sabato 28 marzo 2015

Alain Badiou. Le categorie di “sinistra” e “destra” si sono americanizzate: sono solo sfumature nella gestione capitalista. Tutti si richiamano alla “democrazia” – che io personalmente preferisco chiamare “capital-parlamentarismo” – come all’unico regime politico accettabile

Il capitalismo è solo banditismo, irrazionale nella sua essenza e devastatore nel suo divenire.
Ha sempre fatto pagare qualche breve decennio di prosperità selvaggiamente inegualitaria con crisi in cui sparivano quantità astronomiche di valore, con spedizioni punitive sanguinarie in tutte le zone che reputava strategiche o minacciose e con guerre mondiali in cui si rifaceva la salute.

Alain Badiou


"Le categorie di “sinistra” e “destra” si sono americanizzate: sono solo sfumature nella gestione capitalista. Tutti si richiamano alla “democrazia” – che io personalmente preferisco chiamare “capital-parlamentarismo” – come all’unico regime politico accettabile. Gli intellettuali dominanti sono diventati pappagalli della cosiddetta democrazia, e fanno la morale alla Terra intera su basi che sono in realtà imperialiste. Ho sentito con le mie stesse orecchie una quantità di intellettuali di “sinistra” approvare caldamente il bombardamento di Kabul da parte dell’aviazione americana in nome delle liberazione delle donne afghane. La verità è che le categorie politiche stesse sono in rovina, e che la figura dell’intellettuale pubblico è diventata una caricatura." 
Alain Badiou




Shardana. I Popoli del mare.


i "Popoli del Mare"
<<Le nazioni straniere (Popoli del Mare) hanno messo a punto una cospirazione presso le loro isole. Improvvisamente essi hanno abbandonato le loro terre e si sono gettate nella mischia. Nessuno poteva resistere alle loro armi: da Hatti, a Qode, a Cherchemish, ad Arzawa e Alashiya, tutte furono distrutte allo stesso tempo. Un campo militare fu da loro insediato in Amurru; qui essi fecero strage della gente del posto e la terra fu lasciata in uno stato di desolazione come se non fosse mai stata abitata. Quindi essi si diressero verso l’Egitto dove era stato innescato il focolaio della rivolta. La loro confederazione era composta dai Weshesh, Tursha, Shardana, Sakaleshu, Peleset, Tjeker, Daunyu e Akuasha. Essi misero le proprie mani sulla terra che si stendeva, mentre i loro cuori confidavano che il piano sarebbe andato in porto>>


Ramses III, il secondo re della Ventesima Dinastia, che regnò per più della metà del XII secolo a.C. , si trovò a contrastare un'altra ondata di invasioni da parte dei Popoli del Mare (la più documentata) nel suo ottavo anno di regno. Il faraone narra questa vicenda in lunghe iscrizioni nel tempio di Medinet Habu.




L'ascesa di Dionisio di Siracusa.

L'ascesa di Dionisio di Siracusa.
Dionisio è oggi ricordato da tutti come il "Tiranno" di Siracusa. Capace di azioni terribili come la distruzione di Reggio e la deportazione dei sopravvisuti a Siracusa per essere venduti come schiavi. 
Ma quale fu la sua storia?

Dionisio visse tra V e IV secolo a.C a cavallo tra il periodo di maggior splendore delle colonie greche di Sicilia e l'invasione dei Cartaginesi che volevano vendicare la sconfitta di Imera del 480 a.C, in cui la coalizione siceliota e italiota guidata da Siracusa annientò l'armata di Amilcare. 
70 anni dopo i cartaginesi tornarono alla ribalta distruggendo prima Selinunte (419 a.C) e da qui si posero come obiettivo di annientare tutte le colonie greche di Sicilia.
Dionisio faceva parte del contingente siracusano inviato da Siracusa. Ma a causa dei ritardi nelle decisioni prese dall'assemblea democratica della città il contingente arrivò in ritardo ma in tempo per assistere al massacro dei selinuntini.
Dionisio riuscì a salvarne poco più di un migliaio tra cui Arete, la figlia del generale Ermocrate esiliato da Siracusa con l'accusa di aspirare alla Tirannia. Dionisio, non si sa se per vero amore o per entrare a far parte della famiglia di Ermocrate sposò Arete poco dopo.
I Cartaginesi intanto attaccarono Imera con l'intento di farla scomparire dalle mappe geografiche. Ancora una volta la burocrazia e la codardia di alcuni generali alleati favorirono la distruzione della città.
Dionisio cominciò a farsi l'idea che affidare il comando dell'esercito solo ai ceti nobiliari era sbagliato. Solo gli uomini valorosi dovevano stare al comando e inoltre cominciò a pensare che in periodo di guerra la democrazia fosse di ostacolo alle decisioni importanti. Solo un uomo, il più valoroso, doveva detenere il potere assoluto e poter prendere decisioni immediate.
Decise così insieme ad alcuni uomini fidati di organizzare il rientro di Ermocrate a Siracusa. 
Dopo la disfatta di Imera accusò pubblicamente il generale Diocle di codardia e alto tradimento e ottenne il suo esilio da Siracusa. Quando tutto fu pronto l'armata di Ermocrate entrò in città e occupò l'Agorà ma venne qui accerchiata e massacrata. Lo stesso Ermocrate venne ucciso nella battaglia.
Dionisio, gravemente ferito, fu messo in salvo da alcuni amici.
La vendetta dei Siracusani colpì tutti quelli che avevano sostenuto Ermocrate.
Arete fu torturata e stuprata.
Dionisio la trovò in casa, riversa in una pozza di sangue.
Da allora il suo unico scopo sarà la vendetta.
Grazie ad amici fidati, mentre era lontano da Siracusa per motivi di sicurezza, ottenne la lista di coloro che avevano ucciso barbaramente la moglie, esecutori e mandanti.
Nessuno ebbe salva la vita, li uccise uno per uno con la stessa crudeltà.

I Cartaginesi arrivarono alle porte di Agrigento. La più bella città del mondo non potè essere difesa per l'incapacità dei generali Agrigentini che furono lapidati dai loro soldati per non aver inseguito e annientato il nemico dopo aver vinto il primo scontro come aveva suggerito lo stesso Dionisio.
I Cartaginesi si riorganizzarono, costruendo una rampa fino all'altezza delle mura. 
L'unica scelta fu quella di evacuare la città. 
I Cartaginesi la saccheggiarono e distrussero i grandiosi Templi.
Poi misero qui base in attesa di attaccare Gela.

Grazie all'aiuto dell'amico Filisto, persona influente a Siracusa, fu adottato da un tale Heloris e secondo il diritto greco poteva essere riammesso in patria. Dall'interno eliminò i nemici uno ad uno e si fece nominare comandante supremo dell'esercito Siracusano.
Nel frattempo i cartaginesi attaccarono Gela.
Dioniso ottenne rinforzi anche dalle alleate Locri e Kroton. 
L'armata greca raggiunse Gela e Dionisio guidò con pieni poteri la difesa. 
Il suo piano, ritenuto perfetto, fallì.
Nel primo scontro armato i greci riportarono meno perdite ma persero quasi l'intera cavalleria e i cartaginesi erano in numero quasi doppio. Dionisio prese l'amara decisione di evacuare la città.
I comandanti della Cavalleria però lo tradirono anticipando il suo rientro a Siracusa per aizzargli contro la popolazione. Dionisio che aveva capito il loro piano lasciò amici fidati a guidare i profughi gelesi e si avviò con un piccolo esercito a Siracusa.
Scovò e uccise i traditori prima che il popolo fosse aizzato contro di lui.
Adesso non rimaneva che attendere i Cartaginesi.
Siracusa era l'ultima roccaforte della grecità di Sicilia.
[continua..]


immagine: (guerriero siceliota. Romeo Models http://www.romeomodels.com/product_info.php?products_id=67)

Joel e Ethan Coen, Non è un paese per vecchi. A venticinque anni ero già lo sceriffo di questa contea, difficile a credersi. Mio nonno faceva lo sceriffo e anche mio padre. Io e lui siamo stati sceriffi contemporaneamente, lui a Plano e io qui, credo che ne andasse fiero, io ne andavo fiero eccome. Ai vecchi tempi c'erano sceriffi che non giravano neanche armati, molta gente stenta a crederci, Jim Scarborough non portava mai la pistola, Jim figlio intendo, e neanche Gaston Boykins, quello della contea di Comanche. Mi è sempre piaciuto sentir parlare di quelli dei vecchi tempi, non ne ho mai perso l'occasione. Uno non può fare a meno di paragonarsi a loro, di chiedersi come avrebbero fatto loro al giorno d'oggi.


