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giovedì 31 dicembre 2015

La Donna delle Sette Fonti. Come è nata la storia del romanzo? Una delle idee è venuta da una parte di me che considero una mia parte femminile e che ho chiamato Antonietta. E' una donna sarda, bruna, piccola di statura, timida e insicura che somiglia un po' a quelle donne sarde che andavano a lavorare come domestiche in continente. Antonietta si sente vittimista e perdente ma io so anche che è molto forte. Infatti uno dei miei sogni era trasformare Antonietta in una donna sicura di sé, competente e consapevole della propria bellezza. Ne ho fatto uno dei personaggi del libro anche perché volevo scrivere qualcosa di divertente su una donna come lei. Attraverso il personaggio di Antonietta cosa ha voluto dire? Attraverso Antonietta ho voluto mandare un messaggio soprattutto alle ragazze e ragazzi tra i 13 e 18 anni e stavo pensando anche alle mie due figlie. E' un messaggio sul coraggio. Le donne del romanzo, soprattutto Tia Nanna, spingono Antonietta a lottare contro la sua malattia e contro la rassegnazione ma soprattutto lottare per realizzare il proprio sogno.


Antonio Diego Manca, "La Donna delle Sette Fonti".
La protagonista è Maria Antonietta, una ragazza di 14 anni che non riesce più ad accettarsi e si sente “un fiore avvizzito ancora prima di sbocciare”. Quando viene a sapere di aver i giorni contati causa leucemia cade in depressione e sembra abbandonare ogni volontà di vivere.
Le cure “ufficiali” non danno risultati, così la madre decide di seguire il consiglio di una zia e contatta una “maialzas” ovvero “donna che si occupa di misteri (una guaritrice locale).
Inizia così il viaggio di Maria alla riscoperta di sé stessa,della sua voglia di vivere,ma soprattutto del valore dell’acqua che sgorga dalle fonti, riempie i laghi, scava passaggi tra le rocce e che ha segato la storia del popolo sardo.
“Come puoi pensare a guarire se non vuoi bene alla vita?”
“Annunciò che le avrebbe insegnato a dar da mangiare ai suoi sogni”.
E Maria imparerà ad amare la vita con tutte le sue gioie e le sue difficoltà, come imparerà ad amare la propria terra, a rispettare l’Acqua e lo spirito in essa contenuto.
“Puoi combattere per qualcosa o per qualcuno solo se l’ami.
Ma puoi amare davvero ciò che non conosci? E puoi conoscere davvero ciò che non ami?”
Assieme alla protagonista veniamo a contatto con luoghi liturgici ( Pozzo sacro di santa Cristina, Pozzo sacro di san Salvatore), leggende che si intrecciano alla storia (le battaglie dei Sardi Pelliti contro i Romani), saggi poeti (Melchiorre Murenau, Peppino Mereu) e luoghi di meditazione in cui troneggiano fonti o cascate curative.
Un cammino che porterà la giovane a un maggior rispetto verso la natura e soprattutto vero sé stessa.
http://www.nonsolocinema.com/La-donna-delle-sette-fonti-di.html

https://youtu.be/sg9SGD3d9Vo


Diego Manca, La Donna delle Sette Fonti.
di Angelo Da Fano, 12 Dicembre 2012
"Con la guida di Tia Nanna, Maria percorrerà e completerà un viaggio di scoperta e di crescita, visitando luoghi e fonti sacre"
La Donna delle Sette Fonti[1] è un romanzo, non è una storia reale. 
Tia Nanna e Zia Rosaria non esistono realmente, anche se esistono persone reali a cui Diego Manca si è ispirato. La Donna delle Sette Fonti è un romanzo di idee, di sentimenti: è un cammino verso la conoscenza di se stessi. È la storia della guarigione da una grave malattia di Antonietta che, nello scoprire se stessa, la sacralità della sua terra e delle sue acque, scopre il vero senso della salute e della vita.

Antonietta consuma una vita di insoddisfazioni, senza neanche avere il coraggio dei sogni di un futuro migliore. Dopo la scoperta della malattia, le donne della sua famiglia la presentano ad un’anziana, Tia Nanna, amica di vecchia data, che gestisce una trattoria e ha fama di guaritrice. L'incontro vede subito fronteggiarsi l’apatia da una parte e la volontà di dare senso alla vita dall’altra. L’educazione, o la rieducazione, della ragazza inizia, infatti, all’istante: Tia Nanna chiede ad Antonietta di cambiare nome e farsi chiamare Maria, nome che la rappresenta meglio, e le impone un nuovo modo di rapportarsi col mondo circostante, col cibo, con tutto. Ogni cosa dovrà essere vista con occhi nuovi e trattata con rispetto e riconoscenza. Ma il cambiamento maggiore dovrà essere in special modo con la natura: con l’acqua, i fiumi, le cascate e gli alberi. Maria dovrà trattarli come cose vive che la ascoltano e la capiscono. Saranno suoi confidenti e amici.

È la meravigliosa Sardegna antica e incontaminata, questa: quella dei boschi di querce, delle fonti e dei pozzi sacri. Con la guida di Tia Nanna, Maria percorrerà e completerà un viaggio di scoperta e di crescita, visitando luoghi e fonti sacre. Conoscerà la potenza vitale dell’acqua e ne assaporerà la sacralità, fisicamente e spiritualmente. Un cammino che la porterà alla guarigione dalla malattia, ma, soprattutto, al superamento di quell’incapacità di sentirsi responsabile che la stava allontanando dalla vita.

Così come la Torah è detta “Acqua di Vita” e “Sorgente di Vita”, nel libro di Diego è l’acqua che ci dà la spinta.
L’acqua è una protagonista di questo romanzo, come lo è il 'femminile', non solo perché i personaggi principali sono tutte donne, piuttosto perché l’interesse di Diego è la comunicazione, la trasformazione e la sperimentazione, caratteristiche, queste, tutte femminili.

Per Diego, ciò che è in natura ha un legame diretto con il mondo spirituale: ogni azione ha un effetto sui mondi superiori. E questo, per Diego, non è solo un modo di pensare. Egli ha sempre praticato e non solo studiato: si è interessato di buddismo, praticandolo per anni; si è interessato di sciamanesimo, ed è stato allievo di Hyemeyohsts Storm, seguendo la Via della Medicina degli Indiani d'America. Ora, sta studiando Kabbalah[2], imparando anche l’ebraico, per poter meglio comprendere e mettere in pratica millenni di insegnamenti.

Percorrere tante strade, ha permesso a Diego di comprendere una cosa: che tutto è uno. Ai livelli superiori tutte le pratiche vere dicono le stesse cose, anche se non tutti seguono lo stesso cammino. La Spiritualità è come una montagna, tutti puntano alla cima, che è una. Qualcuno, però, si ferma su un altopiano e si accontenta di vedere la cima dal basso; qualcun altro sale da sud, in mezzo agli alberi e con un cammino pieno di sole; altri ancora salgono da nord, col freddo e il vento. C’è anche chi cerca la via diretta, un 6° grado: chi resiste può arrivare prima, ma molti cadono. C’è infine chi, guardando la cima coperta di nuvole e non vedendola, si chiede: “ma c’è una cima?

In questo libro ci sono molte di queste esperienze, ma forse è proprio la visione kabbalistica della vita quella che gli si confà maggiormente.

La donna delle sette fonti, Diego Manca, Ed. Condaghes, 2007.
La Donna delle Sette Fonti è, infatti, un romanzo 'terrestre', ossia rivolto all’ingaggio totale con questo mondo, al non annullare i desideri, ma a cambiarne il fine, al considerare ogni oggetto come sacro, santificando le cose con la ritualità del quotidiano, differentemente dal 'celeste' di alcune filosofie orientali, tese a lasciar andare l’attaccamento a cose e persone e al superamento della sofferenza esistenziale. Parafrasando un detto del Gaon di Vilna , grande saggio del 18mo secolo, il fine dell’ebraismo e della Kabbalah non è quello di trascendere questo mondo, ma quello di elevarlo, così perfezionando se stessi.

Ogni concetto in questo libro è intriso di idee kabbalistiche. Così come la Torah è un cammino di elevazione dell’Uomo e di guarigione dell’Anima, il libro di Diego Manca è un cammino di guarigione e di ritorno al sé. Così come la Torah è detta 'Acqua di Vita' e 'Sorgente di Vita', nel libro di Diego è l’acqua che ci dà la spinta. Il Creatore è infinito e immutabile. L’uomo, che vive in un mondo finito e mutabile, usa la preghiera come veicolo di comunicazione ed elevazione: la preghiera è la scala che mette in contatto il mondo spirituale con quello materiale. Ma pregare, in ebraico, è un verbo riflessivo, poiché la preghiera è rivolta per prima a noi stessi. Essa cambia noi stessi, non il Creatore. Siamo noi che dobbiamo risalire la scala dopo la caduta sulla Terra.

