ha bisogno di tempo per sé, meglio organizzarsi e ritagliarsi uno spazio piuttosto che ripetere in continuazione questa frase: dà al figlio la percezione di essere respinto e che il genitore non ha mai tempo per lui. Sarebbe preferibile preparare eventualmente il bambino in anticipo sul fatto che il genitore avrà un impegno ma che poi passerà del tempo con lui, dando indicazioni precise sul “quando”.

Queste sono affermazioni da non “puntare” mai contro un bambino, sono pistole che mirano al cuore e possono ingenerare nei piccoli sconforto, rabbia e frustrazione.

I bambini sono tutti uguali non esiste il bambino buono o quello cattivo, esiste, a monte e in radice, invece, la buona o la cattiva educazione che dipende sempre dal genitore. Il bambino non va messo in contrapposizione negativa con il mondo a lui va data l’opportunità di trarre dal mondo l’esempio positivo.

Nessun bambino dovrebbe mai sentirsi rifiutato

Tuo figlio, per crescere sereno deve avere stima di sé e se tu gli dimostri che Lui è unico, speciale e insostituibile lo sproni a migliorare e a crescere sulla strada degli ideali più saldi e puri. Il bambino che si sente rifiutato, allontanato e che avverte una negazione dell’affetto sarà facilmente un bimbo spaventato, insicuro e timoroso.

Ricorda, caro genitore…

Tu, che sei un adulto, sai bene che il collegio, l’uomo nero, la maestra cattiva non esistono e sai bene che non ti separeresti mai da tuo figlio né lo cambieresti mai con nessun altro bimbo al mondo …ma Lui, il bambino, non ha tutte le tue consapevolezze e intimamente soffre ogni qual volta teme che il tuo affetto verso di lui vacilli.


http://psicoadvisor.com/frasi-tossiche-sui-bambini-5257.html




al Sud alcune persone dicevano cosí ai figli; "Se non fai il/ la brava il cane nero ti mangia" il cane nero era il mio e mi veniva sempre la voglia di rispondere. Sì che ora vi mangia ma a lei no al bambino





Il padre poco affettuoso devasta lo sviluppo emotivo e cognitivo dei figli
Ana Maria Sepe Ott 16th, 2016

“Chi non ha un padre dovrebbe procurarsene uno”
Friedrich Nietzsche


Nella psicoanalisi classica e nell’immaginario collettivo di qualche anno fa, ciascun genitore aveva un ruolo ben definito all’interno della famiglia: madre affettiva e papà che dà le regole. Oggi, il ruolo della figura maschile è cambiato, il papà è anche una fonte di accudimento e attaccamento, ruolo prima ad esclusivo appannaggio della madre.

E’ stato ampiamente dimostrato quanto i padri siano importanti per lo sviluppo dei bambini tanto quanto le madri. Infatti, sia l’amore che il rifiuto da parte di entrambi i genitori, possono influenzare profondamente l’equilibrio emotivo, l’autostima e la salute mentale dei loro figli.

“Ogni uomo può essere padre. Ci vuole una persona speciale per essere un papà”.

Negli ultimi anni,  gli psicologi hanno cominciato a studiare più a fondo il ruolo dei genitori nello sviluppo del bambino. Così sono sorti vari studi che mettono in risalto l’importanza della figura paterna. Queste ricerche hanno rivelato come l’assenza del padre causi problemi di adattamento nei bambini, così come l’insorgere di comportamenti distruttivi man mano che crescono. Ovviamente, la sua presenza e la comprensione hanno l’effetto opposto: facilitano l’adattamento del bambino e promuovono un sano sviluppo psicologico.



Conseguenze psicologiche di un padre assente

Scopriamo quali sono le conseguenze di un’assenza affettiva cosi profonda e come fare per far guarire le ferite emotive legate a questa mancanza.

Problemi comportamentali
Un padre assente può generare nel bambino problemi comportamentali. Il bambino ha bisogno di un confronto continuo con il mondo esterno. La sola presenza fisica del genitore non basta a forgiare il carattere, ad aiutare il bambino ad affrontare il mondo.Anzi. Talvolta può essere addirittura peggiore la presenza fisica di un genitore se questa non è accompagnata dalle opportune attenzioni nei confronti del bambino.

