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venerdì 29 gennaio 2016

Orologio. Narra Jules Verne che nella Ginevra del Medioevo, su di un’isola in mezzo al fiume Rodano, in una casa sospesa su palafitte, viveva mastro Zacharius, orologiaio. In ogni mirabile strumento costruito aveva messo parte della sua anima, regolandolo sulle pulsazioni del suo cuore. La vita stessa era per lui un meccanismo ingegnoso di cui diceva di aver scoperto il segreto: la misteriosa unione di anima e corpo non era che il sincrono oscillare di bilancieri. Avendo così assoggettato il tempo a leggi esatte, Zacharius si era convinto di esserne diventato signore e dunque di non dover morire. Ma gli orologi si guastano uno dopo l’altro, e un vecchietto malefico, incarnazione del Tempo, pone fine all’illusione d’immortalità dell’orologiaio.

Orologio
Mario Porro

Narra Jules Verne che nella Ginevra del Medioevo, su di un’isola in mezzo al fiume Rodano, in una casa sospesa su palafitte, viveva mastro Zacharius, orologiaio. In ogni mirabile strumento costruito aveva messo parte della sua anima, regolandolo sulle pulsazioni del suo cuore. La vita stessa era per lui un meccanismo ingegnoso di cui diceva di aver scoperto il segreto: la misteriosa unione di anima e corpo non era che il sincrono oscillare di bilancieri. Avendo così assoggettato il tempo a leggi esatte, Zacharius si era convinto di esserne diventato signore e dunque di non dover morire. Ma gli orologi si guastano uno dopo l’altro, e un vecchietto malefico, incarnazione del Tempo, pone fine all’illusione d’immortalità dell’orologiaio.
L’anno del racconto di Verne è il 1854. 

Da poco, Sadi Carnot aveva osservato che le trasformazioni in natura avvengono spontaneamente verso una direzione, quella del maggiore disordine, annuncio dell’entropia, termine che Rudolf Clausius introduce nel 1864. La seconda legge della termodinamica ricorda l’inevitabile degrado di ogni sistema chiuso, la freccia che indica la direzione verso cui il tempo, non più ciclico, procede; la nuova scienza delle macchine termiche segna il declino della scienza classica, quella di Galileo e di Newton, che aveva trovato il suo coronamento nella meccanica razionale ai primi dell’Ottocento. Del pensiero scientifico della modernità, l’orologio era stato l’oggetto metaforico privilegiato: l’universo intero è un orologio, ciclo sempre rinnovato sul modello delle traiettorie dei corpi celesti. Dal Seicento di Huygens, studioso dei bilancieri e delle isocronie, ai primi dell’Ottocento, l’orologio è l’analogon di ogni oggetto del mondo. Il nostro corpo come quello degli animali è una macchina, un automa, che funziona per trasmissione del moto, sostiene Cartesio; gli organi obbediscono ai meccanismi delle macchine semplici della statica, leve, pulegge, bilance e bilancieri. Il cuore è una pompa idraulica il cui tic tac segna l’alternarsi di sistole e diastole; e anche l’unione di anima e corpo non è che il battito simultaneo di due bilancieri. Il Dio di Newton è un orologiaio costretto ad intervenire ogni tanto per risistemare le imperfezioni della sua macchina, a differenza del Dio di Leibniz il cui mondo non richiede interventi, grazie all’armonia prestabilita: la Monade suprema ha posto fin da principio tutte le monadi in armonia fra loro e così il corpo e l’anima sono come due orologi che battono sempre lo stesso tempo.

In passato architetto, munito di compasso e squadra, prima ancora geometra (con i suoi fidati solidi platonici), con l’età moderna Dio aveva deciso di cambiare mestiere: eccolo orologiaio, senza comunque abbandonare le pratiche della misura e dell’ordine. Se l’orologio è per l’epoca classica l’oggetto-riferimento degli oggetti, ha scritto Michel Serres, lo è in quanto pienamente riducibile al dominante paradigma geometrico-meccanico: le qualità primarie sono figura e movimento, e il moto si riconduce all’equilibrio. Movimento senza vita, semplice traslazione in cui quel che si sposta rimane invariato, non subisce modifiche nel suo stato interno; la simmetria temporale, per cui procedere verso il futuro o il passato risulta equivalente, cancella la storia. Nell’universo di Laplace, compimento della meccanica classica, i moti dei corpi celesti sono ricondotti a un percorso invariante lungo segmenti temporali chiusi; i pianeti compiono rivoluzioni in senso astronomico, e il tempo ruota su se stesso. Ogni evento, anche la comparsa di una cometa, non è che periodico, mera ripetizione del passato; il mondo-orologio è un mondo stabile e chiuso, quasi a volerci rassicurare dell’eternità del sistema, pur nella caducità degli individui. Il gesto della scienza moderna, ricondurre i processi a elementi semplici e regolari, ripete lo sforzo del pensiero filosofico (e prima ancora sacerdotale), ritrovare nel mutamento un ordine immanente e invariante, un punto fisso a cui ancorare la diaspora delle cose e degli uomini (Norbert Elias). Dietro la variabilità imprevedibile del divenire occorre rintracciare quel che trascende il mutamento e ne rende ragione, l’ordine dell’immutabile e dell’atemporale. Al posto dell’eternità di Dio, la scienza moderna introduce le leggi di natura, dove il tempo resta parametro (e non operatore) invariante per la misurazione. Questa volontà di sapere non testimonia soltanto una crescita di razionalità e astrazione, risponde anche a motivazioni inconsce: la scoperta di un quid stabile dietro il fluire incessante degli eventi rassicura gli uomini di fronte alla paura della morte, fornisce un’ancora nel naufragare della caducità.

"...in ogni mirabile strumento da lui costruito ha messo parte della sua anima, lo ha regolato sulle pulsazioni del suo cuore..."

Il tempo della scienza moderna è il tempo reversibile, ripetizione dell’identico, in cui il futuro riproduce il passato; tempo di istanti e tempo di statica, dove il cambiamento è illusione, e la ciclicità è “immagine mobile dell’eternità”, a dire del Platone del Timeo. Questo è anche il tempo della punizione divina, insegna il mito greco: la condanna per chi ha sfidato gli dei è il costante ripetersi del Medesimo, il compiersi senza fine di uno stesso gesto. Sisifo riporta la sua pietra sulla cima della collina per vederla poi ricadere a valle; la pietra è un orologio, misura il tempo reversibile del supplizio, il tempo infernale dell’eterno ritorno. Le Danaidi riempiono d’acqua le loro anfore bucate sul fondo, sono quindi costrette senza sosta a replicare le loro fatiche. In entrambi i casi, il cammino è simmetrico (salita / discesa; riempimento / svuotamento), come quando si rovescia una clessidra. Questo ciclo non si compie sulla terra, ma agli Inferi; se Sisifo e le Danaidi abitassero la terra, se fossero mortali, il loro lavoro (nel senso della fisica, trasporto di un peso lungo un percorso in virtù di una forza) richiederebbe spreco di energia, l’equilibrio sarebbe rotto da uno scarto, la simmetria verrebbe infranta dall’usura e dall’invecchiamento.