Note

1. Antonio Diego Manca, La Donna delle Sette Fonti, Condaghes Edizioni, Cagliari 2007.

2. La Kabbalah è la dimensione mistica dell’Ebraismo, che fornisce una prospettiva della realtà spirituale da cui deriva qualunque cosa nell’universo. Capire queste forze e i loro effetti ci consente di percepire l’unità con la Creazione e usare questa conoscenza per guidarci in tutti gli aspetti della vita. La parola Kabbalah significa 'ricezione', 'accettazione' e anche 'parallelo'. L’Insegnamento, infatti, viene ricevuto da Mosè, ma non basta riceverlo, bisogna accettarlo, mentre il terzo significato è nella ricerca di un’unica Legge, che metta in parallelo mondo spirituale e materiale.

Nella Donna delle Sette Fonti (di Diego Manca, Ed. Condaghes, 2007, ndr), non ci curiamo attraverso il contatto fisico con l’acqua, ma innescando l’effetto guaritivo con la consapevolezza del nostro sé, riconoscendo il nostro ruolo e avendo il coraggio di porci in gioco e di risalire la scala, gradino per gradino.

«Non basta!» fu la risposta di Tia Nanna. «Ti devi impegnare! Se stai facendo sul serio, devi tornare all’albera e le devi promettere che t’impegni a guarire. Va’!» (D. Manca, La Donna delle Sette Fonti, p. 38)

Non solo ci dobbiamo impegnare nella volontà, nell’intenzione che mettiamo nelle cose: nella Kabbalah, la santità della vita va trovata in ogni nostro atto. Ogni cosa è importante e degna di rispetto. Ogni atto è fondamentale e va vissuto nel momento.

«Devi imparare ad apprezzare e a trattare con rispetto le cose che mangi», continuò Tia Nanna. «Quando tocchi i ravioli, o un pomodoro, o una foglia di basilico, o un pezzo di pane oppure bevi un sorso d’acqua, pensa che sono tutte cose che ti fanno vivere, che fanno vivere te». (p. 44)

Tia Nanna continuò a mettere i ravioli nell’acqua bollente, con tale concentrazione e attenzione che sembrava si fosse dimenticata di lei. (p. 45)

Non esistono attività meno importanti: santificare ogni nostro atto significa fare il nostro lavoro con coscienza. Questa è una delle intuizioni più profonde della Kabbalah: ogni cosa nella vita ha un senso, perché ogni cosa è stata creata per un motivo, secondo un progetto. Per questo nell’ebraismo ogni precetto è minutamente descritto, è un’azione consacrata. La ricerca della perfezione è sempre presente in chi segue questa via.

Le spiegò allora che se non faceva bene un lavoro, significava che non stava rispettando se stessa, poiché non ci sono lavori belli o brutti e che anche lavando i piatti lei era sempre lei. Cercare di svolgere qualunque attività il meglio possibile era un modo per rispettare se stessa: è questo che doveva capire, ad ogni costo. (p. 91)

«I cuochi a volte preparano male un piatto di fagioli e invece preparano con attenzione un piatto di aragosta», le disse un giorno Zia Rosaria, vedendola sbucciare svogliatamente delle patate. «Devi imparare a preparare qualunque cibo con il massimo impegno e attenzione. Diversamente, anche se non te ne renderai conto, avrai la tendenza a umiliarti con chi ritieni superiore a te e a trattare con sufficienza chi consideri inferiore.» (p. 136)

E per cambiare, Antonietta deve iniziare cambiando il suo nome in Maria. Perché Maria è il nome che rappresenta il suo “io”.

«Ti volevo dire che da ora, per tutti, lei è Maria!» le disse Tia Nanna. (p. 47)

Il leggendario kabbalista del sedicesimo secolo, Arizal [1], diceva che la natura essenziale di una persona poteva essere scoperta analizzandone il nome. Ricordiamo che il nome ebraico per la parola “anima” è neshamà, che a sua volta contiene la parola shem, “nome”: l’essenza è contenuta nel nome. È come un recipiente che è definito dal suo contenuto: se è vuoto, diciamo: «passami quel recipiente», ma se contiene del latte, diciamo: «passami il latte».

Nell’ebraismo, quando una persona è malata, è in uso dargli un nome aggiuntivo, come buon auspicio. Ad esempio Chaim, vita, o Rafael, curato da Dio. E, nella Bibbia, ogni volta che un personaggio cambia nome, è un segno di trasformazione spirituale: è come se fosse rinato.

Il Popolo della Torah è il Popolo che segue le vie indicate dal Nome. 
Iddio è HaShem: il Nome. Adamo conosce e ha potere sugli animali perché gli dà un nome: 
il cane è chelev, tutto-cuore, mentre il leone è aryeh, che incute timore e la cicogna è chasidà, amore.

Tia Nanna le rispose che era una pianta di leccio e le annunciò che, ora che sapeva come si chiamava, poteva andare a piantarla in un posto speciale, poiché quella pianta sarebbe stata la sua amica per tutta la vita. (p. 73)

"E chi è Maria? Maria è Miriam, che significa acque amare".
E chi è Maria? Maria è Miriam, che significa “acque amare” ma che, permutando le lettere, si può leggere “acque elevate”, mentre nell’etimologia egizia significa “la madre del mare”. Miriam è quindi legata alle acque: nel deserto, infatti, è colei che disseta il popolo con il suo pozzo, al punto che, alla sua morte, Mosè dovrà colpire la roccia, per trovare dell’acqua. Inoltre, come donna, Miriam è legata alla praticità, alle incombenze giornaliere, all’hic et nunc. È singolare l’episodio dell’inno al mare, intonato da Mosè appena attraversato il Mar Rosso. Anche Miriam e le altre donne celebrano la gloria del Signore per ciò che è appena avvenuto e, mentre nel suo canto, Mosè usa il verbo futuro, Miriam usa il presente: il maschile è legato alla progettualità, il femminile è calato nel momento.

Ed è l’acqua che guarisce, l’acqua, che in ebraico si dice maim, mentre cielo è shamaim, ovvero le acque lassù. Il Creatore divise le acque “di giù” dalle acque “di su”, perché all’origine tutto era acqua. Dall’acqua si è formata la vita, tanto che un bimbo nasce con la rottura delle acque; il diluvio purifica la terra; gli Ebrei attraversano le acque del Mar Rosso per uscire dalla schiavitù. L’attraversamento delle acque riguarda sia il trapasso sia il vedere la luce. Ed è il pozzo che riunisce le acque di su, piovane, con le acque sotterranee della terra: le acque superiori rappresentano la saggezza e quelle inferiori l’emotività.

Pozzo” in ebraico è beer, stesse lettere [2] di barà che significa “creò”, la seconda parola della Torah, da cui deriva briut, “salute”. Guarire è come essere rigenerati, ricreati. La salute, quindi, è legata all’Inizio, ma anche al pozzo, nel senso che, collegando costantemente il basso con l’alto, il creato con la fonte creativa, si ottiene il benessere.

Il pozzo di Miriam è il simbolo della sapienza. Il grande kabbalista Arizal non mise mai per iscritto il suo sapere: fu il suo discepolo rabbi Vital [3] a trascrivere le sue lezioni. Ma all’inizio non riusciva a capire nulla di quello che il maestro gli insegnava. Allora l’Arizal lo portò a bere l’acqua del pozzo di Miriam presso Tiberiade e, da allora, rabbi Vital fu in grado di comprendere ogni insegnamento e di trascriverne le parole.

Il pozzo è saggezza, perché l’acqua è legata alla verità: maim si scrive in ebraico con la lettera mem (מ), che è la lettera al centro dell’alfabeto ebraico, mentre verità si dice emet, che si scrive אמת, dove la prima lettera da destra [4] è l’alef, prima lettera dell’alfabeto, la terza è la tav, ultima lettera dell’alfabeto, e al centro c’è la mem. L’alef rappresenta l’Uno, il Divino, lo spirituale, mentre la tav è il terreno, l’esistente, la materia; la mem è al centro, come il perno della bilancia. Se togliamo da questa parola il terreno, cioè la tav, otteniamo אמ, che si legge em e significa madre, ma anche origine e utero, cioè il Soffio Divino che ha partorito l’uomo; e se togliamo il collegamento col Divino, cioè l’alef, resta מת, met, che è morte. Non c’è vita senza verità e non c’è vita senz’acqua.

È significativo che la Torah sia detta “Insegnamento di Verità”, ma anche “Sorgente di vita” e “Acqua di vita”.