Insicurezza e ansia
Un padre assente, o che mette in discussione ogni attività del bambino genera in lui ansia, insicurezza. È importante metterli in discussione certo, ma in maniera costruttiva, facendo comprendere che si è “dalla loro parte” sempre e comunque. Lo stimolo non va confuso con il disfattismo, con la negatività fine a se stessa.


Autostima
Il fatto di non riconoscere pienamente l’affetto del padre, o quantomeno il fatto di non avvertire senso di approvazione, porta il subconscio del bambino a ridurre la stima in se stesso. La personalità del bambino non è ancora pienamente sviluppata , si sta creando adesso, e sentirsi poco accettato da una figura cosi vicina ed importante come quella del padre condizionerà l’evoluzione del suo carattere.


Assenza paterna: il ruolo della madre
La madre spesso, pur di salvaguardare “l’unione familiare” tenta invano di giustificare l’assenza paterna con frasi tipo:
“dai sai benissimo com’è fatto tuo padre”; “tuo padre non si rende conto”; “cerca di capire tuo padre” “tuo padre lo fa per te”.


La madre fondamentalmente ha imparato ad accettare il carattere distaccato del compagno, e cerca di farlo comprendere anche al figlio, che a sua volta vive tutto ciò come una mancata considerazione. Ma non è assolutamente così. Proprio perché ama il piccolo, la figura materna ingenuamente, cerca di riportare a proprio modo la serenità in famiglia.


Padre assente: cosa succede da adulti?
Cosi come per qualsiasi figura che cresce accanto al bambino, ma che risulta emotivamente assente, anche la poca presenza di un padre genera conseguenze che si prolungano fino all’età adulta. L’adulto che ha avuto un padre poco presente infatti rimane, sotto alcuni aspetti, lo stesso bambino insicuro e ansioso che era un tempo.

Questo può provocare problemi, anche in età avanzata, nell’approcciarsi con gli altri. Il soggetto quindi sarà affetto molto probabilmente da forme di distacco sociale, di superficialità nei rapporti, di problemi di fiducia nei confronti degli altri.

Il seme della negatività interrato anni prima è diventato un germoglio, durante l’adolescenza un delicato arbusto e da adulto da i suoi frutti che si concretizzano con emozioni quali: paura e sfiducia verso il prossimo.


Perché un padre è assente?
Diverse sono le motivazioni che spingono un padre a non svolgere quello che è il suo ruolo. Non dimentichiamo che ogni padre è stato figlio a sua volta. È possibile che lui stesso sia stato vittima di ferite legate all’assenza di un genitore, ma non è questo il punto.
Può anche essere che, per un motivo o per un altro, nostro padre non abbia acquisito le capacità necessarie per creare un legame con noi figli. È colpa sua? È colpa nostra? Non è nemmeno qui che voglio arrivare.

È importante ciò che volete voi, nel presente, adesso!  Non nel passato. “Se vuoi qualcosa nella vita allunga la mano e prendila” la frase del celebre film (“into the wild”) risulta emblematica


Padre assente: come guarire dalle ferite
Partiamo dal presupposto che un padre assente lo ricorderete e vi segnerà comunque per tutta la vita e che nulla potrà riconcedervi quegli anni perduti. Ma non perdetevi d’animo. Ricordate sempre che anche se avete patito le sofferenze a causa di mancanza d’affetto da parte di un padre sicuramente vi saranno state (e vi sono) figure che in un modo o nell’altro hanno saputo aiutarvi nel vostro percorso di vita (nonni, zii, amici, partner).

Ormai siete adulti. Che avete il raziocinio per affrontare la vita e perché no di migliorare, un minimo, il rapporto con il vostro genitore. Con l’età si diventa più sensibili, si cambia, si da maggiore importanza a determinati aspetti trascurati in gioventù.


Migliorare il legame emotivo con il padre
Probabilmente anche vostro padre avrebbe voluto un rapporto diverso con voi ma non è riuscito ad impostarlo. Ora siete grandi, anche se mantenete il ruolo di figlio, probabilmente siete genitori a vostra volta e avete compreso quant’è difficile essere padri/madri. Non dovete accusare o rinfacciare, semplicemente, se lo riterrete opportuno, cercare di salvare il salvabile rendendo più “umano” il vostro rapporto.

Come? Un abbraccio, un sorriso, un “ti voglio bene” sembrano sciocchezze ma non lo sono per niente, sono i piccoli gesti, fatti col cuore, a migliorarci la vita.

Qual è il compito del padre? Quali sono le sue funzioni?