Non è un paese per vecchi - Inizio
Tommy Lee Jones ( Sceriffo Bell ) fa un discorso sulla sua vita da sceriffo.

A venticinque anni ero già lo sceriffo di questa contea, difficile a credersi. 
Mio nonno faceva lo sceriffo e anche mio padre. Io e lui siamo stati sceriffi contemporaneamente, lui a Plano e io qui, credo che ne andasse fiero, io ne andavo fiero eccome. Ai vecchi tempi c'erano sceriffi che non giravano neanche armati, molta gente stenta a crederci, Jim Scarborough non portava mai la pistola, Jim figlio intendo, e neanche Gaston Boykins, quello della contea di Comanche. Mi è sempre piaciuto sentir parlare di quelli dei vecchi tempi, non ne ho mai perso l'occasione. Uno non può fare a meno di paragonarsi a loro, di chiedersi come avrebbero fatto loro al giorno d'oggi. 
C'è un ragazzo che ho mandato sulla sedia elettrica qui a Huntsville, un po' di tempo fa, su mio arresto e mia testimonianza. Aveva ammazzato una ragazzina di quattordici anni. Il giornale scrisse che era un crimine passionale, ma lui mi disse che la passione non c'entrava niente, che da quando si ricordava aveva sempre avuto in mente di ammazzare qualcuno e che se fosse uscito di galera lo avrebbe rifatto. Sapeva che sarebbe andato all'inferno, da lì a un quarto d'ora ci sarebbe andato. Io non so cosa pensare, non lo so proprio. Con la criminalità di oggi è difficile capirci qualcosa, non è che mi faccia paura, l'ho sempre saputo che uno deve essere disposto a morire se vuole fare questo lavoro, ma non ho intenzione di mettere la mia posta sul tavolo... di uscire per andare incontro a qualcosa che non capisco. Significherebbe mettere a rischio la propria anima, dire "Ok, faccio parte di questo mondo".
Joel e Ethan Coen, Non è un paese per vecchi (2007)


https://www.youtube.com/watch?v=rcMTmQyQVJA








Qual è oggi, possiamo domandarci, la funzione della religione, nel momento in cui vediamo che il suo ruolo non è più di configurare la vita sociale dandole una legge fondata su un principio trascendente? Se prendiamo quel che dice Lacan nella conferenza stampa tenuta a Roma nel 1974 e pubblicata con il titolo Il trionfo della religione, dobbiamo dire che la religione è una terapia. Per Freud era il contrario, era una nevrosi: Freud considerava che la religione avesse la struttura della nevrosi ideale, della nevrosi ossessiva. Per Lacan la religione è una terapia giacché, con la sua capacità di secernere senso, di dare senso a tutto, e in particolare alla vita umana, essa è in grado di "acquietare i cuori", particolarmente quando questi vengono turbati dal reale messo in circolazione dalla scienza.



Qual è oggi, possiamo domandarci, la funzione della religione, nel momento in cui vediamo che il suo ruolo non è più di configurare la vita sociale dandole una legge fondata su un principio trascendente? Se prendiamo quel che dice Lacan nella conferenza stampa tenuta a Roma nel 1974 e pubblicata con il titolo Il trionfo della religione, dobbiamo dire che la religione è una terapia
Per Freud era il contrario, era una nevrosi: Freud considerava che la religione avesse la struttura della nevrosi ideale, della nevrosi ossessiva. Per Lacan la religione è una terapia giacché, con la sua capacità di secernere senso, di dare senso a tutto, e in particolare alla vita umana, essa è in grado di "acquietare i cuori", particolarmente quando questi vengono turbati dal reale messo in circolazione dalla scienza.
Naturalmente quando Lacan parla di terapia in questo senso si riferisce a un rimedio per l'insanabile, si riferisce all'incurabile della vita. Quest'idea della religione come terapia ha sedotto gli ideologi dello scientismo, che l'hanno ripresa a modo loro, un modo piuttosto monocorde, bisogna dire, ma che riesce sempre a stupirci e a volte anche a divertirci. L'Herald Tribune del 1 aprile scorso riferisce di uno studio, condotto in una clinica del Minnesota, intorno al potere di guarigione esercitato dalla preghiera su pazienti che avevano subito un intervento cardiochirurgico di una certa importanza. L'esperimento su cui si basa lo studio, questo è l'aspetto interessante, non ha preso ad oggetto la preghiera meditativa, e quindi quello stato di benessere fisico e spirituale che può derivare dalla concentrazione e dal raccoglimento in se stessi, ma la preghiera intercessoria, cioè una domanda, rivolta a Dio, perché eserciti il proprio intervento sul corso delle cose terrene. Dopo che Kant ha reso impercorribile l'argomento ontologico di S. Anselmo, lo scientismo contemporaneo aggira l'ostacolo passando a un sondaggio diretto dell'esistenza di Dio con il metodo del doppio cieco
I pazienti studiati sono stati divisi in tre gruppi
per un gruppo non si pregava, per gli altri due sì; uno dei due gruppi per cui si pregava ne veniva informato, l'altro veniva lasciato in situazione dubitativa: ai partecipanti veniva detto che per loro si poteva pregare oppure no. Le preghiere erano affidate a tre diverse congregazioni dove gli oranti erano istruiti a utilizzare il nome e l'iniziale del cognome della persona per cui pregavano - per proteggere la privacy suppongo, tanto Dio dall'iniziale può già capire di chi si tratta - e di includere la frase: "Per il successo dell'intervento chirurgico e per una rapida guarigione senza complicanze". 
La ricerca su cui si basa lo studio è costata $ 2.400.000.