Note

1. Rabbi Isaac Luria (1534 – 1572), conosciuto anche come il santo Ari, il santo leone, è considerato tra i maggiori e più celebri pensatori del misticismo ebraico. Esponente della scuola kabbalistica di Safed, fu l’iniziatore della Kabbalah Lurianica, la cui influenza è ancora preponderante nelle correnti del mondo ebraico, senza eccezioni.

2. L'ebraico scritto non ha vocali, queste sono inserite mentalmente da chi legge, a seconda del contesto. Per cui, “parole con stesse lettere” significa parole con uguali consonanti. Inoltre, a differenza che in italiano, parole con uguali consonanti hanno significati legati tra loro.

3. Rabbi Chaim ben Yosef Vital (1543 - 1620) fu uno dei maggiori esponenti della scuola kabbalistica di Safé. Allievo prediletto del Santo Ari, gli successe alla sua morte e cominciò a scrivere tutto quello che aveva imparato dal suo maestro.

4. L’ebraico si legge da destra a sinistra.

Continua sul n.3 de L'Eterno Ulisse


http://www.eternoulisse.it/percorsi_guarigione/donna_sette_fonti_riflessioni_kabbalistiche_prima_parte.html

Dal romanzo: "La Donna delle Sette Fonti"
di Antonio Diego Manca

Élighes Uttiòsos (Lecci gocciolanti),
Qualche chilometro dopo Santulussurgiu, Tìu Brotu disse di svoltare a destra in una stradina che si inerpicava su per la montagna. A dire la verità non era neanche una stradina: era poco più di una mulattiera e, con la piccola vettura, ebbero non poche difficoltà ad arrivare fino in cima a un cucuzzolo; da qui proseguirono a piedi. Lucia aveva la busta di plastica con dentro la piantina e una paletta e insieme a Maria si era incamminata dietro a Tiu Brotu che, nonostante l'età - diceva di avere 83 anni -, si era avviato con passo rapido e deciso lungo uno stretto sentiero. Maria dopo pochi minuti si sentiva già molto stanca. In lontananza si vedeva il mare e l'azzurro delle sue acque dava un senso di serenità che ripagava di tutte le fatiche fatte per arrivare fin li. Dopo una decina di minuti di marcia, Tìu Brotu si fermò e rivolto a Maria le indicò col bastone la costa in lontananza."Vedi quel paese laggiù, vicino al mare?" "Si." "Quella è Santa Caterina di Pitinnuri e il paese vicino è S'Archittu. In mezzo c'è una collinetta, la vedì?""SÌ, si.""Tia Nanna mi ha incaricato di dirti che in quella collinetta c'era la città di Cornus e li i Sardi Pelliti hanno combattuto contro i Romani."Senza aggiungere altro il vecchio riprese a camminare. Le due donne rimasero ancora un momento a osservare il magnifico panorama e poi gli andarono dietro. Maria e Lucia non videro subito la sorgente. Alcune piante di leccio ai lati del sentiero avevano formato una specie di grotta verde, dalla cui volta pendevano brandelli di muschio. Seminascosta dalla vegetazione, l'acqua sgorgava silenziosamente dalla parete di tufo. Maria ebbe l'impressione che la natura trasudasse il liquido prezioso, che gocciolava a terra formando una piccola pozza, da dove defluiva, attraversando il sentiero, per dare vita a un ruscelletto che iniziava cosi il suo cammino verso il mare. Tìu Brotu fece notare che il bosco intorno a loro era composto soprattutto da lecci: la sorgente si chiamava infatti Élighes Uttiòsos, che in sardo significa Lecci Gocciolanti. Il vecchio pastore le invitò a dissetarsi bevendo lui stesso con le mani a coppa. Si era tolto il cappello e beveva a piccoli sorsi, gustando la bontà e la freschezza dell'acqua. Erano quasi le undici del mattino e faceva già molto caldo. Tìu Brotu si allontanò, dicendo che le avrebbe attese vicino alla macchina. Lucia consigliò alla sua giovane amica di cercare un posto adatto per trapiantare la piantina di leccio. Maria aveva notato una piccola radura attraversata dal ruscelletto proveniente dalla fonte e scavò una buca vicino al bordo, in modo che le radici potessero avere accesso all'acqua facilmente. Tolse la piantina dal vaso, la mise nella buca e copri le radici con la terra. Con le mani spruzzò un po' d'acqua intorno alla piantina e poi chiese a Lucia che cos'altro doveva fare."Sta' un po' con lei," le consigliò la donna, "poi cercati un posto all'ombra e pensa a ciò che ti ha detto di fare Tia Nanna." Quindi si allontanò e andò a sdraiarsi all'ombra di una quercia. Maria si guardò intorno e decise di sedersi accanto la fonte, da dove poteva vedere anche il mare. Chiuse gli occhi e incominciò a visualizzare la sua personale battaglia contro la malattia. Quando li riapri, il sole era alto. Aveva le palme delle mani cosi calde che la sensazione era quasi spiacevole, ma accanto alla fonte l'aria era fresca. Si avvicinò alla sorgente, appoggiò le mani sul muschio bagnato e la fonte le trasmise, insieme a una deliziosa sensazione di freschezza, una gioia inspiegabile, una voglia di cantare, ridere, correre, che non provava ormai da tanto tempo. Le fu grata di quel dono, perché questo fu il suo pensiero: che la fonte le avesse regalato qualcosa, forse il suo amore.
http://lnx.montaltomarche.it/montalto2/Arknews/Recensioni/diego_manca.php



"La Donna delle Sette Fonti"
Intervista all'autore Antonio Diego Manca
di Sandro Pintus

Come è nata la storia del romanzo?
Una delle idee è venuta da una parte di me che considero una mia parte femminile e che ho chiamato Antonietta. E' una donna sarda, bruna, piccola di statura, timida e insicura che somiglia un po' a quelle donne sarde che andavano a lavorare come domestiche in continente. Antonietta si sente vittimista e perdente ma io so anche che è molto forte. Infatti uno dei miei sogni era trasformare Antonietta in una donna sicura di sé, competente e consapevole della propria bellezza. Ne ho fatto uno dei personaggi del libro anche perché volevo scrivere qualcosa di divertente su una donna come lei. 

Attraverso il personaggio di Antonietta cosa ha voluto dire?
Attraverso Antonietta ho voluto mandare un messaggio soprattutto alle ragazze e ragazzi tra i 13 e 18 anni e stavo pensando anche alle mie due figlie. E' un messaggio sul coraggio. Le donne del romanzo, soprattutto Tia Nanna, spingono Antonietta a lottare contro la sua malattia e contro la rassegnazione ma soprattutto lottare per realizzare il proprio sogno.

Il suo romanzo è ambientato in Sardegna.......
L'ho voluto ambientare nella terra dove sono nato, uno dei luoghi che credo di conoscere meglio anche se poteva essere ambientato in qualsiasi altra parte perché è un romanzo sull'Acqua. Da quando, nel 1964, ho lasciato il mio paese Santulussurgiu per emigrare, lo ricordo come il paese dell'Acqua. Tutta l'area è infatti famosa per l'abbondanza delle sue Acque. Quando tornavo per le vacanze la prima cosa che facevo era bere l'acqua delle fonti, un gesto che mi riportava a casa. Negli anni Sessanta ci fu un grande incendio che distrusse gran parte dei boschi di querce e lecci. L'anno seguente l'incendio, quando tornai in paese, andando a visitare le fonti per berne l'Acqua vidi che ne rimaneva un sottile filo a causa del terribile incendio. Tutto il paese si rese conto che l'acqua era quasi esaurita e che tesoro aveva perso. I pastori, per la prima volta nella storia del posto, si dovettero portare l'acqua per abbeverare il bestiame.

Il romanzo è dedicato a tutte le Acque della Terra ma anche a un gattino selvatico, perché?
L'ho voluto dedicare a tutte le Acque. La storia contiene informazioni sull'Acqua, sulla sua sacralità e la sua bellezza. Gli antichi popoli della Sardegna conoscevano la sua preziosità al punto che l'adoravano attraverso deità e templi come i pozzi sacri. 
Mentre raccoglievo il materiale per scrivere il romanzo ebbi un sogno molto forte: ero a San Leonardo di Siete Fuentes, in un boschetto di querce. Vidi un gattino selvatico grigio tigrato e lo presi anche se cercava di scappare. Volevo portarlo a casa ma dopo essermi allontanato mi chiesi cosa stavo facendo. Stavo portando a casa un gattino selvatico per addomesticarlo? Decisi che doveva rimanere selvatico e lo lasciai andare nel bosco. Questo sogno fu molto importante e mi diede una grande carica perché vidi la parte selvatica in me che non deve essere addomesticata. Qualche giorno dopo iniziai a scrivere il romanzo.

