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venerdì 30 ottobre 2015

C’era una volta una gara …..di ranocchi L’obiettivo era arrivare in cima a una gran torre. Si radunò molta gente per vedere e fare il tifo per loro. Cominciò la gara.

C’era una volta una gara …..di ranocchi
L’obiettivo era arrivare in cima a una gran torre.
Si radunò molta gente per vedere e fare il tifo per loro.
Cominciò la gara.

In realtà, la gente probabilmente non credeva possibile che i ranocchi raggiungessero la cima, e tutto quello che si ascoltava erano frasi tipo:
“Che pena !!! Non ce la faranno mai!”

I ranocchi cominciarono a desistere, tranne uno che continuava a cercare di raggiungere la cima.
La gente continuava : “… Che pena !!! Non ce la faranno mai!…”
E i ranocchi si stavano dando per vinti tranne il solito ranocchio testardo che continuava ad insistere. Alla fine, tutti desistettero tranne quel ranocchio che, solo e con grande sforzo, raggiunse alla fine la cima.

Gli altri volevano sapere come avesse fatto.
Uno degli altri ranocchi si avvicinò per chiedergli come avesse fatto a concludere la prova.
Fu così che scoprirono…
che era sordo !




Jean Martin Charcot. La vita e il lavoro di Charcot ruotava intorno alla diagnosi e alla classificazione di questi pazienti, che gli fornivano le descrizioni di numerosi disturbi, correlati di scoperte cliniche e patologiche [...] sposta la sua attenzione e i suoi studi sul concetto di “isteria” e avanzò il concetto rivoluzionario secondo cui le malattie che colpivano il cervello erano funzionali piuttosto che strutturali; in questo senso egli è considerato come uno dei fondatori della scienza della psicopatologia. In particolare, egli studiò il legame tra trauma e isteria locale. Charcot è considerato come uno dei primi a dimostrare il rapporto chiaro e fecondo tra la psicologia e la fisiologia



Jean Martin Charcot nasce oggi, 29 novembre del 1825 a Parigi. Medico, fondò insieme ad altri colleghi, il primo centro neurologico presso l’ospedale Salpêtrière di Parigi. Egli è considerato il fondatore della moderna neurologia: il suo nome è associato ad almeno 15 eponimi medici, di cui il più noto è la malattia di Charcot-Marie-Tooth.

Figlio e nipote di un carrozziere, originari di Champagne. 
Nell’infanzia si manifesta una personalità taciturna, che persisterà per tutta la vita e, mentre era ancora un ragazzo, dimostrò un precoce interesse per la medicina, ma non meno interesse per il disegno e la pittura, che gli ha insegnato l’importanza di rendere attente osservazioni – da cui ebbe poi grande beneficio, sia come insegnante sia come scienziato.

Come deciso da tempo, Charcot si laureò in medicina nel 1853, all’età di 23 anni, e guadagnò da subito un posto al Salpêtrière. Divenne “interne des Hôpitaux” nel 1848 e venne nominato “Chef de clinique” nel 1853, dopo aver sostenuto una tesi di dottorato sulla gotta e sui reumatismi cronici (artrite nodosa), in cui ha differenziato la gotta da altre forme di reumatismo cronico.

Divenne “médecin des Hôpitaux des Paris” (Medico per gli ospedali di Parigi) nel 1856.

Nel 1862, all’età di 37 anni, Charcot è stato nominato dirigente medico presso il Salpêtrière. 
Il nome Salpêtrière risale al tempo in cui l’edificio era una fabbrica di armi e spazio per riporre la polvere da sparo di Luigi XIII. Divenne poi un ospizio per più di 5000 pazienti indigenti. La vita e il lavoro di Charcot ruotava intorno alla diagnosi e alla classificazione di questi pazienti, che gli fornivano le descrizioni di numerosi disturbi, correlati di scoperte cliniche e patologiche. Sempre nel 1862, inoltre, fu attivo nella clinica per donne al Salpêtrière. Tra il 1866 e il 1878 sostenne lezioni ordinarie annuali sulle malattie croniche, malattie della vecchiaia e, in particolare, sulle malattie del sistema nervoso. Charcot è diventato professore aggregato nel 1860.