Il tempo reversibile della stabilità del sistema planetario non è comunque estraneo alla nostra condizione terrena; è il tempo del nostro cuore, quando siamo in buona salute, è il tempo delle nostre pratiche, scandito dal calendario, dalla ritualità ripetitiva delle feste che infrangono le settimane dell’organizzazione del lavoro. “Dalla clausura del convento all’orario continuato della fabbrica, lo scoiattolo umano fa girare la sua gabbia credendo di galoppare, è la noria mossa dagli asini. Precipitandoci nella reversibilità, le nostre società di lavoro e di ripartizione delle ore e dei giorni tentano di rubarci la morte, di farci dimenticare o perdere i nostri tempi […]. Il fatto bruto della morte rompe il reversibile” (Michel Serres). Il contadino restava soggetto al tempo meteorologico, al ciclo delle stagioni, all’imprevedibilità delle intemperie e dei cataclismi naturali, e i soli mezzi per difendersene erano la preghiera e le pratiche superstiziose. Ma quando una rete commerciale si organizza, il mercante affida il buon andamento degli affari, ha spiegato Jacques Le Goff, alla giusta misura del tempo; poi verrà il tempo della Borsa, in cui minuti e secondi possono fare o disfare fortune. Il tempo nuovo degli orologi, misurabile e prevedibile, lascia alle fatiche dei campi il tempo perpetuamente imprevedibile delle meteore e insieme sostituisce il tempo dei chierici, ritmato dagli uffici religiosi, dalle campane che li annunciano, talora segnato da meridiane imprecise o da clessidre grossolane. Walter Benjamin ricorda che, ai tempi della Rivoluzione di luglio nel 1830, i rivoltosi di Parigi sparavano contro gli orologi delle torri, emblema odioso del ritmo scandito dal lavoro nelle fabbriche. Forse sognando un paradiso in cui il tempo non avesse padrone; ma l’unico luogo in cui gli orologi non potranno entrare sarà l’inferno del Lager.

Lungo i quadranti degli orologi scorre il tempo reversibile della meccanica classica, tempo spazializzato e quantificato, ridotto allo spostamento di lancette, traduzione e tradimento del tempo vissuto che si rende avvertibile alla nostra coscienza, diceva il Bergson del Saggio sui dati immediati della coscienza (1889). Il vero tempo è durata, fluire qualitativo e differenziato, dove il passato si conserva nel presente che resta, a sua volta, gravido dell’avvenire e lo annuncia. Tempo innovativo e irreversibile, tempo dell’evoluzione scandito da uno slancio vitale che fa apparire qualcosa di nuovo rispetto al passato e non si limita a riscriverlo. La scienza che oggi diremmo classica, newtoniana, conosce solo quel surrogato farsesco del tempo che il moto delle lancette può misurare e bloccare, serie di istanti tutti uguali, perle di una collana che si succedono identiche in modo uniforme. In essa, le leggi del moto, formulate nei termini della funzione di Hamilton, descrivono processi fisici che restano simmetrici in rapporto al tempo; di ogni fenomeno è legittimo pensare che possa avvenire anche a ritroso, in senso inverso, senza che si dia una “freccia del tempo”. È altrettanto concepibile, diceva Prigogine, che un miscuglio omogeneo diventi eterogeneo quanto il contrario, oppure che un fluido ad alta temperatura diventi freddo quanto che uno freddo diventi caldo. Per la fisica classica, non ci sarebbe differenza, per usare l’immagine di Bergson, tra lo sciogliersi delle zucchero nell’acqua e il separarsi dell’acqua zuccherata negli elementi che compongono il miscuglio.

La fisica classica non è in grado di spiegare l’organizzazione di un sistema, grazie all’attività coerente dei suoi componenti, e l’irreversibilità di alcune trasformazioni fisiche. Del resto, già il Kant della Critica del Giudizio (1790) aveva opposto all’orologio, dotato solo di forza motrice, l’albero che “si produce da sé” (oggi diremmo autopioetico), ipotiposi degli organismi viventi, che sono insieme causa ed effetto di se stessi. Non esiste un Newton del filo d’erba, diceva il filosofo di Könisberg. Né un Einstein per la durata, per il fluire della coscienza e dell’evoluzione vitale, avrebbe aggiunto l’Henri Bergson di Durata e simultaneità (1922). Il tempo-illusione della relatività s’iscrive ancora nell’orizzonte newtoniano dell’unico tempo “fittizio” dell’orologio, semplice successione di istanti, misurati dal moto delle lancette nello spazio. La realtà del tempo come flusso e transizione viene annullata dalla scienza in istantanee, istanti in cui il tempo è inaridito e solidificato; ma la molteplicità indivisibile del tempo vissuto non si può congelare in segmenti spaziali, come una passeggiata lungo le strade di Parigi non equivale alla serie di fotografie che ne serbano il ricordo.

"...ed il moto si riconduce all'equilibrio. Movimento senza vita, semplice traslazione in cui quel che si sposta rimane invariato..."

Nel De natura deorum, Cicerone osservava che “se ti capita di osservare un orologio a sole o una clessidra ad acqua comprendi subito che l’indicazione dell’ora è dovuta all’arte del costruttore e non al caso”. Il suo argomento per analogia puntava a riconoscere una ragione, una capacità inventiva alla natura e sarà poi ripreso da quanti affidano le meraviglie del nostro mondo all’opera del Creatore. I corpi sono macchine uscite dalle mani di Dio, scrive Cartesio, ben superiori alla tecnica di quegli artigiani che costruiscono orologi di mirabile precisione. La grande quantità di ossa, muscoli, nervi, arterie, vene e tutte le altre parti che sono nel corpo di ogni animale, è “come una macchina fatta dalle mani di Dio e quindi ordinata incomparabilmente meglio e capace di movimenti più meravigliosi di qualunque altra gli uomini possano inventare” (Discorso sul metodo). Quando vedo un orologio, scriveva Voltaire, sono indotto a pensare che un essere intelligente ne ha progettato il meccanismo; ed in modo analogo, l’osservazione del funzionamento del corpo umano mi porta a concludere che “un essere intelligente ha progettato questi organi per essere nutriti all'interno del ventre materno per nove mesi; gli occhi per vedere, le mani per afferrare e così via” (Trattato di metafisica,1736).L’argomento del “disegno intelligente”, trattato con cautela da Voltaire, troverà la sua formulazione più nota nelle pagine della Teologia naturale (1802) del reverendo William Paley. Quando, nell’attraversare una brughiera, trovo per terra un orologio, dovrei necessariamente concluderne che deve essere esistito un artefice in grado di progettarlo e fabbricarlo: “Ogni indicazione di ingegnosità, ogni manifestazione di design che esistessero nell’orologio, esistono nelle opere della natura; con la differenza, da parte della natura, di essere più grandi e migliori ancora, e in numero incalcolabile».