Il romanzo è introdotto dallo scrittore indiano americano Hyemeyohosts Wolf Storm, autore del libro "Sette Frecce"...
Wolf Storm è un amico che conosco da oltre 20 anni. Lui mi ha spinto a scrivere e mi ha fatto dono, come introduzione al libro, di una "Preghiera alle Sacre Acque". Penso che non ci possa essere migliore introduzione di questa per un romanzo dedicato all'Acqua. Attraverso Wolf Storm ho imparato scoprire la mia terra e ad amarla. E stato un processo durato anni e io mi sono innamorato della Terra come di una bella donna. Tramite Wolf Storm ho scoperto la Terra come un essere vivente e ho imparato ad amarla.

Ogni capitolo è introdotto da una poesia, perché questa scelta?
Ho scelto una poesia perché, nel "terreno" che compone il romanzo, è come un solco lasciato da un aratro nel quale può crescere qualcosa che è stato seminato. In questo modo, leggendo una poesia di Garcia Lorca o un Haiku, il lettore viene guidato al capitolo che segue.

Cosa vorrebbe dai lettori del suo romanzo?
Mi piacerebbe che leggendo il romanzo "scoprissero" lo Spirito dell'Acqua. I nostri antenati conoscevano questo Spirito e andavano alle fonti per curarsi ed ispirarsi. Se alcuni dei lettori dopo aver letto il libro riuscissero trovare questo Spirito per me sarebbe un dono immenso. Sarebbe questo il successo del mio romanzo. http://www.catpress.com/dedpla/acque/intervsw.htm


Il villaggio di San Salvatore si trova nel territorio comunale di Cabras. Si tratta del vecchio villaggio western di San Salvatore e fu utilizzato per rappresentare un villaggio del New Mexico,dove era ambientata la storia raccontata nel film "Giarrettiera Colt". Attualmente il villaggio non esiste più. Verso il 1990/91 fu smatellato e restituito allo stato originario come era prima del 1967.

E' stato girato il film wester "Giarrettiera Colt", con Nicoletta Machiavelli.

https://youtu.be/e5yZtdp0q54



https://youtu.be/KZeYnOx_CyY
Il villaggio di San Salvatore di Sinis si trova nel Comune di Cabras, provincia di Oristano. 
E' costituito da un quadrilatero di piccole abitazioni in arenaria o in mattoni di terra cruda (ladrini in cabrarese) che prendono il nome di cumbessìas o di muristènis. In passato venivano utilizzate dai proprietari non solo durante il novenario, ma anche nei periodi della semina e della raccolta del grano.
Al centro del villaggio, affacciata su una suggestiva piazza in terra battuta punteggiata da pochi alberi, spicca la chiesetta di San Salvatore, edificata nel secolo XVII sopra un ipogeo di origine prenuragica dedicato al culto delle acque e interamente scavato nella roccia, nel quale in epoca romana si adoravano Venere, Marte ed Ercole Salvatore. L'edificio ecclesiastico di San Salvatore ha costituito nei citati casi (come nelle altre frequenti attestazioni sarde) il nucleo di partenza dell'abitato, formatosi nel tempo per servire le esigenze di novenanti nel periodo che precede la festa annuale.
La trasformazione (parziale) dell'aspetto di San Salvatore di Sinis risale intorno alla metà degli anni sessanta e si deve all'intraprendenza di una società privata, la "Corronca Company" che, poco dopo la metà degli anni sessanta, nel clima già decadente dei cosidetti "spaghetti western", tentò la trasformazione del villaggio temporaneo in un centro messicano per gli ultimi film western che la cinematografia nazionale ricordi. A testimonianza di quell'epoca residuavano fino al 1990 un arco posticcio, bianco di calce, e le facciate di un saloon e di altri edifici pseudoamericani prospettanti sulla piazza della chiesa, poi distrutti da un incendio.
Oggi il villaggio di San Salvatore di Sinis ha in gran parte recuperato la sua fisionomia e la sua funzione originarie, e la festa di San Salvatore costituisce uno degli appuntamenti più importanti per l'intera comunità cabrarese.
(fonte video: Sardegna DigitalLibrary; fonte descrizione costadelsinis.it)


https://youtu.be/lQlmP8iu3L0

Pubblicato il 06 ott 2013
La chiesetta dedicata a Cristo Salvatore è stata costruita sopra l'ipogeo di San Salvatore, un luogo di culto pagano costruito sottoterra attorno a un pozzo di acque medicamentose, dove si svolgevano le cerimonie legate al culto delle acque in età nuragica. Lo stato attuale dell'ipogeo risale al IV secolo d.C. e vi si notano affreschi neri sul calcare bianco a rappresentare divinità legate al culto delle acque


IL WESTERN IN SARDEGNA
C’è un piccolissimo paese in Sardegna, accanto alla meravigliosa penisola del Sinis, a pochi chilometri da Cabras (OR), che vi farà fare un tuffo nel tempo e nello spazio: San Salvatore di Sinis è quanto di più vicino al Far West esista in Italia, e non a caso è stato lo scenario di numerosi ‘spaghetti western’ dei tempi d’oro. Il borgo è scarsamente abitato, e fino agli anni ’90 la sua conformazione era ancora più western di quanto lo sia oggi.

PaesiOnLine:
Pensando al Far West, le prime immagini che vengono in mente sono quelle di piccoli villaggi dalle case in legno sperduti nel cuore più selvaggio dell'America.
Non tutti sanno, però, che anche in Italia c'è un angolo di Far West, e precisamente in Sardegna. La piccola frazione del comune di Cabras, San Salvatore di Sinis, è uno di quei luoghi dove sembra davvero di essere sul set di un film western, perchè la sua è una struttura fortemente evocativa. L'intero centro è costituito, infatti, da una serie di piccole case - che da queste parti sono chiamate cumbessias - costruite alla fine del XVII secolo.
Pur essendo state edificato per funzioni prevalentemente rurali e pratiche, divennero famose (insieme a tutto l'abitato) tra gli anni Sessanta e Settanta. Perchè proprio in quel periodo?
Perchè quelli sono gli anni d'oro del western all'italiana, che da subito coinvolse il pubblico, il quale iniziò a subire il fascino dei luoghi che ricordavano le location dei suoi film del cuore.Pubblicato il 06 ott 2013
La chiesetta dedicata a Cristo Salvatore è stata costruita sopra l'ipogeo di San Salvatore, un luogo di culto pagano costruito sottoterra attorno a un pozzo di acque medicamentose, dove si svolgevano le cerimonie legate al culto delle acque in età nuragica. Lo stato attuale dell'ipogeo risale al IV secolo d.C. e vi si notano affreschi neri sul calcare bianco a rappresentare divinità legate al culto delle acque


https://youtu.be/a2J0UAMeqw4


Il villaggio di San Salvatore si trova nel territorio comunale di Cabras. Si tratta del vecchio villaggio western di San Salvatore e fu utilizzato per rappresentare un villaggio del New Mexico,dove era ambientata la storia raccontata nel film "Giarrettiera Colt". Attualmente il villaggio non esiste più. Verso il 1990/91 fu smatellato e restituito allo stato originario come era prima del 1967.




la prima volta ci sono stata nel 1974 in viaggio di nozze, in quanto mio marito nato ad arborea, e l'ho trovato magnifico con il saloon ancora in attività ed il pozzo davanti, ho tutte le foto dell'epoca, poi ci sono ritornata nel 1979 con il bambino piccolo (ed anche di allora ho tutte le foto con ancora esistente il pozzo) da allora tutti gli anni in ferie ci tornavamo ed abbiamo visto la trasformazione anche senza il saloon comunque sempre bellissimo e suggestivo sia il paesino, la chiesetta con la cripta bellissima, sia il paesaggio circostante



Era bello ba vedere ma non consono con le antiche carateristiche del villaggio ...se non fosse stato per l'incendio il comune avrebbe proveduto a buttarlo giu'...io sono di Cabras ma la delusione e stata tanta quando ho visto le fiamme che finivano di divorare il vecchio e caro Saloon ....




Anche io ho pianto tanto anche se non sono di Cabras..era bellissimo....