Dopo la guerra franco-prussiana, nel 1871, sposta la sua attenzione e i suoi studi sul concetto di “isteria” e avanzò il concetto rivoluzionario secondo cui le malattie che colpivano il cervello erano funzionali piuttosto che strutturali; in questo senso egli è considerato come uno dei fondatori della scienza della psicopatologia. In particolare, egli studiò il legame tra trauma e isteria locale. Charcot è considerato come uno dei primi a dimostrare il rapporto chiaro e fecondo tra la psicologia e la fisiologia.

Sotto la sua influenza, la malattia mentale cominciò ad essere analizzata sistematicamente e l’isteria, allo studio della quale si consacrò a partire dal 1870,venne distinta dalle altre affezioni dello spirito. Le sue opere hanno portato ad escludere il dubbio sulla simulazione da parte dei malati nella manifestazione delle crisi o dei sintomi isterici ed è stato il primo a utilizzare l’ipnosi come cura. Era convinto che la causa fondamentale dell’isteria fosse una degenerazione, di origine ereditaria, del sistema nervoso; un’interpretazione che Sigmund Freud, che era stato suo allievo dall’ottobre 1885 al febbraio 1886, smentì.

Charcot si occupò della fisiologia dell’ipnotizzato, dei suoi movimenti, dei suoi riflessi ma tralasciò i fenomeni psicologici. Charcot, che faceva esperimenti soprattutto sugli isterici, considerava il loro stato ipnotico avanzato come un vera nevrosi costituita essenzialmente da tre stati diversi:

Lo stato di letargia
che si ottiene per fascinazione o per compressione dei globi oculari attraverso le palpebre abbassate.

Lo stato catalettico: nel quale le membra restano immobilizzate nella postura che gli si impone.

Lo stato sonnambulico
che può essere ottenuto attraverso la fissazione dello sguardo e attraverso altre pratiche.
Queste tre fasi costituiscono quello che Charcot chiamò la “grande ipnosi”, o la “grande nevrosi ipnotica”.

Charcot pensò di aver scoperto una nuova malattia, che definì “isteroepilessia“, una malattia della mente e del cervello che unisce le caratteristiche di isteria e l’epilessia. I pazienti hanno mostrato una varietà di sintomi, tra cui convulsioni, contorsioni, svenimenti, e transitoria perdita di coscienza.

Joseph Babinski, suo allievo, tuttavia, affermò che Charcot aveva inventato, piuttosto che scoperto, l’isteroepilessia: i pazienti arrivavano in ospedale con vaghe denunce di disagio e di demoralizzazione ma Charcot  li convinse di essere affetti da isteroepilessia e, quindi, a diventare suoi pazienti.

L’Interesse di Charcot per i loro problemi, l’incoraggiamento degli assistenti, e l’esempio di altri spinsero i pazienti ad accettare le cure di Charcot. Questi sintomi somigliavano all’epilessia, secondo Babinski, a causa di una delibera comunale che permetteva di ospitare i pazienti epilettici e isterici insieme (entrambi con condizioni “episodiche”). I pazienti isterici, già vulnerabili alla suggestione e la persuasione, erano continuamente sottoposti in reparto ad esami neuropsichiatrici di Charcot e cominciarono a imitare gli attacchi epilettici a cui avevano ripetutamente assistito.

Babinski convinse Charcot che i medici potevano indurre una serie di disturbi fisici e mentali, soprattutto nei giovani, in persone inesperte e nelle donne emotivamente in difficoltà. Non c’era “isteroepilessia”. Questi pazienti erano stati afflitti non da una malattia ma da un’idea. Comprendendo ciò, Charcot e Babinski misero a punto un trattamento a due stadi, costituito dall’isolamento e dall’annullamento della suggestione.