Ma la metà dell’Ottocento vede la morte sia dell’orologio che dell’orologiaio. Non c’è infatti bisogno, argomentò Darwin, di far ricorso all’ipotesi di un agente sovrannaturale per le opere della natura, visto che la selezione naturale offre un’alternativa plausibile al “disegno intelligente” come spiegazione della complessità biologica. O forse, la professione di orologiaio, che lo costringeva ad affaticare gli occhi, aveva reso Dio cieco, ha suggerito Richard Dawkins. L’affascinante e variegata complessità degli organismi è l’esito non casuale di processi di selezione naturale che rendono superflua l’idea dell’operare di un’entità sovrannaturale. Un sistema di selezione cumulativa, in cui ad ogni passo i miglioramenti vengono messi alla prova, scartando le soluzioni meno efficienti, è la soluzione che la natura ha messo in atto per produrre ordine dal caos, ottenendo risultati strabilianti, in grado di sfidare le leggi di probabilità. “L’unico orologiaio in natura sono le forze cieche della fisica”; un orologiaio progetta e prevede in vista di un fine, la selezione invece è un processo cieco, automatico, senza anticipazione cosciente. La selezione naturale è l’orologiaio cieco, non vede innanzi a sé, non pianifica le conseguenze, non ha in vista dei fini, eppure è in grado di produrre la perfezione dell’occhio o il meccanismo della ecolocazione del pipistrello.

Il migliore modello del cosmo-orologio dell’età moderna è stato fornito dall’astronomia, dal regolare e sicuro procedere delle traiettorie dei corpi del cielo. Il caosmo dell’età contemporanea, successivo all’avvento della termodinamica, trova la sua espressione esemplare nel campo dei fenomeni meteorologici: sistemi fluidi dove miriadi di particelle mescolano ordine e disordine, fino a produrre l’incerto e imprevedibile andamento delle nuvole. Ce lo ha ricordato Karl R. Popper: “Con le nuvole intendo rappresentare sistemi fisici che, al pari dei gas, sono altamente irregolari, disordinati e più o meno imprevedibili […]. All’altro estremo possiamo porre un pendolo molto esatto, un orologio di precisione, col quale intendiamo rappresentare sistemi fisici regolari, ordinati e altamente prevedibili nel loro comportamento” (Conoscenza oggettiva). L’atteggiamento della tradizione filosofica e scientifica non è stato molto diverso da quello di Franz, un bambino autistico, personaggio del romanzo Le Meteore di Michel Tournier. Franz possiede la capacità di stabilire in pochi secondi quale giorno della settimana fosse in una data qualsiasi degli ultimi secoli. La certezza che il 12 febbraio del 412 fosse un giovedì lo rassicura nei confronti dell’instabile successione degli eventi atmosferici; il tempo (time) astronomico, su cui si modella la regolare successione del calendario, rassicura e consola nei confronti del tempo meteorologico (weather). Ma la saggezza popolare dei proverbi, indizi che prefigurano l’andamento delle giornate, non basta a colmare il divario fra cronologia e meteorologia; le intemperie rendono impuro l’ordine del calendario, un temporale imprevisto condurrà Franz alla morte. Prevediamo il momento esatto di un’eclissi, ma non siamo sicuri di poterla osservare, qualche nuvola potrebbe ostacolarci la vista.


Bibliografia
Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia (1940), in Angelus novus, Einaudi, 1962
Henri Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza, Cortina, 2002
Henri Bergson, Durata e simultaneità, Cortina, 2004
Richard Dawkins, L’orologiaio cieco, 1986, Rizzoli.
Jacques Le Goff, Tempo della Chiesa e tempo del mercante, Einaudi, 1977
Michel Serres, Hermès IV. La distribution, Editions de Minuit, 1977
Michel Serres, Jules Verne, Sellerio, 1979
Michel Serres, Passaggio a Nord-Ovest, Pratiche, 1984
Norbert Elias, Saggio sul Tempo, Il Mulino, 1986
Karl R. Popper, Conoscenza oggettiva, Armando, 1975
Ilya Prigogine, Isabelle Stengers, La Nuova Alleanza, Einaudi, 1981
Ilya Prigogine, La nascita del tempo, Theoria, 1988
Michel Tournier, Le Meteore, Mondadori, 1979
Jules Verne, Mastro Zacharius, Passigli, 2005

Disegni di Anna Enrica Passoni.




  • "...precipitandoci nella reversibilità, le nostre società di lavoro e di ripartizione delle ore e dei giorni tentano di rubarci la morte..."
    "...precipitandoci nella reversibilità, le nostre società di lavoro e di ripartizione delle ore e dei giorni tentano di rubarci la morte..."

  • http://www.doppiozero.com/rubriche/1276/201601/orologio

giovedì 28 gennaio 2016

Viktor Frankl. Uno psicologo nei lager. "Tutti gli sforzi psicoterapeutici e d’igiene mentale, rivolti ai detenuti, dovrebbero obbedire a un motto, espresso con grande chiarezza nelle parole di Nietzsche: «Chi ha un perché per vivere, sopporta quasi ogni come ».



Viktor Frankl, Uno psicologo nei lager.

Chi ha un perché per vivere, sopporta quasi ogni come. 
Il miglior libro che io abbia mai letto sul tema di cui oggi si fa memoria, scritto da un uomo sopravvissuto ai campi di concentramento, capace di trasformare un'esperienza di morte in sguardo creativo sulla vita:
"Tutti gli sforzi psicoterapeutici e d’igiene mentale, rivolti ai detenuti, dovrebbero obbedire a un motto, espresso con grande chiarezza nelle parole di Nietzsche: 
«Chi ha un perché per vivere, sopporta quasi ogni come ».
Si doveva dunque, quando si presentava una buona occasione, qualche volta, qua e là, chiarire agli internati il «perché» della loro vita, per far sì che fossero interiormente all’altezza del terribile «come» del loro presente, degli spaventi di una vita nel Lager, affinché potessero affrontare tutto con coraggio. E viceversa: guai a chi non trovava più uno scopo di vita, non aveva un contenuto di vita, non scorgeva nessuno scopo nella sua esistenza; svaniva il significato del suo essere, perdeva ogni senso anche la resistenza. Questa gente, privata di ogni possibile sostegno, si lasciò presto cadere. Di conseguenza, la frase con la quale demolivano tutti gli argomenti che avrebbero potuto infondere coraggio ricusando qualsiasi conforto, era sempre: «Ormai non posso sperare più nulla dalla vita». Che cosa possiamo rispondere?
...
Ricordo due «casi» che non solamente illustrano come fosse possibile applicare nella prassi le teorie già ricordate, ma mostrano anche un notevole parallelismo. Due compagni rivelarono nel modo tipico, più sopra descritto, «di non sperare più nulla dalla vita». Ad entrambi si poteva chiarire ancora che la vita attendeva qualcosa da loro, che qualcosa li aspettava nella vita, nel futuro. In effetti risultò proprio che una persona attendeva uno dei due: il figlio adorato «attendeva» all’estero il padre. L’altro, invece, non aveva nessuno, ma l’”attendeva” una cosa: la sua opera! Infatti quest’uomo, uno studioso, aveva pubblicato su un certo tema una collana di testi, non ancora completa, che attendeva il suo compimento. Quest’uomo era indispensabile per quest’opera; nessuno avrebbe potuto sostituirlo, proprio come l’altro era indispensabile e insostituibile nell’amore del figlio: quell’unicità e originalità che distinguono ogni singolo individuo e che conferiscono — esse sole — alla vita il suo significato, si fanno dunque valere nei confronti d’una opera o di un lavoro creativo, proprio come nel rapporto con un altro uomo e il suo amore. L’essere indispensabile e insostituibile, tipici d’ogni individuo, fanno apparire nella giusta misura, non appena affiorano nella coscienza, la responsabilità che un uomo ha della sua vita, lo incitano a continuare a vivere. Un uomo pienamente consapevole di questa responsabilità nei confronti dell’opera che l’attende o della persona che lo ama e che l’aspetta, non potrà mai gettar via la sua esistenza. Egli sa bene il «perché» della sua vita — e quindi saprà sopportare quasi tutti i «come»."
Viktor Frankl, Uno psicologo nei lager