Il paese esiste ma non c'é più il "vestito" Western :(
non ho mai capito perché lo abbiano smantellato,
era un'attrattiva, tornando dal mare era bello fermarsi a bere qualcosa



Non è stato smantellato, ma gli hanno dato fuoco diversi anni fa.
《parlo del saloom, dove oltre al bar c'era anche l'angolo carcere, e uffici postali. 》




Il saloon lo hanno distrutto anni fa ..le cose belle hanno vita breve spesso .. per colpa del ignoranza umana

POPOLO SARDO:
Avete proprio ragione, non esiste più, ecco cosa ho trovato: Si trova nel territorio comunale di Cabras Si tratta del vecchio villaggio western di San Salvatore di Cabras. Attualmente non esiste più in quanto verso il 1990/91 fu completamente smantellato e restituito allo stato originario come era prima del 1967. Un boom del filone cinematografico degli spaghetti-western e tutto l’ambiente intorno alla chiesa, con le cumbessias, fu utilizzato con opportuni aggiustamenti per rappresentare un villaggio dell’Arizona/New Mexico, dove era ambientata la storia raccontata nel film “Giarrettiera Colt”. Passato di moda quel genere cinematografico non fu più utilizzato e rimase solo un’attrazione per curiosi, che trovavano il loro angolo di America, saloon (anzi Posada) incluso. Il posto però merita una visita per ammirare gli splendidi affreschi, di epoca paleocristiana, custoditi nella cripta della chiesetta di San Salvatore, edificata su un più antico luogo di culto precedente l’era cristiana e dedicato alle divinità della mitologia classica.


Mirella Farioli:
Quando sono venuta la prima volta nel lontano 1977 c'era ancora il pozzo e il saloon ma negli anni 90 li hanno tolti comunque la corsa degli scalzi la fanno ancora partire da li


Manuela Dancardi:
questo era il bar stile western che è stato bruciato io sono una di quelle persone che possono sentirsi fortunati di averlo visto

Antonio Sanna:
Non è stato smantellato, ma incendiato, da qualche personaggio che dovrebbe essere stato all'interno, al momento del rogo...........

Sonia Spatagarrau:
Io ho avuto la fortuna di vederlo quando ancora c'era qualcosa. Meraviglioso

Federico Sala
negli anni 60 San Salvatore di Sinis è stato trasformato in un paesino western per girare dei film, l'ambientazione originale assomigliava nettamente a un paesino messicano dell'800. Finite le riprese hanno lasciato le mura, il pozzo e il saloon per ricordare ciò e magari portare un po di turisti.
Le casette, dette "cumbessias" sono state edificate verso la fine del XVII secolo , quindi molto più antiche del saloon e dell'ambientazione western. Quattro cose non si possono perdere in questo paesino meraviglioso: la corsa degli scalzi che si fa i primi di settembre, i muggini arrosto fuori dalle mura del paese, l'ipogeo di San Salvatore, dove si possono trovare iscrizioni anrichissime, (romane, arabe, puniche e pagane), e la tranquillità e il senso di benessere che un paesino così può dare. Ah non dimenticatevi di andare da "Abraxas" a mangiare la frittura!!! Localino pseudowestern molto carino e pieno di gatti! July Black


Rachele Camedda
Da visitare la prima settimana di settembre dove il paese in festa si anima. Con relativa corsa degli scalzi nel primo sabato e domenica di settembre. Davvero suggestivo..

Maria Franca Solinas
Il saloon e tutto ciò che riguardava la sceneggiatura degli spaghetti western, compreso un pozzo, non esiste più da almeno una ventina d'anni
San Salvatore non è un paesino, come si intende nel senso comune del termine, ma il luogo dove tra fine agosto e primi di settembre si radunano parte degli abitanti di Cabras per officiare la novena dell'omonimo santo, che altri non è che Cristo il Salvatore, e dove il primo sabato di settembre viene portata la statua del santo dalla chiesa di Santa Maria Assunta dagli uomini vestiti di un saio bianco, di corsa nella campagna del Sinis. L'indomani la domenica la stessa statua viene riaccompagnata nello stesso modo nella sua chiesa


Davide Sanna
sotto la chiesetta, si trova un antico tempio nuragico dedicato al culto delle acque, che in epoca classica è diventato un tempio dedicato a Ercole Soter. In epoca cristiana, il culto è stato "adeguato" al nuovo credo e Ercole Soter (Salvatore) è diventato san Salvatore (Gesù Cristo).


Maria Teresa Loddo
Nel saloom si potevano acquistare i sombreri. Peccato!
Però il paesino c'è e soprattutto bello da visitare l'ipogeo dove si trova il pozzo dove veniva pratico il culto delle acque dove si respira un certo alone di magia


Stefano Muscas
Peccato che hanno distrutto il saloon con un incendio e ormai non è rimasto più nulla


Antonello Cossu
Numerosi film western?
Uno solo negli anni sessanta: Giarrettiera colt.
Di recente "La leggenda di Kaspar Hauser"


Stefano Muscas
Hanno girato "giarrettiera colt " un vecchio wester con la grande nicoletta macchiaveli



Pubblicato il 21 mar 2014
Creare un' emozione. Poche cose come il cinema riescono farlo. Allora, non si capisce perché l'opportunità offerta da San Salvatore non è stata ancora colta da nessuno.
Un villaggio solitario, ma non abbandonato, nel mezzo del meraviglioso Sinis, utilizzato negli anni sessanta e settanta del Novecento come set cinematografico, è un' occasione.
In Spagna, nella regione di Almeria, i villaggi una volta utilizzati come set cinematografici, sono attivi e attirano ogni anno migliaia di turisti, anche in occasione dell'annuale festival cinematografico dedicato al genere western (http://qr.net/qfN3). A San Salvatore, all'inizio degli anni 90, un incendio mandò in cenere i vecchi set western, e quell'esperienza cadde rapidamente nell'oblio.

Ora, chiunque si aggiri per San Salvatore (al di fuori dell'estate), lungo la strada per la spiaggia di Is Arutas, respira aria di desolazione. Visitare l'ipogeo, frequentato già in epoca neolitica e con pozzo dedicato al culto delle acque, sacro a nuragici, punici e romani, è difficile: mancano indicazioni sufficienti ( questa la situazione il giorno di ottobre della visita). Il proprietario dell'Abraxas, unico locale aperto di San Salvatore, lamenta l'impossibilità di dar luogo a qualsiasi iniziativa e manifesta l'intenzione di chiudere. Alle pareti della locanda, solo qualche manifesto del Cagliari campione d'Italia e di Che Guevara, ma nessuna traccia dei vecchi set, nessuna foto d'epoca, ritaglio di giornale, locandina di cinema.

Ma davvero, in quasi 50 anni, a nessuno è mai venuto in mente di organizzare a San Salvatore, un piccolo museo del cinema isolano, con la storia di tutti i film girati sull'isola, contributi filmati, foto, interviste, memorabilia, documentari con testimonianze della produzione cinematografica in Sardegna? E l'idea di un festival che prenda spunto dall'epopea del western all'italiana per raccontare quello che la fantasia e la creatività possono suggerire, in tema di cinema e cultura?

Suvvia, sappiamo tutti (o forse no) che Nicoletta Machiavelli, protagonista dello spaghetti-western Giarrettiera Colt, girato interamente nel Sinis nel 1969, è un'icona di Quentin Tarantino. Per favore amministratori di Cabras e del Sinis, usate l'immaginazione, usate la fantasia, il resto l'avete già.

**«Travolti da un insolito destino nell'azzurro mare d'agosto» fu girato nel 1974, sulla costa orientale. Nel 40° anniversario, qualcuno ha pensato di sfruttare l'occasione a fini turistici, inventando itinerari sui luoghi del film, anzi dei film, considerato anche il più recente remake con Madonna?
Il West, quello di cowboys e indiani, proprio qui, in piena Sardegna. Magari non ci crederete, ma in realtà esiste! Un vecchio paese disabitato dove il vecchio West rivive o almeno potrebbe farlo se questo “luogo magico” venisse sfruttato meglio. Di cosa stiamo parlando? Di San Salvatore di Sinis, paese che in passato veniva usato come set cinematografico. Oggi ve lo mostriamo in questo breve video.
https://sardegnaremix.com/2014/05/02/sapete-che-in-sardegna-ce-un-paese-del-vecchio-west-guardate-qui-il-video/

https://youtu.be/xiEJ0nKm7R8













L’ipogeo di S.Salvatore a Cabras (g.v.)
“a San Salvatore i cristiani non hanno cancellato il segno dell'antico culto ma hanno costruito, rispettosamente, un proprio altare davanti al pozzo nuragico….” (Cinzia Oliveri)