In questo tentativo di negoziare con il divino attraverso i più aggiornati strumenti scientifici potremmo ravvisare un residuo d'incantamento del mondo che resiste alle analisi di Weber, risalenti ormai ai primi decenni del secolo scorso. Nella visione del disincantamento di Weber tuttavia, il razionalismo moderno non coincide con la cancellazione di Dio: semplicemente l'uomo disincantato, grazie alla potenza della tecnica, è portato a costruire attivamente il proprio mondo perché non pensa più di poter condizionare la divinità.
Weber scrive prima della Shoa, prima dell'orrore smisurato che ha piegato la potenza della tecnica alla distruzione dell'uomo. La Shoa, oltre a sollevare mille interrogativi nella riflessione etica, ha rilanciato anche i temi classici della teodicea, con il suo tipico vizio assolutorio di fondo. Una delle voci che ha avuto maggiore risonanza in questo senso è stata quella di Hans Jonas, stimato allievo di Heidegger, che non ha potuto risolvere il dilemma del male assoluto se non pensando a un Dio impotente.
Benedetto XVI, teologo senz'altro più sottile, nella sua visita ad Auschwitz del maggio scorso, interrogandosi sul silenzio di Dio di fronte allo sterminio degli ebrei, non solo non ha avuto bisogno dell'ipotesi depotenziante di Jonas, ma si è anche spinto più in là di Weber, e ha visto nella potenza della tecnica messa al servizio del genocidio la prefigurazione di un mondo dove l'uomo si sostituisce a Dio, ha visto l'incubo di un mondo senza Dio. Qui l'onnipotenza divina è salvata, anche se si paga il prezzo semplificativo di ridurre il nazismo al colpo di mano di una banda di criminali sui quali le colpe ricadono in modo esclusivo.
L'immagine di un mondo senza Dio appare, nelle parole di Joseph Ratzinger, quando ancora non porta al dito l'anello pontificale, in un intervento del 2001 al Sinodo dei Vescovi, dove richiamandosi alle epistole paoline, afferma: "Un mondo senza Dio è un mondo senza speranza, e una cultura senza Dio porta nel suo nucleo la disperazione, diventa inevitabilmente cultura della morte".
La speranza, virtù teologale, è un tramite che consente alle facoltà dell'uomo di partecipare alla natura divina, e nella fattispecie è la mediazione che porta a desiderare il regno dei cieli, la salvezza. Senza speranza non c'è salvezza. Auschwitz ci dà un'immagine completamente terrena di un luogo senza salvezza, dove tra i sommersi e i salvati anche i salvati sono perduti. Il problema è stato ben inquadrato da Giorgio Agamben, che fa del Lager il paradigma di uno spazio in cui lo stato d'eccezione diventa la regola. Abitualmente lo stato d'eccezione riguarda una situazione d'emergenza, quando viene sospeso l'ordine giuridico e il governo viene rimesso al decreto, alla forza o, al limite, all'arbitrio. Commettere atrocità, in questo caso, non è più correlato al diritto, ma piuttosto al senso di misura, o alla moralità di chi provvisoriamente esercita azione di polizia in modo sovrano. Il campo come luogo in cui lo stato d'eccezione diventa la regola è allora anche il luogo dove tutto è possibile, dove non c'è la protezione del diritto, dove si è in balìa del capriccio di chi governa senza nessun altro controllo sulla situazione.
Se facessimo funzionare in modo automatico le nostre formule diremmo che un luogo dove tutto è possibile è un luogo irreale, come un racconto di Hoffmann che tocca le corde delle nostre inquietudini più segrete. E' facile vedere tuttavia che in questo caso è vero il contrario: l'inferno sulla terra, il mondo senza Dio, è un luogo dove sono saltati i fondamenti della legge, e dove il reale impazza senza argine.
Senza andare agli estremi del Lager, questa dimensione della contemporaneità, dove il reale non sta più nelle briglie, è stata ben dipinta da Alejandra Eidelberg in uno dei Papers preparatori al nostro incontro, dove ha mostrato, come correlato di un declino dell'amore, la gabbia di ferro dei nuovi sintomi e il loro rovescio: i corpi di ferro per i quali impossible is nothing.
Dio nella tradizione era il fondamento della legge: se questo fondamento salta e la legge è sospesa, il mondo diventa un luogo dove lo stato d'eccezione si trasforma in regola e dove, con la miccia accesa dell'emergenza dovuta al terrorismo, i fondamentalismi si scontrano. Nello spazio globalizzato del mercato, Dio ridiventa tribale, si moltiplica per legittimare contrapposte rivendicazioni identitarie. Il lato drammatico, nel cedimento dell'universale, è l'esplosione delle identità. Dio è a brandelli, come suonava il titolo di un articolo nel dossier di una rivista francese - Dieu en lambeaux - e ognuno ne agita un lacerto per farsene insegna.
Il NdP, nei primi seminari di Lacan, era definito come il fondamento della legge. Poi, man mano che il suo insegnamento ha fatto posto alla logica e alla matematica, man mano che ha dato spazio alle tematiche della crisi dei fondamenti e dei suoi paradossi, il NdP non ha più potuto essere il fondamento. Si è logicizzato a sua volta, è diventato funzione, si è moltiplicato, si è pluralizzato. Pluralizzazione però non vuol dire andare a pezzi, non significa essere a brandelli: piuttosto suppone l'effetto implicato dalle conseguenze dello squarcio apertosi nell'universale. Questa falla fa naufragare la possibilità di pensare il NdP come fondamento.
Un mondo in cui Dio non è più il fondamento della legge deve allora per forza essere pensato come la globalizzazione del Lager, come incubo senza risveglio, come deserto senza speranza dove, secondo il detto di Feuerbach, l'uomo è ciò che mangia? C'è in questo detto l'oscillazione tra l'autoerotismo orale e la chiusura tautologica che la formulazione in tedesco permette di far risuonare - der Mensch ist, was er ist - riducendo la biografia di ogni uomo al cerchio insensato: nacque, mangiò, morì.
Credo tuttavia sia possibile vedere un'altra prospettiva, che non si dibatte tra la nostalgia del fondamento e la disperazione riduzionista di un materialismo senza prassi.
Abbiamo bisogno di una terapia che ci colmi di senso solo se abbiamo, come correlato, una civiltà la cui secolarizzazione si basa sulla programmazione totale, sulla prevedibilità, sul controllo come unico mezzo per contrastare l'angoscia. Il mondo moderno, che ha distolto lo sguardo dal passato, dal fondamento della tradizione dove si alimentava una vita immutabile, guarda avanti, verso il nuovo che gli viene incontro, e al tempo stesso, angosciato da quel che non conosce, cerca di sterilizzarne la sorpresa. La scienza ci nutre di novità che servono a placare le nostre apprensioni, e contemporanemente fa crescere la nostra angoscia del futuro, del corpo che invecchia, di una morte che la medicina cancella come esito naturale della vita e che tuttavia ci ghermirà. Abbiamo tutti gli agi, ma il piacere della vita è corroso dal futuro che la inghiotte. Sembra che la sola risposta sia illuminare di senso il buco nero delle nostre inquietudini, suturare la fenditura nativa del godimento. Se si vive la vita come un prodotto fallato, che contiene il vizio redibitorio della morte, non resta che rivolgere lo sguardo al produttore, meglio detto Creatore, al Dio da cui tutto proviene e a cui tutto ritorna, il Dio del fondamento, per restituirla avendo in cambio la salvezza.
Lacan menziona spesso Dio negli ultimi anni del suo insegnamento e nei modi più svariati. Difficile trarne una dottrina. Una divertente rassegna in chiave di dialogo immaginario è presentata dal testo di Antonio Di Ciaccia nel CD del Congresso. Se non si può fare una sintesi si può però tirare qualche filo. Uno è in RSI, dove Lacan definisce Dio come la rimozione in persona o, meglio, come la persona supposta alla rimozione. Lacan parla qui di rimozione originaria, Ûrverdrangung, che è l'inconscio irriducibile, quello a cui non è possibile dare nessun senso. Prendiamo la via lineare di dire che la rimozione è una difesa, la barriera che ci permette di non essere in preda al reale. La rimozione originaria non dà un senso al reale, lo contiene, diciamo così, nei limiti del ragionevole, quel tanto da potercisi abituare.
A questo punto si tratta solo di porre le questioni giuste: per avere il senso della vita occorre interpellare il Dio del fondamento, perché il senso della vita trascende la vita. Per il godimento della vita invece la faccenda è diversa, perché il godimento è immanente alla vita, e il fatto che sia fessurato non richiede terapia, piuttosto: accortezza.
Destreggiarsi, se debrouiller, è una delle ultime parole di Lacan. Occorre destreggiarsi nell'inestricabile vita. Il sogno dedalico del colpo d'ala che fa uscire dal labirinto è lo stesso che ci imprigiona nell'incubo di un'esistenza senza speranza. La verità è che non c'è uscita dal labirinto perché il mondo stesso è un labirinto in cui cercare un filo, un filo all'altro capo del quale c'è una donna, una donna con la quale non c'è rapporto sessuale, una donna che non è La donna, che non è Dio, e che non si può amare di amore perfetto, ma della quale si può fare il proprio partner-sintomo, e con la quale, nei momenti migliori, si può anche fare l'amore.
Marco Focchi, L'incubo di un mondo senza Dio, Roma, 13 luglio 2006




Kant. L’Io dipende dall’oggetto più di quanto l’oggetto dipenda dall’io. «Sepolti in casa». Se le vittime da accumulo sono sempre più numerose, con varie gradazioni di intensità, dalle forme lievi a quelle non più gestibili, non mancano i «padri» illustri. Per esempio i fratelli Collyer, la cui storia risale al 1947 e che è rimasta celebre: quando la polizia di Harlem entrò nel loro appartamento, scoprì che il primo era morto schiacciato dal crollo dei troppi oggetti ammucchiati alla rinfusa e l’altro per inedia, incastrato nel disordine. Ci vollero mesi per svuotare la casa che conteneva di tutto, da scatole di gioielli a mucchi di spazzatura, oltre a 14 pianoforti. Dal giorno della macabra scoperta iniziò un vero e proprio pellegrinaggio in quel luogo-icona: tantissimi furono attratti dall’idea che si potesse morire «di troppe cose». Un destino che ha segnato anche un signore canadese di 65 anni: costretto a dormire in auto dopo avere riempito fino all’orlo la propria abitazione di ogni genere di oggetti, alla sua morte, nel 2013, è stato rinvenuto di tutto, compresi 250 mila dischi in vinile. È la più grande collezione mai messa insieme.