I pazienti con “isteroepilessia” furono trasferiti ai reparti generali dell’ospedale e tenuti separati l’uno dall’altro, i pazienti epilettici e quelli isterici, anche dai membri del personale che erano stati indotti da simpatia o zelo investigativo a mostrare grande interesse per i sintomi. Il successo di questo primo passo è stato notevole. La rara ma impressionante epidemia di svenimenti, convulsioni, e grida selvaggia in conventi e collegi si concluse quando il gruppo di persone afflitte fu smembrata e dispersa.

Il secondo passo, la contro-suggestione, fu progettato per dare ai pazienti una visione di se stessi che li convincesse ad abbandonare i loro sintomi. Controsuggestioni drammatiche, come la stimolazione elettrica dei muscoli “paralizzati”, furono ritenute inaffidabili. La tecnica più efficace fu semplicemente ignorare il comportamento isterico e concentrarsi sulle attuali circostanze di questi pazienti. Essi erano affetti da varie forme di stress, tra cui traumi, le paure economiche, conflitti religiosi, e una convinzione (forse corretta) di essere stati sfruttati o trascurati dalle loro famiglie. In alcuni casi, il loro disagio era stata provocato da una malattia mentale o fisica. I sintomi isterici oscuravano i conflitti emotivi sottostanti e i traumi.

I membri del personale ospedaliero, intenti alla contro-suggestione, espressero il loro disinteresse verso questi sintomi con parole come: “Stai recuperando ora e dovrai fare una cura, ma cerchiamo di concentrarci sulla situazione familiare che ti può aver portato a questo“. Questo tipo di controsuggestioni riducevano la possibilità del paziente di continuare a produrre sintomi dell’isteroepilessia, che gradualmente si affievolirono, in mancanza di attenzioni. I pazienti adottarono un approccio più coerente e disciplinato ai loro problemi, trovando una soluzione più appropriata rispetto all’isteria.

Charcot stesso, un pò tardivamente d’altronde, finì per rendersi conto, poco prima della sua morte, che la strada sul quale si era avventurato era molto incerta, così prese la decisione di riprendere integralmente la questione dell’isteria e dell’ipnosi.

Sfortunatamente, soffrendo di un grave insufficienza coronarica, morì poco dopo nel 1893 a causa di un infarto del miocardio.

I contributi di Charcot alla medicina e alla letteratura medica sono leggendari. Le sue lezioni sono state pubblicate in una varietà di lingue e rimangono ancora una parte essenziale della biblioteca di qualsiasi neurologo. Infatti, mentre la correlazione tra osservazioni cliniche e dati patologici post mortem sembra banale nella nostra epoca, Charcot ha applicato questo metodo per mettere ordine al vasto numero di malattie neurologiche che mancava di una corretta descrizione e classificazione. Dobbiamo anche apprezzare la capacità di Charcot di trarre conclusioni accurate e precise, senza l’aiuto della tecnologia moderna.

Ancora più importante, la consapevolezza che Charcot ha portato a tante malattie come la sclerosi multipla, la SLA, CMT, e altre condizioni neurologiche, ulteriori contributi e dato speranze per migliori trattamenti terapeutici.

Fonte:

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3064755/

http://www.whonamedit.com/doctor.cfm/19.html

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http://formazionecontinuainpsicologia.it/jean-martin-charcot-pionere-della-moderna-neurologia/