Isola Dei Nuraghi Sardegna:
Il piccolo villaggio di San Salvatore prende vita nelle ultime settimane d'agosto diventando lo scenario dell'emozionante manifestazione conosciuta come "Corsa degli scalzi", da considerarsi di particolare rilievo per il contesto in cui si svolge e per il fervore con cui è vissuta.
A partire dalle ultime settimane d'agosto, un gruppo di donne vestite del tipico costume di Cabras e a piedi nudi, porta in processione il simulacro del Santo dalla chiesa Maggiore di Cabras al santuario di San Salvatore, laddove i riti religiosi si susseguono per nove giorni.
La corsa vera e propria ha inizio all'alba del primo sabato di settembre. Procurato "s'abidu" (abito di confraternita) i giovani si danno convegno nel sagrato della chiesa Maggiore di Cabras, da lì il simulacro viene portato in processione fino alla periferia del paese. A questo punto "is curridoris" (si pronuncia "curridorisi" e significa corridori) legano "s'abidu" all'altezza della vita, coprono la lettiga che racchiude il simulacro del Santo e iniziano la corsa fino al villaggio di San Salvatore di Sinis. Una "muda" composta da due giovani corridori tiene la portantina col simulacro e nessuno dovrà tentare di superarla.
Ogni cento metri si danno il cambio e durante il percorso gridano "Viva Santu Srabadoi" (San Salvatore). Arrivati al villaggio "is curridoris" vengono accolti da centinaia di fedeli e dai turisti.
Il medesimo rituale si svolge la domenica seguente con l'itinerario contrario fino a concludersi all'ingresso del paese dove li attende un'immensa folla che darà vita alla processione che si concluderà di fronte al sagrato della chiesa di Santa Maria Assunta. "Is curridororis" si danno appuntamento "A attrus annus".
Il lunedì seguente le donne in processione riportano il simulacro nella chiesa Maggiore. Il rito della corsa degli scalzi vuole essere di buon auspicio per il raccolto, la pescosità nello stagno e la fertilità delle greggi.


La corsa degli Scalzi Cabras.
Ogni anno nella prima domenica di settembre ricorre la festa di San Salvatore. Centinaia di fedeli di Cabras, nel sabato che precede la prima domenica di settembre accorrono per portare il Simulacro di San Salvatore in processione di corsa inneggiando il Suo Nome, indossando rigorosamente un saio bianco e scalzi, attraversando di corsa i sentieri sterrati del Sinis, nel villaggio di San salvatore, dove vengono celebrati i festeggiamenti del Santissimo, per poi riaccompagnarlo il giorno seguente nella Chiesa di Santa Maria Assunta. Centinaia di uomini, ragazzi, bambini... l'esercito del Salvatore che in un unica bandiera tra il sudore e la fatica calpesta l'asfalto, bollente e ispido, e il sentiero sterrato alzando un polverone che spazza via la discordia, percorre la via del sacrificio per gettarsi tra le braccia della fede.


Le origini della corsa sono incerte e si confondono con il credo religioso; la legenda narra che  –riferendosi al 1506 - durante una ennesima incursione barbaresca, mentre gli uomini difendevano le coste, le donne avrebbero portato in salvo il Santo, trasferendolo dal villaggio di S. Salvatore a Cabras




Processioni, ricorrenze, usanze e devozioni sono l'espressione della Cultura e della Storia di un popolo. Sono la nostra identità che sopravvive nei secoli. Il sito ipogeico di San Salvatore di Sinis è stato luogo sacro fin dall'età nuragica quando vi si praticava il culto delle acque. In seguito i Fenici ne fecero un santuario dedicato alla Salute, tanto che sulle pareti è riportata più volte l'iscrizione "RVF" che in fenicio significa "Salvami"; i Romani lo trasformarono in un tempio dedicato a Marte e Venere ed infine i Cristiani costruirono la chiesetta sopra l'ipogeo dedicandola appunto a San Salvatore con intorno le cumbessias. Non capisco quindi queste sterili polemiche: trovo la Corsa degli Scalzi - unica nel suo genere - una bellissima tradizione, da custodire gelosamente e tramandare ai posteri così come adoro tutte le altre manifestazioni folkloristiche e religiose (da S. Efisio ai Candelieri, dai fuochi di S. Antonio all'Ardia), che si svolgono in ogni parte della Sardegna.






mercoledì 30 dicembre 2015

Un giorno un dio scese sulla terra e propose agli esseri umani un dono che avrebbe loro permesso di fare cose meravigliose, a condizione che essi gli dessero in sacrificio ogni anno un certo numero di giovani vite. Gli esseri umani indignati rifiutarono con decisione. Poi venne l'automobile




Mi è rimasta impressa una specie di favola che lessi non ricordo dove diversi anni fa. 
Ecco più o meno com'era:
Un giorno un dio scese sulla terra e propose agli esseri umani un dono che avrebbe loro permesso di fare cose meravigliose, a condizione che essi gli dessero in sacrificio ogni anno un certo numero di giovani vite. Gli esseri umani indignati rifiutarono con decisione. Poi venne l'automobile.

martedì 29 dicembre 2015

Simona Kossak (1943 – 2007), polacca, era una scienziata, un’ecologista che ha lottato per la protezione delle più antiche foreste d’Europa, una documentarista pluripremiata e una conduttrice radiofonica, nonché una zoopsicologa. Per più di trent’anni ha vissuto in una capanna nella foresta di Białowieża, senza elettricità o accesso all’acqua corrente. La chiamavano strega, perché parlava con gli animali, aveva allestito un rifugio per loro e uno studio veterinario per curarli: una lince dormiva nel suo letto e una femmina di cinghiale, Żabka, visse con lei per 17 anni; allevò una cucciolata di cervi che la ritenevano la loro madre e strinse amicizia con il famoso corvo-terrorista che faceva dispetti a tutto il mondo, fuorché a lei.

La strega dei boschi


simona e zabka
simona e zabka

Simona Kossak (1943 – 2007), polacca, era una scienziata, un’ecologista che ha lottato per la protezione delle più antiche foreste d’Europa, una documentarista pluripremiata e una conduttrice radiofonica, nonché una zoopsicologa. Per più di trent’anni ha vissuto in una capanna nella foresta di Białowieża, senza elettricità o accesso all’acqua corrente. La chiamavano strega, perché parlava con gli animali, aveva allestito un rifugio per loro e uno studio veterinario per curarli: una lince dormiva nel suo letto e una femmina di cinghiale, Żabka, visse con lei per 17 anni; allevò una cucciolata di cervi che la ritenevano la loro madre e strinse amicizia con il famoso corvo-terrorista che faceva dispetti a tutto il mondo, fuorché a lei.

I brani seguenti sono tratti dal libro di Anna Kamińska “Simona. Opowieść o niezwyczajnym życiu Simony Kossak”, uscito nel luglio 2015. Le immagini sono di Lech Wilczek.

“La gente chiamava il corvo un villano domestico e un ladro. Terrorizzò metà dell’area di Białowieża. Rubava pacchetti di sigarette, spazzole per capelli, forbici, arnesi da taglio, trappole per topi e blocchetti per appunti. Attaccava i ciclisti e quando cadevano faceva a pezzi i sedili delle biciclette. Rubava le salsicce ai taglialegna nei boschi e faceva buchi nelle borse delle spesa. La gente pensava che Korasek – perché così si chiamava – fosse una forma di castigo per i peccatori.” Agli amici di Simona rubò di tutto, chiavi della macchina, documenti, eccetera ma bastava promettergli un uovo e insistere un po’ e Korasek, anche se di malavoglia e con ben poca grazia, restituiva il bottino.

simona e il corvo terrorista
simona e il corvo terrorista

“Simona raccontò: Un giorno i cervi, che avevo allevato con il biberon e che per molti anni mi seguirono nei boschi, manifestarono segni di paura e non vollero entrare nella foresta a pascolare. Come mi ci diressi io si fermarono, le orecchie rizzate e il pelo diritto sul fondoschiena. In apparenza doveva esserci qualcosa di assai minaccioso nella foresta. Attraversai metà dello spazio aperto e mi fermai, perché i cervi stavano producendo un terribile coro di latrati alle mie spalle. Mi voltai e ce n’erano cinque, rigidi sulle zampe, che mi guardavano e chiamavano: Non andare, non andare, c’è la morte laggiù! Devo ammetterlo, restai di stucco ma alla fine andai. E trovai che c’erano tracce di una lince, una lince aveva attraversato la foresta. Trovai le sue feci più avanti. Cos’era successo? Un carnivoro era entrato nella fattoria, i cervi lo avevano notato ed erano spaventati. Poi hanno visto la loro “madre” andare verso la morte, completamente inconsapevole, e dovevano avvisarla – per me, lo dico onestamente, quel giorno fu una conquista. Avevo attraversato il confine che ci divide dagli animali, un muro che non sembrava possibile abbattere. Se mi avevano avvisata voleva dire una sola cosa: sei un membro del branco, non vogliamo che tu sia ferita. Ho rivissuto questo momento molte volte e persino oggi, quando ci penso, provo un senso di calore al cuore.” La madre cerva si era avvicinata alla capanna, aveva accettato lo zucchero offertole da Simona e poi aveva partorito i suoi cuccioli in quel luogo ospitale.

simona e i cervi
simona e i cervi


“Con il tempo, altri animali apparvero nel rifugio di Simona accanto alla casa. Una cicogna nera per cui Simona allestì un nido nella propria stanza, un bassotto e una lince femmina che dormivano con lei, pavoni. Li curava, li abbracciava, li osservava. Allevò due alci orfani. Portava il ratto femmina Kanalia nella manica, perché la bestiola temeva gli spazi aperti. Ospitava i grilli in un contenitore di vetro. Prediceva che tempo avrebbe fatto studiando i pipistrelli che abitavano in cantina. Il serraglio aumentava ogni anno.”