Io non butto nulla: così gli oggetti diventano un’ossessione

Disordine: Quello fisico spesso tradisce una forma di confusione mentale



Gli oggetti da cui ci lasciamo circondare sono molto più che semplici oggetti: parlano di noi e noi parliamo con loro. Già Immanuel Kant scriveva che «l’Io dipende dall’oggetto più di quanto l’oggetto dipenda dall’io»: teoria profetica per un’epoca - la nostra - dove il possesso genera lo status symbol e dunque la nostra carta d’identità sociale. Un possesso sempre più fuori controllo. 

Smartphone, tablet e laptop e poi, oltre l’high tech, tantissime «cose» di tutti i tipi, fino all’onnipresente carta, in ogni forma possibile. Una massa - sia fisica sia virtuale - che non smette più di crescere e che ora, per le sue conseguenze, è finita sotto i riflettori anche della psicologia. L’ultima edizione del «Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali» distingue, per la prima volta, l’accumulo patologico di oggetti dagli altri disturbi ossessivo-compulsivi. E adesso gli dà pure un nome: «Disturbo da accumulo» o più semplicemente «DA». 
Fatti di cronaca 

A raccontare il fenomeno - mettendo nero su bianco cause, caratteristiche e rimedi - è il saggio (edito da Raffaello Cortina) «Il disturbo da accumulo»: l’hanno scritto Claudia Perdighe e Francesco Mancini, rispettivamente psicoterapeuta cognitivo-comportamentale e neuropsichiatra infantile, oltre che docente all’Università degli Studi Guglielmo Marconi di Roma. Spiegano gli autori che, ormai, l’«ossessione da oggetti» è un’esperienza comune. Quotidiana. Prima della medicina è infatti la cronaca a svelare l’estensione (e la gravità) della sindrome. Tanto che negli Usa è stato realizzato per la tv un «docu-reality» di successo: è «Hoarding: Buried Alive», in Italia mandato in onda da Real Time con il significativo titolo «Sepolti in casa». 

Se le vittime da accumulo sono sempre più numerose, con varie gradazioni di intensità, dalle forme lievi a quelle non più gestibili, non mancano i «padri» illustri. Per esempio i fratelli Collyer, la cui storia risale al 1947 e che è rimasta celebre: quando la polizia di Harlem entrò nel loro appartamento, scoprì che il primo era morto schiacciato dal crollo dei troppi oggetti ammucchiati alla rinfusa e l’altro per inedia, incastrato nel disordine. Ci vollero mesi per svuotare la casa che conteneva di tutto, da scatole di gioielli a mucchi di spazzatura, oltre a 14 pianoforti. Dal giorno della macabra scoperta iniziò un vero e proprio pellegrinaggio in quel luogo-icona: tantissimi furono attratti dall’idea che si potesse morire «di troppe cose». Un destino che ha segnato anche un signore canadese di 65 anni: costretto a dormire in auto dopo avere riempito fino all’orlo la propria abitazione di ogni genere di oggetti, alla sua morte, nel 2013, è stato rinvenuto di tutto, compresi 250 mila dischi in vinile. È la più grande collezione mai messa insieme

Per gli esperti al centro della disfunzione c’è un rapporto alterato tra Io e mondo esterno
Un rapporto che si modella già nell’infanzia. I bambini, secondo gli psicologi dello sviluppo, si percepiscono come un prolungamento della madre. E questo prolungamento, a volte, sopravvive: in un diario di scuola, nella t-shirt con l’autografo del cantante preferito, nella prima edizione di un libro che si ama. Nulla di strano, finché i legami si moltiplicano all’eccesso e diventano manie. Favorito dall’eccesso di oggetti e informazioni che ci assediano, oggi il «DA» è un disturbo in crescita: ne soffre tra il 2 e il 5% degli italiani. Persone in cui scattano meccanismi mentali da cui è difficile liberarsi: secondo lo psicologo Randy Frost, questi individui vedono nelle cose «impossibili-da-buttare» altrettante «opportunità future». Così passato, presente e futuro si confondono. E il disordine in casa tradisce il disordine della mente

23/03/2015
MARCO PIVATO

http://www.lastampa.it/2015/03/23/societa/e-io-non-butto-nulla-cos-gli-oggetti-diventano-ossessioni-wcgHeLSZuCWi9UwxWnecnN/pagina.html

Una volta che viene accettata come principio la visione della vita come un tutto organico, l'umanità diventa co-creatrice insieme alla natura nel senso che può riconoscere, ignorare o distruggere la sua identità con la natura, perché la continuità dell'esistenza della natura dipende in ultima analisi dal tipo di consapevolezza che noi riusciamo a darle.



Una volta che viene accettata come principio la visione della vita come un tutto organico, l'umanità diventa co-creatrice insieme alla natura nel senso che può riconoscere, ignorare o distruggere la sua identità con la natura, perché la continuità dell'esistenza della natura dipende in ultima analisi dal tipo di consapevolezza che noi riusciamo a darle.
Baring, A. & Cashford, J., The Myth of the Goddess



venerdì 27 marzo 2015

La Valutazione. Lo scopo è quello di proporre situazioni di apprendimento che superino la risposta a un continuo interrogatorio (scritto o orale, in modalità diverse) e si convertano invece nella soddisfazione di una spontanea valorizzazione ed evidenziazione della propensione verso necessità, gusto, desiderio di sapere da parte dell’allievo.

L’INFLUENZA DELLA RICERCA IN DIDATTICA SULLA VALUTAZIONE

Quarto appuntamento con il tema della valutazione. 

Dopo Ivo Mattozzi, Tiziano Pera, Paola Traverso, interviene Martha Isabel Fandiño Pinilla. 

Introduce Bruno D'Amore.

Competenze.
Sembra impresa facile verificare lo stato degli apprendimenti degli studenti, ma non lo è affatto; non solo perché è difficile riscontrare paradigmi oggettivi, che è stato il sogno di alcuni decenni fa, ma perché dietro le risposte e gli atteggiamenti degli studenti si nascondono maglie apprenditive di una complessità enorme; e poi, che cosa esattamente si valuta? 
Quel che il bambino sa, quel che sa fare, come si pone di fronte a questi saperi? 
Come li usa, a proposito o no? E poi, non sarà che quel che dimostra di aver appreso dipende da come noi gli chiediamo quel che ha appreso? 
Da come noi ci poniamo sul vertice insegnante, nello schema d’aula: insegnante, sapere, alunno? 
I suoi ruoli sono definiti dalle nostre richieste? 
Ha la libertà di creare, di inventare, di proporre… 
o gli diamo solo l’opportunità di rispondere pedissequamente a quel che ci aspettiamo da lui?