giovedì 29 ottobre 2015

Allievi oppositivi in classe. I bambini che mettono in atto comportamenti oppositivi lo fanno spesso come risposta disfunzionale a un disagio personale. Per stare in relazione con loro è importante ascoltarli, immaginarne i vissuti, l’esistenza oltre la scuola, facendo attenzione ai loro bisogni e alle loro difficoltà, considerando che su quelle si appoggia la loro personale modalità comunicativa. Di recente un’insegnante di scuola primaria ci ha chiesto quali “linee generali di comportamento tenere nei confronti di ragazzini particolarmente oppositivi (che rispondono male, dicono parolacce durante la lezione, si rifiutano di fare i compiti assegnati ecc.), per non perdere di autorevolezza rispetto a tutta la classe e, nello stesso tempo, non edificare un muro e causare una sfida continua...”. Tenendo in considerazione il fatto che il comportamento oppositivo nei bambini è il più delle volte la risposta disfunzionale a un disagio personale, il modo migliore per relazionarsi con questi allievi è ascoltarli, immaginarne i vissuti, l’esistenza oltre la scuola, facendo attenzione ai loro bisogni e alle loro difficoltà, dato che su quelle si appoggia la loro personale modalità comunicativa.



Allievi oppositivi in classe.
I bambini che mettono in atto comportamenti oppositivi lo fanno spesso come risposta disfunzionale a un disagio personale. Per stare in relazione con loro è importante ascoltarli, immaginarne i vissuti, l’esistenza oltre la scuola, facendo attenzione ai loro bisogni e alle loro difficoltà, considerando che su quelle si appoggia la loro personale modalità comunicativa.

Di recente un’insegnante di scuola primaria ci ha chiesto quali “linee generali di comportamento tenere nei confronti di ragazzini particolarmente oppositivi (che rispondono male, dicono parolacce durante la lezione, si rifiutano di fare i compiti assegnati ecc.), per non perdere di autorevolezza rispetto a tutta la classe e, nello stesso tempo, non edificare un muro e causare una sfida continua...”.
Tenendo in considerazione il fatto che il comportamento oppositivo nei bambini è il più delle volte la risposta disfunzionale a un disagio personale, il modo migliore per relazionarsi con questi allievi è ascoltarli, immaginarne i vissuti, l’esistenza oltre la scuola, facendo attenzione ai loro bisogni e alle loro difficoltà, dato che su quelle si appoggia la loro personale modalità comunicativa.

Alcune linee guida
Premesso ciò si possono tracciare alcune possibili linee guida:

Comunicare con l’allievo tendendo conto dei suoi atti o delle sue omissioni e non del suo “essere” e farlo in modo pacato e affettuoso, ma al contempo fermo, senza mai “rompere” la relazione con lui. 
Gli si può dire, per esempio: “Quando non fai i compiti io temo che tu possa rimanere indietro rispetto agli altri e questo mi preoccupa e rischio perdere la pazienza con te”. Si tratta di esprimere in modo chiaro l’effetto che ci fa il suo comportamento, sottolineando che è quel comportamento specifico che non approviamo, che ci mette a disagio, non lui in quanto persona.

Mostrare il nostro interesse (se reale) a comprenderlo e sostenerlo anche quando fa qualcosa che riteniamo provocatorio. Può essere utile dirgli con gentilezza, per esempio: 
“A me non piace che ti comporti così, però immagino che tu lo faccia perché magari, per qualche motivo, sei arrabbiato...”.

Valorizzare i punti di forza e le risorse di quel bambino (come di tutti gli altri bambini in classe), affidandogli anche delle responsabilità che lo mettano in una posizione di guida rispetto agli altri, senza rischiare la frustrazione. Ad esempio, se sa disegnare bene potrebbe aiutare gli altri a farlo; se è abile a mettere tutto in discussione, potrebbe criticare programmi televisivi, testi, immagini ecc. recitando in classe il ruolo del critico ufficiale.

Può essere utile illustrare l’importanza dell’opposizione con esempi attinti dalla Storia e invitare tutti gli allievi, a turno, a interpretare quel ruolo... Si possono creare giochi di squadra dove vince chi non cede alle richieste degli avversari (ad esempio, di ridere, di rimanere seri ecc.), e dove l’opposizione si esprime in modo ludico e cooperativo, mostrando a tutti, insomma, che può essere funzionale in alcuni contesti specifici.