L’essere indispensabile e insostituibile, tipici d’ogni individuo, fanno apparire nella giusta misura, non appena affiorano nella coscienza, la responsabilità che un uomo ha della sua vita, lo incitano a continuare a vivere. Un uomo pienamente consapevole di questa responsabilità nei confronti dell’opera che l’attende o della persona che lo ama e che l’aspetta, non potrà mai gettar via la sua esistenza. Egli sa bene il «perché» della sua vita — e quindi saprà sopportare quasi tutti i «come»." - Che stupenda analisi.

Jung. Teoria dei Complessi. Dobbiamo ai lavori della psicopatologia francese, e specialmente ai meriti di Pierre Janet, la nostra attuale conoscenza della vasta possibilità di frammentazione della coscienza. Sia Janet che Morton Prince sono riusciti a provocare quadruple e perfino quintuple scissioni della personalità, e da questi esperimenti è risultato che ogni parte della personalità ha un tratto di carattere che le è peculiare e una sua memoria particolare. Queste parti esistono in maniera relativamente indipendente l’una accanto all’altra e possono sempre svincolarsi l’una dall’altra, il che significa che ogni parte possiede un alto grado di autonomia. Le mie costatazioni relative ai complessi completano quest’immagine un po’ inquietante delle possibilità di disintegrazione psichica, perché in fondo non esiste nessuna differenza di principio tra una personalità parziale e un complesso. Entrambe hanno in comune tutti i caratteri essenziali, compreso il delicato problema della coscienza parziale. Le personalità parziali hanno indubbiamente una propria coscienza; ma se frammenti psichici piccoli come i complessi siano anche capaci di una propria coscienza, è un problema ancora insoluto. Devo confessare che questo problema mi ha occupato più volte. I complessi si comportano come diavoletti di Cartesio e sembrano dilettarsi di giocare tiri da folletto. Essi pongono sulla lingua proprio la parola sbagliata, sottraggono proprio il nome della persona che si dovrebbe presentare a qualcuno, provocano l’accesso di tosse proprio nel mezzo del più bel “piano” del concerto, fanno inciampare con fracasso in una sedia il ritardatario che cercava di passare inosservato. Essi raccomandano, in occasione di un funerale, di porgere le congratulazioni anziché le condoglianze, sono i responsabili di quelle malizie che Friedrich Theodor Vischer voleva debitare agli innocenti ‘oggetti’, sono le persone che agiscono nei nostri sogni, e di fronte alle quali siamo così privi di potere; sono le creature elfiche che il folclore danese caratterizza in modo così calzante attraverso la storia del pastore che voleva insegnare il Padrenostro a due elfi. Questi non risparmiavano sforzi per ripetere esattamente le parole, ma già alla prima frase non potevano fare a meno di dire: “Padre nostro che NON sei nei cieli.”

COSA SONO I COMPLESSI?


«[...] La parola “complesso” intesa in senso psicologico è entrata nell’uso quotidiano sia in lingua inglese che in lingua tedesca. Oggi sappiamo tutti che “abbiamo dei complessi”. Che invece i complessi ‘abbiano noi’ è cosa meno nota, ma dal punto di vista teorico ancora più importante. L’ingenua premessa dell’unità della coscienza, la quale viene identificata con la “psiche”, e della supremazia della volontà, è infatti posta seriamente in dubbio dall’esistenza del complesso.»
Carl Gustav Jung. Considerazioni sulla Teoria dei Complessi, Opere Vol.8, p.112



Un complesso stellare di sentimenti ed emozioni. Guardiamo un cielo stellato. — dice Jung — Alcune stelle si raggruppano le une vicino alle altre: esse FORMANO DELLE IMMAGINI CHE RICORDANO UNA FIGURA UMANA O UN ANIMALE. A questi gruppi di stelle diamo il nome di COSTELLAZIONE. Pensiamo ora alla nostra vita: vi sono delle persone che occupano un posto di primo piano. Da una parte sentimenti di affetto e gratitudine saranno riservati alla famiglia; l'amore per il partner occuperà a sua volta uno spazio importante e anche per gli amici avremo sentimenti di stima e tenerezza. I nostri sentimenti sembrano dividersi in molte costellazioni. CHE COSA ACCADE, TUTTAVIA, SE UN GRUPPO TROPPO GRANDE DI EMOZIONI SI CONCENTRA INTORNO A UN'UNICA PERSONA? ECCO IL SORGERE DI UN COMPLESSO, quello DELLA MADRE, il COMPLESSO DI CAINO, il COMPLESSO DI EVA, il COMPLESSO DI EDIPO, il COMPLESSO D'INFERIORITÀ... ecc... NON SEMPRE È UNA PERSONA A DOMINARE L'ESISTENZA DI UN COMPLESSATO. MOLTO PIÙ SPESSO SI TRATTA DI UN'IDEA, DI UNA CONVINZIONE O DI UNA PAURA. ALCUNI SOGGETTI SONO PERSUASI DI ESSERE IN UNA CONDIZIONE DI INFERIORITÀ RISPETTO AI PROPRI SIMILI. ALTRI SONO DIVORATI DALLA BRAMA DI POTERE. ALTRI ANCORA, PER PAURA DI CRESCERE, RIMANGONO PER SEMPRE, DAL PUNTO DI VISTA PSICOLOGICO, BAMBINI.