Il tema è complesso, ma va affrontato in modo consapevole e opportuno. 
Per questo, "La Vita Scolastica" ha deciso di dedicare tempo e sforzi a questo delicato aspetto della didattica; come prima mossa, abbiamo deciso di chiedere alcuni interventi a specialisti, tanto per cominciare a rompere il ghiaccio. Seguiranno altri interventi programmati e, spero, molti spontanei, da parte dei lettori. - Bruno D'Amore

L’influenza della ricerca in didattica sulla valutazione
 di Martha Isabel Fandiño Pinilla

Fare e voler fare.
La competenza è oggi riconosciuta come qualche cosa di più che una conoscenza, ben di più che un “saper fare in un dato contesto”, come vari autori la definivano al momento iniziale del dibattito, qualche decennio fa. La competenza implica anche un “voler fare”, dunque chiama in causa fatti affettivi, come volizione e atteggiamento.
D’altra parte, il desiderio di conoscere è una necessità implicita dell’essere umano; tutto in lui è indirizzato alla conoscenza, fin dai suoi primi passi nel mondo (in senso non solo metaforico). 
La tensione umana non è indirizzata solo al comunicare, come talvolta si sente dire (l’uomo come animale comunicativo), dunque; in più, egli può/vuole trasformare il sapere appreso in un nuovo sapere, quello che gli permette di processare le informazioni possedute e cercare quelle che gli permettono di risolvere una nuova situazione problematica, se ha deciso di affrontarla.
Man mano che si soddisfa una necessità e in base a come questa necessità è soddisfatta, sorge una necessità nuova; è il gruppo sociale nel quale si trova inserito l’individuo e nel quale si trova ad agire, che determina in larga misura necessità e priorità che devono essere soddisfatte.
L’analisi e il trattamento di questa problematica si assume all’interno di quel che tutta la società chiama Educazione. Ma la possibilità che dentro a un gruppo sociale sorgano forme di espressione complesse, tanto intellettuali quanto estetiche o etiche, dipende in larga parte dallo sviluppo cognitivo dei suoi membri e dal modo in cui questi affrontano problemi facendo, dell’integrazione dei diversi saperi e delle motivazioni, una costante.
Alla base di questa costante d’azione, c’è un processo psichico-intellettuale che potremmo identificare con la coppia motivazione-volizione.
Oggi si tende a vedere questi due processi come facce opposte di una stessa medaglia: 
la motivazione ha come agente responsabile l’insegnante e dunque come soggetto dell’azione l’allievo; la volizione ha come responsabile lo studente, la sua volontà di apprendere. Su questi due termini si fa spesso confusione, accusando per esempio l’allievo di non essere motivato, cioè confondendo agente e agito.

C’è competenza e competenza…

Anche sulla competenza a volte non si fanno opportune distinzioni; nel campo della matematica, per esempio, è bene distinguere tra due tipologie, la competenza in matematica e la competenza matematica. La competenza in matematica si centra nella disciplina matematica, riconosciuta come scienza costituita, come oggetto proprio, specifico, di conoscenza. La competenza matematica si riconosce quando un individuo vede, interpreta e si comporta nel mondo in un senso matematico.

L’insegnante deve avere prima di tutto lui stesso competenza in matematica ed essere cosciente della problematica della competenza matematica. Oltre alla conoscenza della disciplina che insegna e della teoria della didattica specifica di quella disciplina, gli si deve richiedere una volontà e una capacità comunicative reali, per esempio quelle di saper / voler spiegare il mondo da un punto di vista matematico, senza forzarne i problemi, facendo sì che la matematica vi appaia in modo naturale.

La costante nell’azione dell’insegnante deve essere la rottura dell’equilibrio che si genera come punto di partenza per l’apprendimento, canalizzata nella direzione adeguata affinché essa si costituisca realmente in un apprendimento da parte dello studente. Lo scopo è quello di proporre situazioni di apprendimento che superino la risposta a un continuo interrogatorio (scritto o orale, in modalità diverse) e si convertano invece nella soddisfazione di una spontanea valorizzazione ed evidenziazione della propensione verso necessità, gusto, desiderio di sapere da parte dell’allievo.

Per giungere a un apprendimento che si converta in una competenza del primo tipo (competenza in matematica) da parte dell’allievo, l’azione didattica non può essere lineare né può banalmente ridursi a una sequenza di fasi che vanno (come si dice banalmente a volte) dal semplice al complesso, dato che in questo modo prende forza l’idea di una scala didattica forzata e troppo rigida. Si richiede una serie di nuovi e reiterati incontri con il sapere matematico, nei quali la riarticolazione sia proposta come parte di questo sapere organico e strutturato e non come una somma di saperi slegati e banali.

Alcuni suggerimenti pratici
Tenterò di riassumere in pochi punti la metodologia che, a mio avviso, in qualche modo privilegia lo sviluppo della competenza matematica.

  • Lavorare su situazioni problematiche a-didattiche prese dalla realtà (quella dell’allievo, non necessariamente stereotipata).
  • Organizzare lo sviluppo curricolare sulla base dei processi e non solo dei prodotti; questo delicatissimo punto va fatto capire allo studente.
  • Proporre lavoro di aula sufficientemente ricco e stimolante, affinché l’elaborazione mentale che si richiede per affrontare il lavoro prosegua fuori dal tempo e dallo spazio scolastici.
  • Stimolare la creatività e l’immaginazione degli studenti mediante diverse attività matematiche, tenendo presente che non sono i contenuti in sé stessi a costituire la meta da raggiungere tramite la scuola, ma che essi sono la base per costruzioni di livello educativo e culturale più alto.
  • Riconoscere le concezioni che l’allievo ha elaborato in relazione alla matematica, il suo insegnamento e il suo apprendimento; un’idea stereotipata della matematica e della forma in cui la si presenta in aula, annullano un lavoro destinato allo sviluppo della competenza.

La valutazione viene allora a essere vista come il processo di analisi delle situazioni d’aula, in tutte le sue componenti: il curricolo, l’efficacia dell’azione dell’insegnante (insegnamento), l’allievo (apprendimento).

Ha senso evidenziare che l’allievo è tanto responsabile del processo di valutazione quanto lo sono l’insegnante o la società, se è vero che è l’allievo competente ad essere giudicato, dunque ad essere giudice e giudicato all’un tempo.


Per saperne di più

Fandiño Pinilla M.I. (2002). Curricolo e valutazione in matematica. Bologna: Pitagora.

Curricolo, competenze e valutazione in matematica


 http://www.giuntiscuola.it/lavitascolastica/magazine/articoli/l-influenza-della-ricerca-in-didattica-sulla-valutazione/







giovedì 26 marzo 2015

Leonid Ivanovič Rogozov è stato un medico russo. Ha preso parte alla Sesta Spedizione Antartica Sovietica negli anni 1960-1961. Durante tale spedizione si ammalò di appendicite; poiché era l'unico medico presente nella spedizione, dovette operarsi da solo per sopravvivere.


Leonid Ivanovič Rogozov è stato un medico russo. 
Ha preso parte alla Sesta Spedizione Antartica Sovietica negli anni 1960-1961. 
Durante tale spedizione si ammalò di appendicite; poiché era l'unico medico presente nella spedizione, dovette operarsi da solo per sopravvivere.
L'intervento iniziò alle ore 22:00 del 30 aprile, con l'aiuto di un autista e un meteorologo che fornivano al medico-paziente gli strumenti e reggevano uno specchio per permettere a Rogozov di vedere meglio ciò che stava facendo. Egli stava in una posizione semiseduta, leggermente inclinato verso sinistra. Venne usata una soluzione di procaina al 0.5% per anestetizzare la parete addominale. Rogozov praticò un taglio di 10-12 centimetri e procedette all'asportazione dell'appendice. Debolezza e nausea pervennero dopo una mezz'ora dall'inizio dell'intervento; Rogozov fu quindi costretto a fermarsi per qualche minuto ad intervalli regolari. Vennero somministrati antibiotici direttamente nella cavità addominale; l'intervento si concluse a mezzanotte circa.
Il decorso post-operatorio fu regolare; i sintomi della malattia scomparvero e, dopo cinque giorni, sparì anche la febbre. I punti di sutura vennero rimossi sette giorni dopo l'intervento. Due settimane dopo, Rogozov riprese a lavorare.






mercoledì 25 marzo 2015

Joumana Haddad. «Ma tutti quei bravi devoti, sono cosi poco fiduciosi nella solidità della loro fede, al punto di temere un confronto con una persona che vede le cose diversamente?». La risposta è, purtroppo, un «sì» irrevocabile. Perché in società dove la regola numero uno di sopravvivenza, per la maggioranza (non generalizziamo), è il mantenimento dell’ignoranza, l’ipocrisia e l’auto-inganno, è normale essere terrorizzati dalle voci diverse, dissenzienti, fuori dal gregge, e provare a silenziarle o pretendere assurdamente che non esistano.