Relativizzare i comportamenti 
I ruoli codificati in classe, l’allievo oppositivo, quello timido, quello spiritoso... cristallizzano le relazioni che rischiano di diventare scomode e faticose per alcuni allievi e per gli stessi insegnanti. È utile quindi considerare i comportamenti in relazione al contesto in cui accadono. Sollecitare i bambini a vedere le cose “in relazione”, li aiuta a non esprimere giudizi assoluti e definitivi e a lasciare spazio al cambiamento di ruolo quando quello che si mette in gioco di solito non è più funzionale.

Invitare gli allievi a cambiare a rotazione compagno di banco, invitarli a “indossare” ruoli diversi (per esempio, ogni tanto, proporre a ognuno di assumere le caratteristiche più apprezzate del vicino di banco), consente di creare un ambiente dinamico dove lo scambio relazionale sia prospettico per tutti. 

http://www.giuntiscuola.it/psicologiaescuola/blog-sos/relazioni/allievi-oppositivi-in-classe/



Dislessia Sardegna. “Le statistiche internazionali dicono che il fenomeno colpisce circa il 5% della popolazione in età scolare – ha spiegato Lilliu – se questo è vero, i ragazzi sardi dislessici potrebbero essere circa 9000. I dati ufficiali del Miur limitano il problema allo 0,6% degli studenti isolani, un risultato troppo basso, ben al di sotto della media nazionale ed europea”.

Allarme per i bimbi dislessici in Sardegna: "Fenomeno sottostimato"
La parola agli esperti.

Sono 1078, su una popolazione scolastica di circa 180mila ragazzi, i casi di dislessia certificati dal MIUR in Sardegna. Una fotografia non veritiera, secondo gli esperti del settore: il fenomeno potrebbe infatti essere sottostimato per la mancanza di un’adeguata attività di screening e di un percorso diagnostico diffuso nel territorio. Lo hanno sostenuto i rappresentanti dell’Associazione Onlus “Neuropsicopedagogia”, Gianluigi Lilliu e Donatella Petretto, davanti alla Commissione “Sanità” del Consiglio regionale impegnata nell’esame del Testo Unico sulla Dislessia.

Le statistiche internazionali dicono che il fenomeno colpisce circa il 5% della popolazione in età scolare – ha spiegato Lilliu – se questo è vero, i ragazzi sardi dislessici potrebbero essere circa 9000. I dati ufficiali del Miur limitano il problema allo 0,6% degli studenti isolani, un risultato troppo basso, ben al di sotto della media nazionale ed europea”.

L’Associazione, che ha espresso forte apprezzamento per i contenuti del Testo Unico, ha suggerito un potenziamento delle attività di screening e il rafforzamento della collaborazione tra le famiglie, il corpo docente e i professionisti. “La proposta di legge introduce elementi innovativi rispetto all’attuale normativa nazionale – ha detto Donatella Petretto – tra questi, l’attenzione per i disturbi di apprendimento tra gli adulti e la previsione di un supporto ai dislessici in ambito lavorativo e nei concorsi pubblici”. “Neuropsicopedagogia” ha proposto tre correttivi alla legge: 1) l’adeguamento dei riferimenti normativi agli ultimi criteri diagnostici e ai disciplinari internazionali; 2) l’incentivazione del rapporto pubblico privato che consenta alle famiglie di ottenere una diagnosi precoce e un tempestivo piano d’intervento; 3) l’individuazione di percorsi personalizzati.

La Quinta Commissione, presieduta da Raimondo Perra, ha sentito in serata anche i direttori delle Cliniche di Neuropsichiatria infantile di Cagliari e Sassari, Alessandro Zuddas e Stefano Sotgiu, e i neuropsichiatri Carlo Gianchetti e Giuseppe Doneddu.

Secondo Gianchetti, il problema fondamentale da affrontare è quello della diagnosi precoce: “I bambini dislessici hanno spesso un’intelligenza superiore alla media – ha detto l’ex professore dell’Università di Cagliari – se il loro disturbo viene certificato subito si possono individuare i rimedi. Per questo è necessario coinvolgere gli insegnanti in una capillare attività di screening. Basta far leggere i bambini ad alta voce per capire se il problema esiste. Successivamente spetterà ai professionisti intervenire per una diagnosi precisa”.