COMPLESSO MATERNO
Ognuno di noi da bambino nutre un affetto amoroso per la madre, ovviamente il bambino inizialmente non sa che questo affetto possa essere anche sessuale (sulla normalità dell'istinto incestuoso ne ho parlato altrove: Urano si unisce alla sua madre Gaia). Quando lo sa viene rimosso, ma resta comunque il fatto che l'attrazione affettiva prevale e resta per sempre. Se la madre è insoddisfatta (tipo abbandonata dal marito, tipo una madre bambina che vuole sempre intrappolare affettivamente gli altri con richieste irraggiungibili, una donna iper protettiva che vuole controllare tutto e tutti perchè insicura) allora il bambino che è in noi, si sentirà sempre dipendente dalla madre, schiavo delle sue pretese o dolori e in funzione di lei, alcuni persino si sentono in colpa di quella tristezza della madre e si prenderanno la responsabilità di quel dolore materno. In noi allora l'aspetto psichico femminile verrà rinchiuso come le principesse nella torre della rigidità, e finchè non la liberiamo, uccidendo il drago che la protegge (cordone ombelicale psichico), non saremo in grado di tingere alla consapevole interiore e neppure renderci indipendenti da questa madre ragno, strega, drago, che ci imprigiona psichicamente. Il nostro femmineo psicologico (capacità intuitiva che coglie il trascendere nella materia) si identifica sempre inizialmente con la madre, per cui è necessario che questa identificazione o dipendenza affettiva si infranga per poter crescere interiormente in maniera libera e sana.

LE 3 CORDE CHE INTRECCIANO UN COMPLESSO
Il complesso psicologico è come un giallo, ci sono tre personaggio che si intrecciano, spesso si confondono e persino si identificano talvolta: La Vittima, i complici e il colpevole.
- LA VITTIMA: Molti complessi devono infatti il loro nome a personaggi delle fiabe o della mitologia: tra questi non mancano Peter Pan, Cenerentola, Narciso, Edipo, Don Giovanni e Biancaneve. Sono personaggi simile a noi con dei problemi: Vi è il buono o il cattivo, il brutto o il bello, il pigro o il laborioso, il generoso o l'avaro: non vi è la complessità che conosciamo nella vita reale, ma si passa da un estremo all'altro senza vie di mezzo.
COMPLICI: sono tanti e diversi, da un difetto fisico non capito nè accettato ai compagni che ti prendono in giro, oppure una situazione familiare difficile che rende i bambini timidi o aggressivi o trascurati o viziati, quindi anche i genitori spesso sono i più grandi complici di questi complessi.
IL COLPEVOLE: è nessuno, è il non saper comprendere e capire le dinamiche che ci rendono prigionieri, il colpevole è un fantasma spesso insignificante a cui diamo potere di dominarci e rovinarci la vita. Per questa ragione la fiaba insegna tanto ad affrontare il buio, i mostri , i nemici.




«Lo studio di Jung delle idee fisse di Janet lo portò alla scoperta dei complessi. Jung li immaginava come personalità frammentarie o frammenti di psiche, all’interno dei quali vi sono percezione, sentimento, volontà e intenzione, quando era presente un soggetto che pensa ed è orientato all’obiettivo. L’ego (Io) è solo un complesso tra molti e la coscienza è una conseguenza della capacità del’ego di appropriarsi di se stessi e di usare efficacemente e liberamente i complessi che già strutturano la propria esistenza.

Senza l’auto-riflessione dell’ego, i complessi funzionano in maniera automatica e hanno una qualità compulsiva (Brooke, 1991).
L’emozione e la motivazione sono incluse nel funzionamento dei complessi che operano come parti dissociate della mente.
Jung era certo che la “tonalità affettiva”, o emozione, tenesse assieme gruppi di memorie in un raggruppamento inconscio che è dissociato dal resto del funzionamento mentale; questi gruppi di rappresentazioni basate sull’emozione esistono come fenomeno normale, ma contribuiscono  anche alla psicopatologia, come spiegano Sandner e Beebe:

“Jung riteneva che, qualunque fossero le sue radici nell’esperienza passata, la nevrosi consiste nel rifiuto – o nell’incapacità – di sopportare, “qui e ora” una sofferenza legittima. Invece questo sentimento doloroso  o la sua rappresentazione sono scissi dalla consapevolezza e l’iniziale totalità – l’Io primordiale – è rotta.
Una tale scissione “deriva in definitiva da un’apparente impossibilità di affermare l’interezza della natura dell’individuo” (Jung, 1934) e determina un’ampia gamma di dissociazioni e conflitti caratteristici dei complessi a tonalità affettiva. Questa scissione è parte normale della vita. La totalità iniziale è fatta per scindersi e ciò diventa patologico o diagnosticabile come malattia solo quando la scissione dei complessi diviene troppo ampia e profonda e il conflitto troppo intenso. Allora i sintomi dolorosi possono portare ai conflitti delle nevrosi o all’ego frantumato della psicosi.” (Sandner and Beebe, 1982)»

(Tratto da Psicologia Analitica, prospettive contemporanee di analisi junghiana – a cura di Joseph Cambray e Linda Carter. Estratto dal capitolo “Aspetti evolutivi della psicologia analitica” di Jean Knox – 2010)
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«I primi scritti di Jung sul “test di associazione di parole” furono pubblicati nel 1905, circa cento anni fa. Da questi primi esperimenti basati su risposte a tempo a liste di parole, nacque la scoperta junghiana dei complessi. (…)
Un complesso è un gruppo di idee e immagini, emotivamente carico, intorno a un nucleo archetipico. Jung scriveva:

“Il complesso ha una sorta di corpo, una certa quantità di fisiologia propria. Questo può disturbare lo stomaco. Disturba il respiro, disturba il cuore – in breve, si comporta come una personalità parziale. Per esempio, quando volete dire o fare qualcosa e, sfortunatamente, un complesso interferisce con questa intenzione, allora fate o dite qualcosa di diverso dalle vostre intenzioni, allora fate o dite qualcosa di diverso dalle vostre intenzioni. Voi siete semplicemente interrotti, e la vostra migliore intenzione viene turbata dal complesso, esattamente come se foste stati interferiti da un essere umano o da circostanze esterne.”

I complessi si esprimono in umori dominanti e comportamenti ripetitivi. Essi resistono ai nostri tentativi più eroici di coscienza, e tendono a raccogliere esperienza a conferma di una loro preesistente idea del mondo. Un complesso attivato può avere il suo linguaggio corporeo e tono di voce. Esso opera al di sotto del livello di coscienza, quasi come l’analogo psicologico dei sistemi vegetativi automatici che controllano la pressione sanguigna e la digestione. (…)

Altra caratteristica dei complessi, accuratamente approfondita da John Perry nel suo scritto “Emozioni e relazioni oggettuali”
(Perry 1970) è che questi tendono a essere bipolari o a consistere di due parti.
Più spesso, quando un complesso è attivato, una parte del complesso bipolare si fissa all’Io e l’altra parte è proiettata su un altro idoneo. Per esempio, in un tipico complesso paterno negativo il ribelle arrabbiato e spavaldo si proietta sull’Io del giovane uomo e, inevitabilmente, l’altra metà del complesso inconscio individua il padre autoritario in ogni insegnante, allenatore o capo che offra un amo a cui abboccare. Questa bipolarità del complesso porta a un circolo infinito di schermaglie ripetitive con l’altro illusorio – che può o meno essere perfettamente idoneo.