Ultima notizia dalla mia parte del mondo. 
Esistono arabi che, apparentemente, sarebbero più pericolosi dei criminali dello Stato Islamico. 
Più pervertiti. Più temuti. Più «mortali». Indovinate chi sono? Beh, gli atei! Mi faccio pure altre domande, tipo: «Ma tutti quei bravi devoti, sono cosi poco fiduciosi nella solidità della loro fede, al punto di temere un confronto con una persona che vede le cose diversamente?». La risposta è, purtroppo, un «sì» irrevocabile. Perché in società dove la regola numero uno di sopravvivenza, per la maggioranza (non generalizziamo), è il mantenimento dell’ignoranza, l’ipocrisia e l’auto-inganno, è normale essere terrorizzati dalle voci diverse, dissenzienti, fuori dal gregge, e provare a silenziarle o pretendere assurdamente che non esistano. Ovviamente, oltre ad essere pubblicamente atea e laica, sono anche «accusata» di tante altre cose: sono donna («Come osa, quella femminuccia, contraddirci?»); lotto per l’uguaglianza tra uomini e donne («Allerta al diavolo!»); difendo la libertà sessuale nel mondo arabo («Scandalo! Noi le nostre donne le vogliamo vergini e “pure”. Il sesso è solo per il nostro piacere, e i loro corpi ci appartengono»); infine, combatto malattie che sono ormai modi di vita qui, come la discriminazione, l’oppressione, l’omofobia… Insomma, si capisce perché sono una persona non grata per gli estremisti. In conclusione, caro Islam, il tuo vero nemico non è l’ateo, ma tutti quelli che stanno uccidendo e commettendo orrori nel tuo nome. Il tuo vero nemico non è l’uguaglianza tra uomini e donne, ma ogni musulmano che sposa una bambina, o gli impone il niqab, o l’infibulazione. Il tuo vero nemico non è la libertà, ma l’oppressione dei diritti umani. Il tuo vero nemico non sta fuori di te: corre nel tuo stesso sangue. Caro Islam, il tuo assassino ha tanti nomi: si chiama Stato Islamico. Al Qaeda. Boko Haram. Talebani… Occorre che ti salvi prima di loro. Poi, se vuoi, parleremo di ateismo.
Joumana Haddad



Essere arabo oggi implica in primo luogo – senza generalizzare – padroneggiare l’“arte della schizofrenia”.
Perché? Perché essere arabo oggi significa dover essere un ipocrita. Significa non poter vivere e pensare quello che realmente vivi e pensi con onestà, spontaneità e innocenza. Significa sdoppiarti, perché ti è proibito dire la nuda verità (e la verità è nuda, questo è il suo ruolo e questo è il suo potere), perché la maggior parte degli arabi si affida a una rete di confortanti bugie e illusioni. Essere arabo comporta che la tua vita e le tue storie devono essere represse, frenate e codificate. Devono essere riscritte per soddisfare i guardiani della “castità araba”, in modo che questi ultimi possano essere sicuri che il delicato “imene arabo” sia protetto dal peccato, dalla vergogna, dal disonore o dal difetto. Gli oscurantisti si moltiplicano come funghi nella cultura araba; ovunque ci imbattiamo nelle loro ombre, su ogni questione. Le loro anime sono parassiti, così come i loro cuori, le loro menti e i loro corpi. Possono sopravvivere solo come zecche. La loro attività è distorcere e opprimere qualsiasi cosa libera, bella o creativa che sia sfuggita alla loro ipocrisia e superficialità. Ovunque riescono a risplendere la libertà, la creatività e la bellezza, essi lanciano ondate di ostilità e risentimento, promuovono campagne di distorsione e menzogna, in modo da distruggere ciò che è sfuggito alla loro mediocrità.
Joumana Haddad, Ho ucciso Shahrazad





Il teatro delle ombre ottomano. Noto anche come Karagöz, dal nome del suo più celebre protagonista, il teatro delle ombre ottomano è una miniera inesauribile di informazioni sulla cultura popolare ottomana. Vi venivano rappresentate varie tipizzazzioni delle molte popolazioni presenti nell’impero: fra i molti personaggi troviamo così l’arabo, il curdo, l’albanese, l’ebreo e l’armeno, e persino l’europeo, ognuno specchio di cliché e luoghi comuni diffusi a quel tempo. Una varietà che si riflette anche da un punto di vista linguistico, grazie all’attenzione riservata all’accento e ai vocaboli – spesso affatto scurrili – caratterizzati a seconda dell’origine sociale e etnica. Un altro aspetto importante è quello satirico. Molto spesso il teatro delle ombre veniva utilizzato per criticare, in maniera anche piuttosto dura, il potente di turno. Fondamentale anche la dimensione licenziosa e oscena che caratterizza il genere: un aspetto, questo, che finirà per scandalizzare anche lo scrittore Edmondo De Amicis, che nel suo libro di viaggio Costantinopoli così descrive il nostro Karagöz: “È una figurina grottesca che rappresenta la caricatura del turco del mezzo ceto, una specie d’ombra chinese, che muove le braccia, le gambe e la testa dietro un velo trasparente, e fa quasi sempre da protagonista in certe commediole strampalatamente buffonesche, di cui il soggetto è per lo più un intrigo amoroso. Egli è un quissimile, ma depravato, di Pulcinella: sciocco, furbo e cinico, lussurioso come un satiro, sboccato come una baldracca, e fa ridere, anzi urlare d’entusiasmo l’uditorio con ogni sorta di lazzi, di bisticci e di gesticolamenti stravaganti, che sono o nascondono ordinariamente un’oscenità.”

Via della seta: IL TEATRO DELLE OMBRE
Simone Zoppellaro

Dalla Cina, l’Indonesia e l’India, fino alla Grecia e la Francia il teatro delle ombre ha percorso nei secoli l’antica via della seta intrattenendo grandi e piccoli, monaci e mercanti, ricchi e poveri. Divertendo, ma anche istruendo i suoi spettatori, e non mancano esempi di un utilizzo del teatro delle ombre all’interno di festività religiose, come nella più celebre di queste tradizioni: il wayang kulit diffuso a Giava e a Bali. 

Ponte naturale fra Oriente e Occidente, il mondo turco e ottomano finirono per sviluppare una tradizione autoctona del teatro delle ombre e che è tuttora presente in Turchia e in altri paesi nati in seguito alla dissoluzione dell’impero. Data l’origine popolare, è difficile rintracciarne con precisione la nascita. Si moltiplicano così le ipotesi in proposito: c’è chi sostiene che arrivò ai turchi grazie ai persiani o agli arabi, che lo conoscevano e praticavano fin dal medioevo, e chi invece che il tramite con l’Oriente siano stati i gitani; chi ipotizza che questa forma di teatro sia stata importata dall’Egitto, terra conquistata dall’impero, e chi vi rintraccia elementi sciamanici che farebbero ipotizzare un’origine centro-asiatica. Infine, non manca chi sostiene che Hacivat e Karagöz, i due personaggi principali di questo teatro, siano ispirati a due persone realmente esistite: due semplici lavoratori, un muratore e un fabbro, che parteciparono alla costruzione di una moschea a Bursa nel XIV secolo. I loro lazzi, che intrattenevano i compagni di lavoro fino a morir dalle risate, sarebbero stati così immortalati in questa commedia popolare. 
Noto anche come Karagöz, dal nome del suo più celebre protagonista, il teatro delle ombre ottomano è una miniera inesauribile di informazioni sulla cultura popolare ottomana. Vi venivano rappresentate varie tipizzazzioni delle molte popolazioni presenti nell’impero: fra i molti personaggi troviamo così l’arabo, il curdo, l’albanese, l’ebreo e l’armeno, e persino l’europeo, ognuno specchio di cliché e luoghi comuni diffusi a quel tempo. Una varietà che si riflette anche da un punto di vista linguistico, grazie all’attenzione riservata all’accento e ai vocaboli – spesso affatto scurrili – caratterizzati a seconda dell’origine sociale e etnica
Un altro aspetto importante è quello satirico. Molto spesso il teatro delle ombre veniva utilizzato per criticare, in maniera anche piuttosto dura, il potente di turno. Fondamentale anche la dimensione licenziosa e oscena che caratterizza il genere: un aspetto, questo, che finirà per scandalizzare anche lo scrittore Edmondo De Amicis, che nel suo libro di viaggio Costantinopoli così descrive il nostro Karagöz: 
“È una figurina grottesca che rappresenta la caricatura del turco del mezzo ceto, una specie d’ombra chinese, che muove le braccia, le gambe e la testa dietro un velo trasparente, e fa quasi sempre da protagonista in certe commediole strampalatamente buffonesche, di cui il soggetto è per lo più un intrigo amoroso. Egli è un quissimile, ma depravato, di Pulcinella: sciocco, furbo e cinico, lussurioso come un satiro, sboccato come una baldracca, e fa ridere, anzi urlare d’entusiasmo l’uditorio con ogni sorta di lazzi, di bisticci e di gesticolamenti stravaganti, che sono o nascondono ordinariamente un’oscenità.”