Sulle figure professionali individuate dalla legge per i percorsi diagnostici, Giuseppe Doneddu ha suggerito alla Commissione di tener conto degli indirizzi ministeriali e delle linee direttive della Conferenza Stato-Regioni: “Le figure sono tre – ha spiegato Doneddu – neuropsichiatri, psicologi e logopedisti. A loro deve essere affidato il delicato compito di valutare caso per caso”. Il direttore del Centro per i disturbi pervasivi dello sviluppo dell'Azienda Ospedaliera Brotzu ha poi chiesto alla Commissione più attenzione per le strutture territoriali di neuropsichiatria infantile: “La situazione della Sardegna è gravemente carente – ha detto – non solo per la diagnosi della dislessia”.

Il direttore della clinica di Neuropsichiatria infantile di Cagliari, Alessandro Zuddas, ha rimarcato l’esigenza di affidare i processi diagnostici a un equipe di professionisti: “Diverse Regioni hanno già codificato le modalità di intervento e, in alcun casi, anche i test da fare – ha spiegato Zuddas – serve un protocollo minimo di valutazione e una griglia riassuntiva dei dati da raccogliere. La Toscana ha pensato a specifici pacchetti di Day Service graduati a seconda della gravità del caso”. Zuddas ha poi auspicato un ruolo più forte per la scuola, a cui deve essere affidato il compito di pensare interventi didattici personalizzati attraverso un piano ad hoc. Per il responsabile della Clinica di Neuropsichiatria infantile di Cagliari, infine, occorre specificare meglio le competenze del Comitato Tecnico Scientifico: “E’ necessario inserire alcune attività vincolanti – ha affermato Zuddas – come il monitoraggio delle capacità del servizio sanitario di rilasciare le certificazioni di DSA (Dislessia) e l’individuazione di un percorso certo per l’accreditamento dei soggetti privati che possono fare la diagnosi nel caso in cui le strutture pubbliche non siano in grado di intervenire”.

Alessandro Sotgiu ha ribadito la centralità del neuropsichiatra. “Non si può prescindere da questa figura per la certificazione del disturbo – ha detto il direttore della Clinica di Neuropsichiatria infantile di Sassari – per lo screening bastano invece gli insegnanti”. Sotgiu, infine, ha chiesto maggiore attenzione per il sistema pubblico. “Occhio a come si coinvolgono i privati – ha ammonito Sotgiu – nella provincia di Sassari girano professionisti che rilasciano certificazioni a gogò”.

Autore: Redazione Casteddu Online il 29/10/2015 20:09 


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Didattica per competenze [...] prevede in pratica l’abbandono della vecchia struttura scolastica rigidamente divisa per discipline. La didattica si incentra infatti sulle unità di apprendimento, basate su un approccio multidisciplinare e trasversale che si sviluppa su più materie contemporaneamente.




Una didattica per competenze nelle medie di II grado sarebbe bellissima poterla realizzare però noi abbiamo la spada di Damocle degli esami di stato. Soprattutto l'ultimo anno è una corsa a svolgere i programmi ministeriali nella loro interezza. Dovranno cambiare anche la modalità dell'esame finale.