“Nell’inverno del 1993, Simona cominciò la sua battaglia per salvare linci e lupi di Białowieża dall’estinzione. I ricercatori dell’Accademia polacca delle Scienze avevano in mente di effettuare studi telemetrici, mettendo collari con trasmettitori radio agli animali. Ma prima dovevano catturarli. Si scoprì che i ricercatori avevano messo trappole per lupi e linci, del tipo proibito dalla legge polacca. Simona Kossak mostrò ai giornalisti ciò che aveva trovato nei boschi: pesanti ganasce metalliche. Ci volevano due uomini per aprirle. Poco dopo la denuncia di Simona e la rimozione delle trappole, un branco di lupi si avvicinò alla sua casa nella foresta, ululando tremendamente. “E’ stato un inno di gratitudine per aver salvato le loro vite. – disse l’ecologista ai giornalisti – I lupi non si avvicinano mai agli edifici se possono evitarlo, sono troppo spaventosi per loro. Forse hanno percepito l’aura amichevole che emana dalla capanna.” 
Maria G. Di Rienzo


https://lunanuvola.wordpress.com/2015/12/15/la-strega-dei-boschi/

lunedì 28 dicembre 2015

Regno delle due Sicilie. Francesco II di Borbone.

La Sicilia è male organizzata, essendovi due sole classi d'abitanti, signori e pezzenti, vale a dire oppressori e oppressi
Domenico Caracciolo




12 gennaio 1751 nasceva Ferdinando I di Borbone vero nome Ferdinando Antonio Pasquale Giovanni Nepomuceno Serafino Gennaro Benedetto (Napoli, 12 gennaio 1751 – Napoli, 4 gennaio 1825) fu re di Napoli dal 1759 al 1799, dal 1799 al 1806 e dal 1815 al 1816 con il nome di Ferdinando IV di Napoli, nonché re di Sicilia dal 1759 al 1816 con il nome di Ferdinando III di Sicilia.

Il mio popolo non ha bisogno di pensare: io m'incarico di aver cura del suo benessere e della sua dignità. Ho ereditato molti rancori, molti desiderii insensati, tutti gli errori, tutte le debolezze del passato: bisogna ch'io restauri, e nol potrei che avvicinandomi all'Austria, senza assoggettarmi a' suoi voleri. Noi non siamo di questo secolo. I Borboni sono vecchi: e se volessero modellarsi sulla forma delle novelle dinastie, si renderebbe ridicoli. Noi faremo come gli Asburgo. Ci tradisca la sorte, ma noi non ci tradiremo mai
Ferdinando II delle Due Sicilie




27 DICEMBRE 1894: MUORE FRANCESCO II DI BORBONE.
“I re che partono ritornano difficilmente sul trono, se un raggio di gloria non abbia indorato la loro sventura e la loro caduta”. Così, dagli spalti di Gaeta assediata dall’esercito piemontese comandato dal generale Cialdini, Francesco II ultimo re del Regno delle Due Sicilie scriveva a Napoleone III il 13 dicembre 1860. Due mesi dopo ci sarebbe stata la resa e l’esilio a Roma insieme alla consorte, la regina Marie Sophie Amalie von Wittelsbach.

Dopo qualche tempo i due si stabiliranno a Parigi da dove si allontaneranno per brevi viaggi in Austria ed in Baviera presso i parenti della moglie. Vissero privatamente, senza grandi mezzi economici poiché tutti i loro averi erano stati confiscati. Al Governo Italiano che proponeva la loro restituzione in cambio della rinuncia ad ogni pretesa sul trono dell’ex Regno delle Due Sicilie, Francesco II rispose : "Il mio onore non è in vendita".

L’ultimo re Borbone era malato di diabete e si recava per le cure termali ad Arco di Trento, cittadina che faceva allora parte dell’impero asburgico. E fu lì si spense all’età di 58 anni, il 27 dicembre del 1894. Solo allora gli abitanti del posto vennero a conoscenza che il cortese “signor Fabiani”, che ogni giorno era presente alla Messa, recitava il Rosario, si metteva in fila con i contadini del luogo per baciare le reliquie, era il deposto re meridionale. Gli furono tributate esequie solenni e tuttora esiste in quella località una via a lui intitolata.

Il 29 dicembre, appresa la notizia, Matilde Serao dalle colonne del quotidiano “Il Mattino” fondato a Napoli due anni prima, scriveva: 
“..Giammai principe sopportò le avversità della fortuna con la fermezza silenziosa e la dignità di Francesco II. Colui che era stato o parso debole sul trono, travolto dal destino, dalla ineluttabile fatalità, colui che era stato schernito come un incosciente ha lasciato che tutti i dolori umani penetrassero in lui, senza respingerli, senza lamentarsi. Detronizzato, impoverito, restato senza patria egli ha piegato la testa sotto la bufera e la sua rassegnazione ha assunto un carattere di muto eroismo. Galantuomo come uomo e gentiluomo come principe, ecco il ritratto di Francesco di Borbone”.

Le spoglie di Francesco II, insieme a quelle della moglie e della loro unica figlia Maria Cristina riposano, dal maggio del 1984, nella grande chiesa di Santa Chiara a Napoli.
Antonio A. – Fonte:”L’esilio del re Borbone” di Gigi Di Fiore



Io sono Napolitano; nato tra voi, non ho respirato altr'aria, non ho veduti altri paesi, non conosco altro suolo, che il suolo natio. Tutte le mie affezioni sono dentro il Regno: i vostri costumi sono i miei costumi, la vostra lingua la mia lingua, le vostre ambizioni mie ambizioni.
Francesco II delle Due Sicilie



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13 FEBBRAIO 1861: LA CAPITOLAZIONE DI GAETA.
Dopo le battaglie del Volturno e del Garigliano, i resti delle truppe borboniche erano asserragliate a Capua e Giuseppe Garibaldi alla guida del suo Esercito meridionale non riusciva a stanarli da lì. Intervenne il Re di Sardegna Vittorio Emanuele II che nel frattempo, senza alcuna dichiarazione di belligeranza, era entrato nei territori meridionali proveniente dagli Stati Pontifici.
In contemporanea Napoleone III toglieva il blocco navale francese nel Tirreno che di fatto aveva impedito, fino a quel momento, il bombardamento via mare ad opera delle navi piemontesi. Questi nuovi avvenimenti strinsero in una morsa i difensori del Regno delle Due Sicilie e costrinsero re Francesco II di Borbone ad abbandonare Capua per rifugiarsi a Gaeta nella speranza dell’intervento delle diplomazie internazionali e nell’estremo tentativo di salvare il proprio regno.
L’assedio cominciò ufficialmente l’11 novembre 1860 e fu uno degli ultimi grandi assedi condotti col metodo cosiddetto scientifico. L'esercito piemontese guidato dal generale Enrico Cialdini era forte di 18000 uomini, 66 moderni cannoni “Cavalli” a canna rigata e 180 cannoni a lunga gittata che decretarono la fine delle fortificazioni costruite fuori terra e causarono danni incalcolabili distruggendo anche gli alberi secolari di olivi della zona .
L’8 gennaio la piazzaforte fu sottoposta ad un cannoneggiamento ininterrotto di dieci ore che distrusse i quartieri civili. Analogamente il 22 gennaio in una cittadina stremata dalla mancanza di rifornimenti ed anche da un’epidemia di tifo. I bombardamenti non cessarono nemmeno quando erano in corso trattative per la resa che venne firmata il 13 febbraio 1861. La contabilità delle vittime dell'assedio di Gaeta parlò in un primo momento di 826 caduti tra i soldati borbonici, successivi ricalcoli che comprendevano anche i civili ed i feriti che morirono nelle settimane seguenti si attestarono su circa 5mila vittime.
La mattina del 14 febbraio Francesco, seguito dalla moglie Maria Sofia di Wittelsbach e da quanti avevano condiviso l'estrema difesa del Regno , saliva a bordo della nave francese "Mouette", diretto a Roma. Qui i sovrani esiliati furono dapprima ospiti di Pio IX, poi spostarono la loro residenza a palazzo Farnese. Con la caduta, poco dopo, delle ultime due roccaforti di Civitella del Tronto e Messina cessava di esistere un’entità territoriale nata la notte di Natale del 1130 ad opera di Ruggero d’Altavilla.
Antonio A. – Fonte: “Gli ultimi giorni di Gaeta” di Gigi Di Fiore






Il sovrano dal temperamento sbagliato in un momento decisivo della Storia d'Italia. 
Onesto, leale e dignitoso, rivolgendosi ai suoi sudditi in riguardo ai piemontesi fu profetico: 
non vi lasceranno neanche gli occhi per piangere.