I complessi possono essere riconosciuti attraverso la certezza semplicistica di una visione del mondo e il posto che offrono in esso, di fronte a opposti contraddittori e non facilmente riconciliabili. (…) E’ molto più semplice  accontentarsi della certezza di un complesso che lottare contro l’ambiguità emozionale della realtà interna ed esterna che sfida costantemente l’Io.
Infine, è importante ricordare che anche se possono presentare problemi per se stessi e per coloro con cui si vive, i complessi sono in realtà psicologiche naturali e chiunque li possiede. Jung suggerì che i nostri complessi – anche se riconosciuti o superati – determinano il corso della vita:
“Gli archetipi sono complessi di esperienza che arrivano come il destino, e i loro effetti si sentono nella nostra vita personale. L’anima non ci attraversa più la strada come una dea ma lo potrebbe sotto forma di una disavventura intimamente personale o, forse, di una nostra migliore impresa. Quando, per esempio, uno stimato professore, intorno ai settanta anni, abbandona la famiglia e scappa con una giovane attrice dai capelli rossi, noi sappiamo che gli dei hanno reclamato un’altra vittima.” (Jung)»

(Tratto da Psicologia Analitica, prospettive contemporanee di analisi junghiana – a cura di Joseph Cambray e Linda Carter.
Estratto dal capitolo “La teoria emergente dei complessi culturali” di Thomas Singer e Samuel L.Kimbles, p.190, (2010))
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«Che cos’è allora, in termini scientifici, un “complesso a tonalità affettiva”?
E’ l’immagine d’una determinata situazione psichica caratterizzata in senso vivacemente emotivo che si dimostra inoltre incompatibile con l’abituale condizione o atteggiamento della coscienza. Questa immagine possiede una forte compattezza interna, ha una sua propria completezza e dispone inoltre di un grado relativamente alto di autonomia, il che significa che è sottoposta soltanto in misura limitata alle disposizioni della coscienza e si comporta perciò, nell’ambito della coscienza, come un ‘corpus alienum’ animato. Il complesso può di solito essere represso con uno sforzo di volontà, ma non eliminato, e quando si presenta l’occasione opportuna riemerge con tutta la sua forza originaria. Alcune ricerche sperimentali sembrano indicare che la sua curva d’intensità o di attività ha un carattere ondulatorio, con una lunghezza d’onda misurabile in ore, giorni o settimane. Questo problema estremamente complesso non è stato tuttavia ancora minimamente chiarito.

Dobbiamo ai lavori della psicopatologia francese, e specialmente ai meriti di Pierre Janet, la nostra attuale conoscenza della vasta possibilità di frammentazione della coscienza. Sia Janet che Morton Prince sono riusciti a provocare quadruple e perfino quintuple scissioni della personalità, e da questi esperimenti è risultato che ogni parte della personalità ha un tratto di carattere che le è peculiare e una sua memoria particolare. Queste parti esistono in maniera relativamente indipendente l’una accanto all’altra e possono sempre svincolarsi l’una dall’altra, il che significa che ogni parte possiede un alto grado di autonomia. Le mie costatazioni relative ai complessi completano quest’immagine un po’ inquietante delle possibilità di disintegrazione psichica, perché in fondo non esiste nessuna differenza di principio tra una personalità parziale e un complesso. Entrambe hanno in comune tutti i caratteri essenziali, compreso il delicato problema della coscienza parziale. Le personalità parziali hanno indubbiamente una propria coscienza; ma se frammenti psichici piccoli come i complessi siano anche capaci di una propria coscienza, è un problema ancora insoluto. Devo confessare che questo problema mi ha occupato più volte. I complessi si comportano come diavoletti di Cartesio e sembrano dilettarsi di giocare tiri da folletto. Essi pongono sulla lingua proprio la parola sbagliata, sottraggono proprio il nome della persona che si dovrebbe presentare a qualcuno, provocano l’accesso di tosse proprio nel mezzo del più bel “piano” del concerto, fanno inciampare con fracasso in una sedia il ritardatario che cercava di passare inosservato. Essi raccomandano, in occasione di un funerale, di porgere le congratulazioni anziché le condoglianze, sono i responsabili di quelle malizie che Friedrich Theodor Vischer voleva debitare agli innocenti ‘oggetti’, sono le persone che agiscono nei nostri sogni, e di fronte alle quali siamo così privi di potere; sono le creature elfiche che il folclore danese caratterizza in modo così calzante attraverso la storia del pastore che voleva insegnare il Padrenostro a due elfi. Questi non risparmiavano sforzi per ripetere esattamente le parole, ma già alla prima frase non potevano fare a meno di dire: “Padre nostro che NON sei nei cieli.”
Conformemente all’aspettativa teorica, essi si dimostrano non ammaestrabili. […] La psicologia del sogno mostra con tutta la chiarezza desiderabile che i complessi affiorano ‘personificati’, se nessuna coscienza inibitrice li reprime, proprio come il folclore descrive gli gnomi che di notte mettono a soqquadro la casa. Lo stesso fenomeno l’osserviamo in certe psicosi nelle quali i complessi diventano “sonori” e compaiono come “voci” che hanno un carattere assolutamente personale.
Oggi possiamo considerare come certa l’ipotesi che i complessi sono parti autonome della psiche. L’etiologia della loro origine è sovente un cosiddetto ‘trauma’, uno shock emotivo e simili, a causa del quale una parte della psiche si è distaccata. Una delle cause più frequenti tutta via è il ‘conflitto morale’, che ha la sua radice più remota nell’apparente impossibilità di assentire alla totalità della natura umana. Questa impossibilità presuppone un’immediata scissione, indipendentemente dal fatto che la coscienza dell’Io se ne renda conto o no. Di regola esiste addirittura un’esplicita incoscienza a proposito dei complessi, il che naturalmente concede loro una libertà d’azione tanto maggiore. In casi del genere la loro forza di assimilazione si rivela in misura particolarissima, perché l’incoscienza relativa al complesso aiuta quest’ultimo ad assimilare addirittura l’Io, il che provoca una momentanea e inconscia ‘modificazione’ della personalità che viene definita col nome di ‘identificazione con il complesso. Questo concetto modernissimo aveva nel Medioevo un altro nome: allora si chiamava ‘possessione’.»
(C.G.Jung – Considerazioni sulla Teoria dei Complessi, Opere Vol.8, p.113)

«[…] La parola “complesso” intesa in senso psicologico è entrata nell’uso quotidiano sia in lingua inglese che in lingua tedesca. Oggi sappiamo tutti che “abbiamo dei complessi”. Che invece i complessi ‘abbiano noi’ è cosa meno nota, ma dal punto di vista teorico ancora più importante. L’ingenua premessa dell’unità della coscienza, la quale viene identificata con la “psiche”, e della supremazia della volontà, è infatti posta seriamente in dubbio dall’esistenza del complesso.»
(C.G.Jung – Considerazioni sulla Teoria dei Complessi, Opere Vol.8, p.112)

«[…] Esiste una situazione sperimentale che in certi casi costella complessi i quali assimilano l’oggetto del colloquio o la situazione in generale, compresi i due partner del colloquio. Di conseguenza il colloquio perde il suo carattere oggettivo e il suo scopo peculiare, poiché l’intenzione di colui che risponde è contrastata dalla costellazione di complessi e, in certe circostanze, gli vengono addirittura poste in bocca altre risposte delle quali in seguito egli non è più in grado di ricordarsi.