Quindi , quando la concorrenza mondiale richiede studenti più preparati e con più conoscenze, la scuola italiana, su modelli discutibili importati dall'estero (dove questi modelli li stanno scaricando), abbandona le conoscenze (fiore all'occhiello della scuola italiana) per costruire competenze sul nulla. La trasmissione di conoscenze alle nuove generazioni, o come è meglio dire, l'apprendimento del patrimonio culturale costruito finora, è sempre stato, fin dall'antichità, l'unico modo di creare un ponte tra le generazioni e per costruire il futuro su salde radici note e condivise. L'idea che le "competenze" possano formarsi in assenza di contenuti disciplinari è funzionale a una riforma che vuole scardinare la professionalità dei docenti (costruite sulle classi di concorso). Per intenderci, i docenti diventano intercambiabili, tutti potranno fare tutto perchè ciò che si chiede è la capacità di gestire in un gruppo classe l'uso di strumenti informatici e piattaforme digitali. Tutto legittimo, naturalmente, per la gioia di centinaia di aziende private e agenzie formative per le quali si apre nella scuola un terreno di conquista. Ma a noi genitori, a noi docenti, a noi studenti, è proprio quello che interessa? è proprio questa la scuola che vogliamo? Siamo così sicuri che tagliare le radici col passato e vivere in un eterno presente stimoli le capacità di ragionamento, di discernimento, di inventiva? Qui non si dibatte tra apocalittici e integrati; quello che è in ballo è un sistema di sviluppo; ce ne preoccupiamo a proposito di ambiente e di cibo ma chissà perchè gli OGM sull'istruzione non destano dubbi e preoccupazioni.



INNOVAZIONE
Materie addio! La scuola digitale riparte dalle competenze.

Cinquecento ragazzi di nove scuole in tutta Italia, da Milano a Palermo, hanno iniziato quest’anno a fare scuola in maniera innovativa, sulla base delle competenze e non più delle singole materie. Da lla settimana prossima potranno farlo anche settanta scuole della Basilicata e dall'anno prossimo qualsiasi istituto italiano potrà adottare questa innovazione.

A rendere possibile, o meglio a facilitare, la realizzazione della didattica per competenze è una nuova piattaforma web, Curriculum mapping, studiata per aiutare i docenti a mettere in pratica questo nuovo sistema che prevede in pratica l’abbandono della vecchia struttura scolastica rigidamente divisa per discipline. La didattica si incentra infatti sulle unità di apprendimento, basate su un approccio multidisciplinare e trasversale che si sviluppa su più materie contemporaneamente

In questo percorso i docenti sono ora supportati dal Curriculum mapping, la piattaforma realizzata dal Centro Studi ImparaDigitale, grazie al sostegno di Fondazione Telecom Italia, presentata nel fine settimana a Milano, che accompagna i professori nella progettazione delle unità di apprendimento e favorisce l'integrazione e la condivisione dei lavori realizzati anche tra scuole diverse. Finita la prima fase di sperimentazione, la piattaforma sarà messa a disposizione - la prossima primavera - di tutti i docenti italiani.

Già oggi la normativa italiana si è adeguata alla regolamentazione europea che richiede una conformazione dei programmi alla costruzione di competenze, andando oltre il semplice apprendimento finalizzato alla conoscenza per materie. La scuola del futuro deve insegnare invece ai ragazzi a muoversi all’interno di un ambiente multidisciplinare, che li aiuti “ad analizzare la situazione da diversi punti di vista, a rielaborare criticamente le proprie conoscenze utilizzandole per raggiungere un apprendimento personalizzato”, come ricorda Dianora Bardi, vicepresidente di ImparaDigitale. “Dalla centralità del docente che insegna, il focus passa all’apprendimento e, quindi, allo studente: tutte le scuola devono ora certificare per competenze e Curriculum mapping è uno strumento che facilita questo percorso”, aggiunge Marcella Jacono, responsabile della piattaforma.

La tecnologia digitale fornisce un potente strumento abilitante per il reperimento e la lavorazione dei contenuti e per la costruzione di un sapere in maniera collaborativa. “Fondazione Telecom Italia è impegnata nella realizzazione di progetti che sviluppino strumenti e metodologie a supporto dell’educazione e della scuola digitale per insegnanti e studenti - ha sottolineato il direttore generale Marcella Logli -: Curriculum mapping rappresenta la frontiera dell’impegno di Fondazione nella volontà di generare valore e progresso per il sistema scolastico nazionale”. A sottolineare la necessità di adeguare il sistema educativo dal punto di vista tecnologico, proprio domani il Miur presenta un piano specifico di investimenti per l’adeguamento del sistema scolastico dal punto di vista digitale, sia a livello di infrastrutture che di didattica e di formazione.