Personaggio interessante, come la sua storia. 
La tendenza di gran parte degli storici è sempre quella di parlare dell'arretratezza del regno borbonico, senza specificare che pure quello savoiardo lo era. La vera sciagura mi sa che è toccata a noi del nord che in un attimo siamo passati dagli Asburgo ai Savoia.



Il regno borbonico aveva eccellenze nel campo tecnologico, industriale ma anche culturale ed economico...il tutto fu depredato e depauperato dai savoiardi! A partire dalle proprietà reali, fino alle macchine industriali smontate e trafugate! Il regno dei savoia era in enormi difficoltà finanziarie e non aveva industrie ne tecnologia...e come dicono a Napoli "t'aggia trattat!!!!"




Economia del Regno delle Due Sicilie
Regno arretrato o all’avanguardia?

Al momento dell’Unità d’Italia, nel Regno delle Due Sicilie furono ritirati 443,3 milioni di monete di vario conio, di cui 424 milioni d’argento, pari al 65,7% di tutte le monete circolanti nella penisola.[1]

La grande quantità di monete è però un indice solo apparente della ricchezza del paese borbonico. Infatti era frutto della politica economica mercantilistica voluta da Ferdinando II di Borbone. Nel 1830, quando ascese al trono, il deficit del Regno delle Due Sicilie ammontava a 1.128.167 ducati. Il nuovo re ottenne il pareggio di bilancio attuando numerosi tagli alle spese di corte, ed in seguito ridusse il peso fiscale. Pur di mantenere sempre all’attivo la bilancia economica, senza ricorrere all’innalzamento della pressione fiscale, venne di fatto abolita ogni spesa per la costruzione di infrastrutture. Nel 1860, erano presenti solo 14.000 km di strade, contro i 28.000 km della Lombardia, 4 volte più piccola.[2]

Secondo la Relazione Massari del 1863, ben 1.321 comuni su 1.848 nel Mezzogiorno continentale erano privi di rete stradale. Le poche strade presenti, inoltre, erano colpite frequentemente dai briganti, fenomeno endemico nel Mezzogiorno fin dall’occupazione spagnola del XVI secolo.[3] Anche se fu il primo Stato in Italia ad avere una linea ferroviaria, nel 1861 c’erano 181 km di ferrovia, di cui nessuna in Sicilia. In tutta Italia però le ferrovie percorrevano una distanza di circa 2520 km.[4]

Istruzione e sanità
Nel 1859 si contavano appena 2.010 scuole primarie con 39.881 allievi, 27.547 allieve e 3.171 maestri, su una popolazione di oltre 9.000.000 di abitanti. Al momento dell’Unità il numero degli analfabeti si aggirava nel Regno in media intorno al 70-75%[5], anche se secondo alcuni studiosi l’indice arrivava al 90%. [6] Invece il sistema sanitario era tutto sommato niente male: in tutto il regno vi erano 80 ospedali, in prevalenza allestiti nei monasteri dove, durante l’occupazione spagnola, il clero si occupava dell’assistenza medica. Vi erano inoltre 9.390 medici e chirurghi per 9 milioni di abitanti, contro ai 7.087 medici e chirurghi per i 13 milioni di abitanti del Settentrione. Ciononostante, vi furono 170 mila morti nel 1836-37 per l’epidemia di colera, causata dalle pessime condizioni igieniche e dalla mancanza di impianti di scarico fognario e a volte addirittura di acqua.[7]

Esercito ed industria
Le spese militari erano ingenti.[8] ll Real Esercito nel 1860 contava circa 70.000 soldati di professione e a ferma prolungata, 20.000 soldati di leva e circa 40.000 riservisti (ultime 5 classi di leva pronte al richiamo). L’Armata di Mare invece poteva fare affidamento su circa 6.500 marinai di professione, 2.000 marinai di leva, più di 90 navi a vela e 30 navi a vapore.[9] La grande attenzione prestata alle forze armate ebbe l’effetto positivo di creare una buona industria pesante nel Regno delle Due Sicilie. Le Officine di Pietrarsa, il bacino di carenaggio dell’Arsenale di Napoli, il cantiere navale di Castellammare di Stabia, gli opifici di Mongiana e la Fabbrica d’armi di Torre Annunziata prosperarono grazie alla continua richiesta di materiali militari. Nel 1861 nel Regno delle Due Sicilie vi erano circa 5000 operai impegnati nel settore siderurgico e/o bellico. In Sicilia vi erano importanti miniere di zolfo, date in appalto ad una compagnia britannica.[10] La tecniche di estrazione usate erano però molto arretrate, tanto che un terzo dello zolfo andava perduto.[11] Importante era anche il settore tessile (Valle del Liri, San Leucio, Piedimonte d’Alife); impiantato da numerosi imprenditori svizzeri. Come nel resto d’Italia, l’industria nel Regno delle Due Sicilie ebbe a soffrire varie deficienze strutturali: la scarsezza di materie prime quali il carbon fossile e ferro, la mancanza di capitali (principalmente investiti in rendite fondiarie e titoli di stato), la mancanza di una educazione tecnica degli operai che relegava l’attività manifatturiera principalmente all’ambito artigiano e casalingo, e la scarsezza del mercato interno del regno stesso.[12]

Inoltre non vi erano norme a tutela delle condizioni lavorative: l’operaio non aveva il diritto di protestare per ottenere migliori condizioni di lavoro e lo sciopero poteva essere punito dalla legislazione borbonica come “atto illecito tendente al disturbo dell’ordine pubblico”.[13] L’agricoltura, dominante nello Stato borbonico come nel resto d’Italia, di basava sulla produzione di grano, orzo, avena, patate, legumi e olio. Importanti erano anche le coltivazioni di agrumi e di molte altre piante idonee al clima mediterraneo, quali l’olivo e la vite. Lo sviluppo tecnico agricolo nei latifondi lasciava molto a desiderare, a causa del disinteresse del latifondista. I metodi di coltivazione usati erano talvolta superati da secoli, come la rotazione biennale [11]. Durante l’epoca napoleonica il nuovo regime intraprese un’energica campagna contro il latifondismo e il feudalesimo, provocando così la nascita di un ceto borghese nelle campagne. La nuova borghesia agricola lottò per prendere il sopravvento contro la vecchia aristocrazia latifondista, fallendo a causa del sostegno della monarchia assolutista nei confronti di quest’ultima. In questo modo il ceto medio divenne la classe sociale più ostile alla dinastia, trasformandosi nella spina dorsale dei movimenti costituzionali ed unitari protagonisti della dissoluzione del reame nel 1860.

Articolo di Mattia Tuccelli

Fonti:
[1]Francesco Saverio Nitti, L’Italia all’alba del secolo XX.
[2]http://www.150anni.it/webi/index.php?s=37&wid=103
[3]Raffaello De Cesare, La fine di un Regno https://archive.org/stream/lafinediunregnon02deceiala#page/114/mode/2up
[4] Svimez, 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud.
[5] http://www.150anni.it/webi/index.php?s=35&wid=93
[6] Italiano e dialetto dal 1861 a oggi, di Pietro Trifone http://www.treccani.it/lingua_italiana/speciali/italiano_dialetti/Trifone.html
[7] https://archive.org/stream/lafinediunregnon02deceiala#page/116/mode/2up
[8] “L’esercito, e quell’esercito!, che era come il fulcro dello Stato, assorbiva presso che tutto; le città mancavano di scuole, le campagne di strade, le spiagge di approdi; e i traffici andavano ancora a schiena di giumenti, come per le plaghe dell’Oriente.” Giustino Fortunato – IL MEZZOGIORNO E LO STATO ITALIANO – Discorsi Politici (1880-1910).
[9] Lamberto Radogna, Storia della Marina Militare delle Due Sicilie.
[10] https://it.wikipedia.org/wiki/Questione_degli_zolfi
[11] Denis Mack Smith, Storia d’Italia dal 1861 al 1997.
[12] D. Demarco, Il crollo delle Regno delle Due Sicilie. La struttura sociale e Angelo Massafra, Il Mezzogiorno preunitario: economia, società e istituzioni.
[13] Tommaso Pedio, Industria, società e classe operaia nelle province napoletane nella prima metà dell’Ottocento.

https://amantidellastoria.wordpress.com/2016/01/16/economia-del-regno-delle-due-sicilie/