Un impiego pratico di questa circostanza si trova nell’interrogatorio in contraddittorio dei criminologi. In psicologia è il cosiddetto ‘esperimento di ripetizione’, che scopre e localizza le lacune mnemoniche. Esso consiste in ciò: dopo che si sono verificate per esempio cento reazioni, si domanda alla persona che è oggetto dell’esperimento che cosa ha risposto alle singole parole stimolo. Le lacune o le falsificazioni mnemoniche si trovano con regolarità media sempre nelle sfere di associazione disturbate dai complessi.»
(C.G.Jung – Considerazioni sulla Teoria dei Complessi, Opere Vol.8, p.112)

«Là dove comincia la sfera dei complessi cessa la libertà dell’Io, perché i complessi sono forze psichiche la cui natura più profonda non è ancora stata messa in luce»
(C.G.Jung – Considerazioni sulla Teoria dei Complessi, Opere Vol.8, p.120)

«I complessi sono infatti, per esprimerci propriamente, le unità viventi della psiche inconscia, di cui possiamo conoscere esistenza e natura soltanto loro tramite. Se non ci fossero complessi, l’inconscio sarebbe infatti, come accade nella psicologia di Wundt, nient’altro che un residuo di rappresentazione flebili, “oscure” come si dice, o “a fringe of consciousness”, come lo definisce William James. Per questo Freud è stato il vero scopritore dell’inconscio psicologico; perché indagò quei luoghi oscuri e non si limitò semplicemente a respingerli in un canto come abnormità, incidenti destituiti di valore mediante un eufemismo. La via regia per l’inconscio non sono però i sogni, com’egli crede, bensì i complessi, che sono la causa dei sogni e dei sintomi. Inoltre la via è di natura tanto meno regia in quanto il cammino indicato dal complesso è piuttosto simile a un sentiero scabroso e assai accidentato che si perde spesso tra gli sterpi, e perlopiù non guida nel cuore dell’inconscio, ma passa oltre.»
(C.G.Jung – Considerazioni sulla Teoria dei Complessi, Opere Vol.8, p.118)

«[…] bisogna essere medici per sapere che crudeli persecutori possono essere i complessi! Bisogna aver visto come intere famiglie ne sono state distrutte moralmente e fisicamente nel corso di decenni, e quali tragedie senza esempi e miserie senza speranza ne seguono, per avere un’impressione esauriente della realtà d’un complesso. Allora si capisce quanto sia ozioso e ascientifico il pensiero che sia possibile “immaginarsi” un complesso. Se vogliamo un paragone medico per i complessi, il più calzante sono forse le infezioni o i tumori maligni, che sorgono entrambi senza la minima intromissione della coscienza. Questo paragone non è però interamente soddisfacente perché i complessi non sono assolutamente di natura morbosa, bensì caratteristici ‘fenomeni vitali della psiche’, sia primitiva che differenziata. Per questo ne ritroviamo le tracce inconfondibili presso tutti i popoli e in tutti i tempi.»
(C.G.Jung – Considerazioni sulla Teoria dei Complessi, Opere Vol.8, p.117)

«I complessi sembrano tali inezie, anzi nullità talmente ridicole, che se ne prova quasi vergogna e si fa di tutto per nasconderli. Ma se fossero effettivamente così trascurabili non potrebbero neppure essere tanto penosi. Penoso è ciò che causa pena, quindi qualcosa di apertamente sgradevole che perciò è ‘eo ipso’ importante, e andrebbe quindi considerato una cosa importante. Ma ciò che è scomodo lo si rende irreale fin troppo volentieri, finchè è possibile.
L’esplosione della nevrosi indica quindi il momento in cui i mezzi magici primitivi rappresentati dai gesti apotropaici e dall’eufemismo non servono più. A partire da questo momento il complesso si è stabilito sulla superficie cosciente; non può più essere aggirato e ora assimila a passo a passo la coscienza dell’Io, come questa ha cercato di fare prima col complesso. Di qui nasce alla fine la dissociazione nevrotica della personalità
(C.G.Jung – Considerazioni sulla Teoria dei Complessi, Opere Vol.8, p.116)



«La pretesa unità della coscienza appare, alla luce proiettata dalla teoria dei complessi, come un’illusione. Essa è l’espressione di un violento desiderio umano che, di fatto, non è realizzato. Non siamo mai veramente gli unici padroni a casa nostra. Amiamo credere nella nostra volontà, nella sovranità delle nostre decisioni e delle nostre azioni. In pratica, tuttavia, questa è ostacolata da questi piccoli demoni dei complessi che hanno tendenza a vivere di vita propria, e in margine alle nostre intenzioni. Il nostro inconscio personale, come il nostro inconscio collettivo, consistono in un numero indefinito di complessi o di personalità frammentarie. Questa idea spiega molte cose, per esempio il fatto che un poeta abbia la facoltà di drammatizzare e di personificare i propri contenuti mentali. Egli pensa che i personaggi che crea per la scena o in un romanzo non siano  che un prodotto della sua immaginazione, mentre questi caratteri si sono costruiti autonomamente in lui in un modo misterioso. Alcuni scrittori negano il senso psicologico dei loro personaggi. Di fatto, sapete bene quanto me che ne hanno uno. E’ per questo che si può decifrare lo spirito di uno scrittore studiandone le creazioni.»
(Jung. Passo tratto dalle conferenze tenuta da Jung a Londra.)

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«Tutti gli elementi psicologici che hanno una tensione elevata sono difficili da trattare. 
Se uno scopo, ad esempio, è molto importante per me, nel momento di perseguirlo inizio a esitare; probabilmente voi avete osservato che quando mi ponete delle domande delicate, non posso rispondervi immediatamente, perchè, essendo il tema importante, “ho un tempo di reazione lungo”; la mia memoria non mi fornisce nell’immediato i materiali necessari. Ci troviamo di fronte a delle perturbazioni provocate da complessi, non necessariamente personali, poichè la domanda posta costituisce un problema importante in sè. Ora, tutto ciò che ha una tonalità di sentimento accentuata è difficile da trattare, poichè è in relazione con delle reazioni fisiologiche, con i battiti del cuore, il tono dei vasi sanguigni, lo stato intestinale, la respirazione, l’innervazione della pelle ecc. Ogni elemento che ha una tensione elevata, in un certo senso, fa blocco con il corpo, vi è come localizzato, vi affonda le  sue radici, cosa che lo rende pesante, gli conferisce inerzia e gli sottrae la mobilità dei fatti puramente spirituali. Invece, un elemento che ha poca tensione e poco valore emotivo può essere facilmente spostato, spazzato via, poichè è come sprovvisto di radici e privo di nessi con la mia persona.»
(Elena Caramazza, nota a piè di pagina presente in: C.G.Jung. 1934. Le conferenze di Basilea, 1934. Introduzione alla Psicologia Analitica. p.196. Unpublished. Inedite e non disponibili al pubblico. Edite in forma privata da Magi Edizioni)