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martedì 24 marzo 2015

Damnatio Memoriae. Stefano VII istituì il cosiddetto Sinodo del cadavere, un vero e proprio processo a carico dell’ormai defunto Papa Formoso. Con la celebrazione di questo rito processuale a carico di Formoso, Stefano VII si riprometteva di cancellare il suo predecessore dalla storia, di estinguerne il ricordo (extiguere nomen). Questa operazione distruttiva era chiamata damnatio memoriae: a quei tempi, era considerata un’operazione indispensabile per distruggere anche l’entità che sopravviveva al morto, una persecuzione raffinata, insomma. La sopravvivenza dopo la morte era legata alla “memoria” dei vivi verso i defunti. Riuscire a sopravvivere nella memoria, grazie alle proprie azioni illustri, voleva dire anche continuare a vivere dopo la morte. Cancellare i segni visibili della vita terrena, cioè la lapide, il nome inciso sui monumenti, le figure affrescate sui muri, voleva dire per i defunti distruggere il legame con la vita e precipitare nel nulla. Il processo a Formoso fu dunque celebrato per questo motivo: la presenza del cadavere indiceva i presenti al rifiuto, alla ripulsa profonda verso quella che è da sempre l’immagine terrificante del disfacimento.

La Damnatio Memoriae.
Letteralmente condanna della memoria, la “Damnatio Memoriae” nel diritto latino consisteva nella cancellazione della memoria di una persona e nella distruzione totale di qualsiasi traccia potesse tramandarla ai posteri.
Era una pena particolarmente dura, riservata a coloro che venivano considerati ostili o nemici agli interessi di Roma.
La Damnatio Memoriae, cancellava ogni traccia dell’esistenza di queste persone, salvaguardando in tal modo l’onore della città, la pena risultava ancora più aspra se si pensa quanto valore attribuiva la società dell’epoca all’orgoglio di essere cittadino romano. La scarsità di fonti storiche, specialmente in epoca più antica, favoriva in molte occasioni l’efficacia di questa punizione.
A Roma questa pena veniva generalmente decisa e applicata dal Senato, e faceva parte di quelle sanzioni che potevano essere attribuite a personalità di spicco dell’Urbe. In primo luogo la Damnatio Memoriae prevedeva la “abolitio nominis”, ovvero la cancellazione del “praenomen” da tutte le iscrizioni, la distruzione di tutte le sue raffigurazioni, come pitture o statue, e il divieto di tramandare il suo “praenomen” in seno alla propria famiglia di appartenenza.
In alcune circostanze, dopo che il Senato approvava la sanzione, veniva eseguita la “rescissio actorum”, la rescissione degli atti, che consisteva nella completa distruzione di tutte le opere realizzate dal condannato nell’esercizio della propria carica, in quanto ritenuto un pessimo cittadino. Se tale sanzione veniva applicata qual’ora il condannato fosse ancora in vita, essa rappresentava una vera e propria morte civile.
In età imperiale, tale punizione subì una degenerazione lenta ma inesorabile, che andò a colpire anche dopo la loro morte persino la memoria degli imperatori spodestati o uccisi. In questo caso la cancellazione delle effigi indesiderate poteva avvenire anche sulle monete già coniate e già in circolazione.

Vediamo ora alcuni tra i più illustri personaggi che nella storia di Roma subirono la “Damnatio Memoriae”.
Tra gli imperatori, rigorosamente non in ordine cronologico, vale la pena ricordare Caligola, Nerone, Domiziano, Commodo, Eliogabalo, Massenzio, Treboniano Gallo, Didio Giuliano, vi furono poi altri uomini e donne di spicco che subirono tale pena, come il braccio destro dell’imperatore Tiberio, Seiano, oppure la madre di Nerone, Agrippina, o ancora Geta, fratello di Caracalla che non esitò a farlo assassinare e a far si che se ne perdesse ogni traccia.

Dopo aver fatto assassinare il fratello Geta, l'Imperatore Caracalla lo fece eliminare in tutti i luoghi in cui era rappresentato come si può vedere da questo rilievo.
Dopo aver fatto assassinare il fratello Geta, l’Imperatore Caracalla lo fece eliminare in tutti i luoghi in cui era rappresentato come si può vedere da questo rilievo.



192 d.C.:  Terza congiura e assassinio dell'imperatore Commodo.
Commodo sopravvisse a ben due congiure. La prima (132 d.C.) nacque in ambito familiare falli per l'incapacità dell'esecutore che prima ancora di colpirlo disse "Qui c'è il pugnale che ti spedisce il Senato": le guardie personali dell'imperatore prontamente lo disarmarono, hi seguito mandanti ed esecutori furono messi a morte, mentre le personalità indirettamente coinvolte esiliate ) e poi fatte assassinare ). Anche la seconda falli in misero modo. Quella che riusci, la terza, vide il coinvolgimento diretto del Senato. I senatori avevano dalla loro parte la concubina preferita dell'imperatore, che lo avvelenò a cena. Commodo però si senti appesantito dalla cena e vomitò quanto ingerito, veleno compreso. La sera stessa si provvide a corrompere Xarcisso, maestro dei gladiatori, che strangolò l'imperatore. Il giorno seguente fu messa in giro la voce della morte improvvisa, e il Senato proclamò la damnatio memorine.

«Che il ricordo dell'assassino e del gladiatore sia cancellato del tutto. Lasciate che le statue dell'assassino e del gladiatore siano rovesciate. Lasciate die la memoria dell'osceno gladiatore sia completamente cancellata. Gettate il gladiatore nell'ossario. Ascolta o Cesare: lascia die l'onddda sia trasdnato con un gando. alla maniera dd ìiostri padri, lasda die l'assassino del Senato sia trasdnato con il gando. Più feroce di Domiziano, più turpe di Nerone, Ciò che ìia fatto agli altri, sia fatto a lui stesso. Sia da salvare invece il ricordo di dà è senza colpa. Si ripiistino gli onori degli innocenti, vi prego.» [Historia Augusta]

I congiurati trovarlo modo di nascondere abilmente l'omicidio facendo spargere la voce che l'imperatore fosse morto per un sopraggiunto ictus: la morte aveva pertanto evitato l'assassinio dei consoli designati progettato dall'imperatore che a sua volta, sempre a detta dei congiurati, avrebbe voluto assumere anche il consolato da solo. Viene offerta la porpora imperiale al Prefectus Urbi Publio Elvio Pertinace, che accetta solo quando vede il cadavere di Commodo. Ironia della sorte, due armi dopo l'imperatore Settimio Severo riabilitò la figura di Commodo, che passò dalla condizione di hoitis a quella di dimis (con tanto di di viniz zazione ).
http://storiaromanaebizantina.altervista.org/accadde-oggi-31-dicembre-406-d-c-attraversamento-del-reno-e-crollo-del-limes-renano/




La pena si protrasse anche in epoca medievale, particolare è il caso di Papa Formoso (816 circa – Roma, 4 aprile 896). Egli di fatto subì un processo post mortem, conosciuto come il Sinodo del Cadavere, con l’accusa di sacrilegio e abuso di potere, il suo cadavere fu riesumato, vestito con abiti pontifici e posizionato sul trono della sala del concilio, dove il suo successore (anche se il vero successore di Papa Formoso fu Papa Bonifacio che guidò la chiesa per soli 15 giorni), Papa Stefano VI l’avrebbe processato. A rispondere alle domande poste venne nominato un diacono. Al termine di questa farsa, il defunto Papa venne riconosciuto colpevole, e dopo il taglio delle tre dita usate per impartire le benedizioni venne trascinato e gettato nelle acque del Tevere.
http://romaeredidiunimpero.altervista.org/la-damnatio-memoriae/







Sinodo del cadavere – il processo più osceno, surreale e macabro della storia.