La paternità non è un ruolo facile, soprattutto per i padri novelli. È normale che i padri, come le madri, abbiano le loro paure, insicurezze e preoccupazioni.

Le linee guida dell’educazione si basano sulla partecipazione e cooperazione emotiva di entrambi i genitori, per cui richiedono impegno e una fiducia reciproca per far fronte in maniera completa alla formazione e alla maturazione dei figli. Se sei un neo papà prendi nota….


Riconosci i segni dello stress
Il primo problema che hanno molti padri è che, presi dalla loro routine quotidiana e sentendosi obbligati a sostenere la famiglia, non riconoscono neppure i segni dello stress. Pertanto, il primo passo è quello di riconoscere che ti senti ansioso o stressato. È anche importante imparare a identificare i fattori scatenanti dello stress nella vita quotidiana, per eliminarli o almeno ridurne al minimo l’impatto.


Riserva uno spazio per te
È importante che i padri abbiano una propria vita, oltre alla cura e l’attenzione che possono dare ai figli. Quindi, assicurati di trascorrere del tempo di qualità con la tua compagna e non abbandonare completamente i tuoi hobby. Questo tempo ti permetterà di rilassarti e ricaricarti d’energia. Ricorda che per prenderti cura di tuo figlio devi prima prenderti cura di te stesso.


Esprimi ciò che senti
Parlare delle tue paure, preoccupazioni e ansie ti aiuterà a sentirti meglio. Non c’è bisogno di nascondere questi sentimenti. In realtà, è importante che la tua compagna sia consapevole della tua preoccupazione per essere un buon padre e sostenerla, sentimenti che rafforzeranno i legami che vi tengono uniti.


Libri consigliati per i neo-papà

Quello che ogni uomo dovrebbe sapere sulla paternità

Il manuale del papà

Il papà debuttante

http://psicoadvisor.com/padre-assente-devasta-lo-sviluppo-emotivo-cognitivo-dei-figli-5000.html





Caratteristiche delle madri anaffettive 
e gli effetti devastanti per la crescita emotiva dei figli

Ana Maria Sepe 
Una madre dovrebbe essere come una trapunta: tenere i figli al caldo ma senza soffocarli.
E’ risaputo che i primi anni di vita sono fondamentali per un corretto sviluppo emotivo dei bambini e in questa fase più che mai i genitori devono saper trasmettere amore. Ma quando la mamma non è in grado di manifestare amore e tenerezza è facile che la crescita sia catalizzata da fattori di carenza emotiva con conseguenze serie sul piano interpersonale. 

Crescere con una madre anaffettiva significa crescere sentendosi abbandonato, incapace di riconoscersi come individuo e di essere accolto dagli altri manifestando il proprio diritto di esistere.

Le madri anaffettive sono persone incapaci di esprimere liberamente le proprie emozioni, soprattutto quando si tratta di manifestare amore. Questo dipende solitamente da un vissuto personale problematico che ha impedito alla donna di sviluppare un rapporto sano con le emozioni e con se stessa. Fondamentalmente la madre anaffettiva non ama abbastanza se stessa per poter trasmettere amore ai suoi figli.

A livello relazionale comunicativo sono madri che non sanno rimproverare, gratificare, sostenere, incoraggiare, proteggere, tranquillizzare, insegnare, ma, sanno solo squalificare, criticare, demotivare, scoraggiare, opprimere, intimidire, ricattare, imbrogliare…



Caratteristiche delle madri anaffettive.
Le madri anaffettive sono l’esatto opposto delle iperprotettive: se queste ultime riempiono di attenzioni eccessive i figli fino a soffocarli, leanafettive non riescono a manifestare affetto, risultando gelide e distaccate.

Hanno un rifiuto verso le manifestazioni d’affetto.
Un tipico segnale è l’incapacità di abbracciare, baciare, coccolare il bambino, che viene percepito come un ostacolo, un fastidio, qualcosa di irritante. Le motivazioni sono molteplici e le cause, generalmente, risiedono nel vissuto emotivo della donna, probabilmente a sua volta vittima di una madre anaffettiva.

Sono assenti.
Le madri anaffettive delegano tutto a figure sostitutive, non partecipano alla vita dei figli e non stanno mai con loro. Non conoscono i propri figli e scappano dall’incombenza di essere madre.