« (…) poichè i disagi e gli imbarazzi dell’uomo civilizzato di fronte ai suoi complessi sono semplicemente i residui degli antichi tabù.»
(C.G.Jung. 1934. Le conferenze di Basilea, 1934. Introduzione alla Psicologia Analitica. p.102. Unpublished. Inedite e non disponibili al pubblico. Edite in forma privata da Magi Edizioni)



«Ci sono dei casi in cui i complessi influenzano in modo molto potente il linguaggio: si constata che certe parole induttrici determinano delle manifestazioni singolari, identiche a quello che viene chiamato in filologia e in linguistica delle agglutinazioni. Si dice che si è di fronte a un’agglutinazione quando la parola principale di una frase che contiene per esempio una “o”, fa sì che tutte le parole successive della frase vengano scelte tra quelle che contengono anch’esse una “o” (…). Tutte le parole secondarie adottano la vocale della parola principale. QUesto non accade più nelle lingue evolute (anche se si incontrano ancora delle tracce di questo fenomeno in turco e in ungherese); tuttavia, quando si esprime un affetto, la parole che lo formula con più efficacia ha una tendenza a ripetersi ancora come una rima. (…) Questa è senza dubbio l’origine della rima. Tutte le esclamazioni con un potenziale emotivo possiedono questa tendenza alla ripetizione, all’attrazione di altri elementi e all’agglutinazione. Quando si è di umore patetico, quando si parla in modo emotivo e affettivo, si ha la tendenza a esprimersi con allitterazioni; questa è l’origine dell’oratoria e del verso. Quando siamo sotto l’influsso di un affetto, abbiamo una marcata tendenza a esprimerci in versi.»
(C.G.Jung. 1934. Le conferenze di Basilea, 1934. Introduzione alla Psicologia Analitica. p.196. Unpublished. Inedite e non disponibili al pubblico. Edite in forma privata da Magi Edizioni)



«Un complesso, in effetti, a causa del suo potenziale affettivo, è come una minestra troppo calda che non si può portare alle labbra; ci accontentiamo di girargli intorno con le parole, isolandolo come possiamo, e di alludere a esso. (…) Un complesso, in effetti, è come una specie di magnete, un centro carico di energia attrattiva che attira verso di sè tutto quello che si trova alla sua portata, anche delle cose indifferenti. (…) Il complesso esercita un effetto attrattivo e assimilatore. Chiunque si trovi sotto l’influsso di un complesso predominante, assimila, comprende e concepisce i nuovi dati che emergono nella sua vita secondo il senso di questo complesso, al quale sono assoggettati; in sintesi il soggetto vive momentaneamente in funzione del suo complesso, come se vivesse un immutabile pregiudizio originale.
I complessi godono di un’autonomia marcata, e cioè sono entità psichiche che vanno e vengono seguendo il loro capriccio. la loro comparsa e la loro scomparsa sfuggono alla nostra volontà. Essi sono simili a esseri indipendenti che conducono, all’interno della nostra psiche, una specie di vita parassitaria. Il complessi fa irruzione nella struttura dell’Io e vi dimora nella misura in cui gli conviene; sperimentiamo le più grandi difficoltà per sbarazzarcene, Inoltre, come abbiamo appena detto, non appena un complesso si manifesta in modo sensibile altera la nostra coscienza: ci obbliga ad assimilare, a comprendere, voglio dire a commettere dei malintesi, in funzione della sua propria tonalità; esso turba la nostra memoria: le risposte influenzate da complessi non lasciano dei ricordi fedeli o vengono dimenticate; tanto è vero che il valore della nostra testimonianza viene compromesso dall’azione dei complessi, che ci spingono perfino a mentire senza che ce ne accorgiamo, a contraddirci; poichè non siamo più del tutto noi stessi quando un complesso regna in noi»
(C.G.Jung. 1934. Le conferenze di Basilea, 1934. Introduzione alla Psicologia Analitica. p.196. Unpublished. Inedite e non disponibili al pubblico. Edite in forma privata da Magi Edizioni)

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«PROVE SCIENTIFICHE ed EMPIRICHE, ulteriori a quelle di Jung dei primi anni del ‘900, a sostegno della teoria junghiana dei complessi:

(…) La visione di Jung di una psiche compartimentata, sia strutturalmente che funzionalmente, trova sostegno dalla grande quantità di studi teorici ed empirici intrapresi dagli psicologi.
– Fred Bartlett (1932) ha introdotto il concetto di schema che descriveva come “un’organizzazione attiva di reazioni passate, o di esperienze passate, che, si suppone, sia sempre operante in ogni risposta organica ben adattata”.
– Nel 1943, Kenneth Craik pubblicò la sua opera più importante “The Nature of Explanation” in cui asseriva che l’essere umano traduce gli eventi esterni in modelli interni e che ragiona manipolando queste rappresentazioni simboliche (Craik, 1943).
– Johnson-Laird ha sviluppato le idee di Craik e sottolinea il ruolo dei modelli mentali come determinanti della nostra percezione ed esperienza, scrivendo che “i limiti dei nostri modelli sono i limiti del nostro mondo” (Johnson-Laird 1989). Egli ha fatto notare che i modelli mentali sono simboli interni che, se in relazione alla percezione, al ragionamento o alla memoria, forniscono una mappa mentale della situazione che rappresentano.
– Peter Fonagy (…) afferma che noi valutiamo il significato delle situazioni non sulla base di regole formali di logica, ma sulla base dell’attivazione e manipolazione del particolare modello mentale all’opera.
Un altro indirizzo di ricerca collegato è lo studio della memoria e il riconoscimento che vi sono sistemi di memoria multipli, ognuno con i propri processi per la registrazione, l’immagazzinamento e l’accessibilità delle informazioni.
– Daniel Schacter ha esteso la ricerca sulla dissociazione, dimostrando che può essere elaborata una conoscenza concettuale complessa e semantica sena consapevolezza cosciente e ha dimostrato che la memoria dell’informazione concettuale può esser mostrata attraverso tests senza alcun riconoscimento conscio da parte del soggetto di questa informazione (Schacter 1996)
– Segue anche John Bowlby con il suo concetto di modello operativo interno… (…)»

(Tratto da Psicologia Analitica, prospettive contemporanee di analisi junghiana – a cura di Joseph Cambray e Linda Carter.
Estratto dal capitolo “Aspetti evolutivi della psicologia analitica” di Jean Knox (2010))
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Bibliografia consigliata sul tema:

1) C.G.Jung – Considerazioni sulla Teoria dei Complessi, Opere Vol.8.
2) Jolande Jacobi – Simbolo, Archetipo, Complesso – Bollati Boringhieri
3) Psicologia Analitica, prospettive contemporanee di analisi junghiana – a cura di Joseph Cambray e Linda Carter. (2010)
4) I complessi. Diagnosi e terapia in psicologia analitica – Hans Dieckmann – Astrolabio Ubaldini, 1993



http://www.jungitalia.it/2014/01/27/cosa-sono-i-complessi-a-tonalita-affettiva-clinica-e-psicopatologia-dei-complessi/