Il processo fu fatto al corpo in putrefazione di un Papa morto da mesi, estratto dalla tomba, rivestito, sistemato, fissato con i lacci a una poltrona, accusato, interrogato, condannato a morte, destituito, amputato e dato in pasto alla folla perché lo scaraventasse nel Tevere.
Il cadavere è quello di Papa Formoso ed il processo avvenne nella Basilica di San Giovanni in Laterano nel lontano gennaio 897.

Il periodo buio del papato.
Formoso fu eletto pontefice il 6 ottobre 891 e morì il 4 aprile 896. 
In questo periodo, definito il più “buio” della storia del papato, la Chiesa viveva un momento di debolezza e di impotenza nei confronti delle nobili famiglie romane e ducali della penisola. La continua ingerenza di queste casate influenzò per più di un secolo la salita dei pontefici come mai accadde nella storia. Ogni Papa di quest’epoca era, indissolubilmente, legato ai poteri locali italiani e stranieri che andavano sempre più accrescendo la propria influenza su Roma e sull’elezione stessa del successore di Pietro.

Prima dell’elezione di Formoso le due figure più potenti nella penisola erano quelle di Guido da Spoleto e Berengario del Friuli. Nello stesso periodo era sceso in Italia un altro pretendente al trono imperiale, il re dei Franchi, Arnolfo di Corinzia, al quale Berengario aveva giurato fedeltà. L’anno seguente il titolo reale italiano passò a Guido di Spoleto, avversario acerrimo sia di Arnolfo che ovviamente di Berengario, grazie all’appoggio di Papa Stefano VI.

Poche settimane dopo la solenne investitura di Guido, Formoso diventò vescovo di Roma. 
I rapporti fra Guido e Formoso non erano dei migliori, anzi, entrambi nutrivano astio l’uno nei confronti dell’altro. Formoso persuase Arnolfo a scendere nell’894 in Italia per liberarla dall’egemonia di Guido offrendogli la corona imperiale.

Quando Guido morì, lasciò contro il nemico il figlio Lamberto e la moglie Ageltrude. 
Nell’896 Arnolfo portò a compimento la sua campagna militare italiana e si fece incoronare imperatore da Formoso, il quale morì qualche settimana dopo. Gli successero Papa Bonifacio VI, che morì dopo sole due settimane (il secondo pontificato più breve della storia), e, infine, Papa Stefano VII.

Quest’ultimo fece riconoscere Lamberto imperatore visto la grande influenza che la famiglia degli Spoleto aveva presso il nuovo Papa e molte famiglie romane.
Sotto la pressione di Lamberto e Ageltrude, Stefano VII istituì il cosiddetto Sinodo del cadavere, un vero e proprio processo a carico dell’ormai defunto Papa Formoso.
Con la celebrazione di questo rito processuale a carico di Formoso, Stefano VII si riprometteva di cancellare il suo predecessore dalla storia, di estinguerne il ricordo (extiguere nomen).
Questa operazione distruttiva era chiamata damnatio memoriae
a quei tempi, era considerata un’operazione indispensabile per distruggere anche l’entità che sopravviveva al morto, una persecuzione raffinata, insomma. La sopravvivenza dopo la morte era legata alla “memoria” dei vivi verso i defunti. Riuscire a sopravvivere nella memoria, grazie alle proprie azioni illustri, voleva dire anche continuare a vivere dopo la morte. Cancellare i segni visibili della vita terrena, cioè la lapide, il nome inciso sui monumenti, le figure affrescate sui muri, voleva dire per i defunti distruggere il legame con la vita e precipitare nel nulla.
Il processo a Formoso fu dunque celebrato per questo motivo: la presenza del cadavere indiceva i presenti al rifiuto, alla ripulsa profonda verso quella che è da sempre l’immagine terrificante del disfacimento.

Il Concilio Cadaverico
Per l’occasione fu allestito un apposito trono. 
Una sorta di tribunale d’inquisizione ante litteram di fronte all’altare e dietro ai lunghi banchi coperti da un tessuto rosso che suonava sinistro. Affinché Formoso potesse discolparsi durante il processo e rispondere alle domande dei giudici, gli fu posto accanto un diacono perché parlasse in sua vece.
Quando veniva data la parola al cadavere, il diacono, assistente a latere, rispondeva, dicono i cronisti, in modo strano, con una voce rauca e profonda.

La curia giudiziaria si era sistemata ai lati del papa, dall’una e dall’altra parte, l’alto clero era fatto di teologi, cardinali, i prelati più importanti della curia ed i vescovi venuti da quasi tutta l’Italia. Tutti seduti in appositi stalli, ai lati, lungo la navata. Il banco dei giudici e quello dei prelati occupavano tre lati dello spazio. Al quarto lato c’era il popolo in piedi e ammassato. Nella fila davanti c’erano i più solleciti e i più curiosi che si erano presi il posto buono.

Il cadavere di Formoso era collocato in posizione seduta in mezzo al riquadro, legato su un trono nella sala del concilio, perché citato a comparire personalmente, ricoperto con sacre vesti pulite (sacratis vestimentis), dopo essere stato denudato.

Sul corpo nudo si era scoperto il cilicio ancora conficcato nelle carni. 
Il dorso ne portava le tracce simili ad una flagellazione. 
Un taglio più profondo all’emitorace sinistro tra la quinta e la sesta costola pareva procurato da una lancia. Il capo era ripiegato sulla clavicola, la fronte libera dalla mitria pontificia, aveva dei segni come di rami spinosi dell’acantus orientalis. Il corpo irrigidito sullo scanno pendeva da una parte come se l’opprimesse il braccio trasversale di un’invisibile croce. Il lezzo del cadavere rendeva irrespirabile l’aria dolciastra, invano contrastata dalle fumigazioni dell’incenso sui bracieri.
Era impossibile distogliere lo sguardo da quel volto, da quel corpo.

Di fronte a lui, un uguale seggio ospitava Stefano VII attorniato dai cardinali e dai vescovi, costretti dal papa a fungere da giuria per questa grottesca farsa. Il processo fu interamente dominato da Stefano VII, che, in preda a un furore isterico, si lanciò in una delirante filippica contro la salma, mentre il clero spaventato assisteva con orrore, lui gridava insulti e maledizioni contro il cadavere.
Di fianco ai resti di Formoso stava in piedi un giovane e terrorizzato diacono: il suo ingrato compito era quello di difendere il morto, ovviamente impossibilitato a controbattere. Di fronte alla furia del pontefice, il povero ragazzo restava ammutolito e tremante, e nei rari momenti di silenzio cercava di balbettare qualche debole parola, negando le accuse.

Formoso venne giudicato colpevole di tutti i capi contestatigli: 
il verdetto stabilì che egli era stato indegno d’essere nominato papa, che vi era riuscito soltanto grazie alla sua smodata ambizione, e che tutti i suoi atti sarebbero stati immediatamente annullati.
E così cominciò la carneficina: le tre dita della mano destra con cui Formoso aveva dato la benedizione vennero amputate e il cadavere fu trascinato per le strade di Roma e gettato nel Tevere. Il corpo percorse, per tre giorni, venti miglia trascinato dalla corrente del fiume, fino ad arenarsi su una sponda presso Ostia, dove, fu riconosciuto da un monaco e nascosto dai suoi fedeli finché fu vivo Stefano VII. Dopo la morte di questo, finalmente il povero Formoso venne inumato, per la seconda volta, nella Basilica di San Pietro, per volere di papa Teodoro II, che lo pose tra le tombe degli apostoli con una pomposa cerimonia e riabilitato fino quasi alla beatificazione.
Ulteriori processi contro persone decedute vennero vietati.

“Posso misurare il moto dei corpi, ma non l’umana follia.”
(I. Newton)

Pubblicato: 24 marzo 2015 in *Sangue e Calamaio* 

Di Michela Donvito

Le pape Formose et Etienne VII, dipinto di Jean-Paul Laurens, 1870.
Le pape Formose et Etienne VII, dipinto di Jean-Paul Laurens, 1870.


http://scenacriminis.com/2015/03/24/sinodo-del-cadavere-il-processo-piu-osceno-surreale-e-macabro-della-storia/

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