Sono abili manipolatrici.
Le madri anaffettive non sono in grado di leggere e comprendere i propri figlii. Si occupano prevalentemente di se stesse, e percepiscono la prole solo in funzione dei propri personali bisogni.  Pretendono che tutto sia perfetto nella loro vita, inclusi i loro figli. L’unico modo che hanno per assicurarsene è di controllare tutto in prima persona.


Sono abili ricattatrici.
Il ricatto morale nei confronti dei loro figli è il più vile dato che per loro natura indifeso, non possono rendersi conto di essere imbrigliati in questo tipo di dinamica. Si tratta di un vero e proprio “tradimento” della mamma che invece di proteggere il piccolo e prendersi cura di lui, ne abusa a livello psicologico. Comunque venga espresso il ricatto, il messaggio sottostante è chiaro: “se non farai quello che dico io, mi farai stare molto male”.

Per un bambino, per il quale il genitore è la persona più importante, il messaggio è devastante: genera paura, ansia, senso di colpa e lo spinge a muoversi in direzione opposta ai suoi profondi desideri. Conoscendo perfettamente i punti deboli del bambino, la madre anaffettiva fa leva sulla sua paura di perdere la relazione o di entrare in conflitto.

Sanno fare leva sui sensi di colpa.
In seguito, quando i figli saranno adulti, la madre anaffettiva ricorderà e rinfaccerà tutti i sacrifici fatti per loro e sottolinierà quanto loro debbano esserne debitori: si tratta del debito della vita che ha un valore enorme e, pertanto, non potrà “mai” essere colmato!
Col suo comportamento da vittima la madre anaffettiva comunica in modo inequivocabile che se il figlio non lo accontenterà, soffrirà e la colpa sarà solo sua. E gli indurrà il senso di colpa, facendolo sentire responsabile del suo malessere e persino della sua vecchiaia.

Fanno le vittime.
Le madri anaffettive hanno richieste martellanti che si risolvono in pianti, insistenze e voglia di commiserazione. La violenza di queste madri si manifesta nel sottoporre i propri figli a continui lamenti, invadono lo spazio dei figli pretendendo di essere comprese, protette e compatite. La madre anaffettiva chiede ai propri figli da bambini di non crearle problemi e da adulti di proteggerla e di aiutarla.

Sono gelose.
Mostrano gelosia nei confronti del figlio: magari perché ha successo con le persone, o magari ha un buon lavoro…

Inversione di ruolo.
Con una madre anaffettiva inevitabilmente, il piccolo (anche se bambino/a) cercherà con tutti i suoi mezzi di farsi carico della madre: diverrà il genitore di sua madre.

Cosa comporta crescere con una madre anaffettiva.
Chi è cresciuto con una mamma anaffettiva, in età adulta,  svilupperà poca autostima, disturbi da sindrome dell’abbandono, incapacità di manifestare le emozioni, disistima nei confronti dell’altro sesso. Certo, ogni individuo è a sé e le conseguenze variano a seconda del vissuto complessivo: difatti una madre anaffettiva nei primi mesi di vita potrebbe migliorarsi in un secondo tempo riducendo i rischi del figlio di sviluppare questi disturbi.

Cosa fare se hai avuto una mamma anaffettiva?
Non vi è colpa. Ognuno ha una storia personale, una vita. E’ certo che qualsiasi relazione può essere recuperata cominciando a comunicare “diversamente”….

Impara a prenderti cura di te stesso/a, a nutrirti di rapporti affettivi basati sul reciproco sostegno;
Dai spazio ai tuoi interessi, alle tue passioni, ai tuoi amori, fino a costruirti un’identità stabile e indipendente;
Non bloccare le tue emozioni ma lasciale scorrere ricercando il contatto con la natura e – perché no? – con gli animali, veri depositari dell’affetto illimitato e incondizionato verso i loro padroni;
Lasciati ispirare da modelli di riferimento materno alternativi (nonne, zie, tate) capaci di donare liberamente amore e riconoscimento;
Impara ad accettare i limiti di tua madre e non ostinarti a cercare di cambiarla;
Non cedere al risentimento e alla recriminazione. Saresti solo tu a soffrirne;
Non cedere neanche ai sensi di colpa. Ognuno è responsabile delle sue azioni e del suo livello di coscienza;
Circondati di persone gioiose e attive, capaci di apprezzarti e di valorizzarti.

http://psicoadvisor.com/madri-anaffettive-5001.html