Il nuovo strumento è stato illustrato nel corso di una giornata dedicata alle ultime innovazioni nell'utilizzo delle tecnologie digitali in chiave didattica. Dalla classe scomposta, in cui i ragazzi si organizzano in aula sulla base delle diverse attività, alla flipped classroom, dove gli studenti verificano a scuola quello che hanno già studiato da soli online a casa, dalle stampanti 3D alla lettura di libri via Twitter. Oltre mille tra studenti e genitori all'Istituto Leone XIII di Milano hanno potuto toccare con mano come sarà la scuola del futuro.

D’altra parte il 40% della disoccupazione giovanile in Italia ha natura strutturale e, secondo un recente rapporto di McKinsey, affonda le sue radici nello scarso dialogo tra sistema educativo e sistema economica. Solo il 42% delle imprese italiane, secondo i dati, ritiene che i giovani che entrano nel mondo del lavoro per la prima volta abbiano una preparazione adeguata. In particolare lamentano un deficit di competenze generali: non solo la padronanza delle lingue straniere e della matematica di base, ma anche capacità analisitiche, intraprendenza e autonomia nel lavoro.

http://mobile.ilsole24ore.com/solemobile/main/art/tecnologie/2015-10-26/materie-addio-scuola-digitale-riparte-competenze--121747.shtml?uuid=ACKAtLNB&refresh_ce=1



martedì 27 ottobre 2015

Faulkner. Sognate e mirate sempre più in alto di quello che ritenete alla vostra portata. Non cercate solo di superare i vostri contemporanei o i vostri predecessori. Cercate, piuttosto, di superare voi stessi.


«Sognate e mirate sempre più in alto di quello che ritenete alla vostra portata.
Non cercate solo di superare i vostri contemporanei o i vostri predecessori.
Cercate, piuttosto, di superare voi stessi.»
William Faulkner, Sartoris, tr. Filiberto Storoni, Jandi-Sapi, 1946

LETTERATURA VISTA FAULKNER – UNA LONTANA INTERVISTA DEL GRANDE SCRITTORE AMERICANO CHE SVELA I SEGRETI DEI SUOI LIBRI, DELLA SUA SCRITTURA, LA CLASSIFICA DEI PIÙ GRANDI: THOMAS WOLFE


Faulkner: “Thomas Wolfe scriveva come se gli restasse poco da vivere, Hemingway non ha mai rischiato. Non ha mai usato una parola che il suo lettore dovesse andare a cercare sul vocabolario - - I più grandi romanzi del XIX secolo? Probabilmente quelli russi”….


Estratto da “Il gioco dell’apprendista. Dieci domande con William Faulkner” pubblicato da “La Stampa

Popeye (in Santuario) è ispirato a un prototipo umano?
«No. Simboleggia semplicemente il male. Gli ho dato due occhi, un naso, una bocca e un cappotto nero. Era un’allegoria. Non è un buon libro. Mi sono sbagliato in quel ritratto perché per me era impossibile avere un approccio scientifico».


Popeye doveva avere delle caratteristiche simili al Satana di Milton?
«No. Questo significherebbe che un tratto è buono o cattivo di per sé. Bisogna guardare il risultato. Qualunque cosa che porti disperazione è sbagliata. La coerenza si misura solo con il risultato. Bisogna espandere il personaggio per farlo durare fino alla fine del libro».


Qual è il suo miglior libro secondo lei?
«Beh, ‘Mentre morivo’ è stato il più facile e il più divertente. ‘L’urlo e il furore’ ancora continua a smuovermi. ‘Go down, Moses’ - l’ho cominciato pensando a una raccolta di storie brevi. Dopo la revisione sono diventate come sette diverse facce di una stessa cosa. È semplicemente una raccolta di storie brevi».

Come sceglie le parole?
«Nella foga di buttarle giù ne vengono fuori molte. Se ci torni sopra, ci lavori e suonano ancora vere allora lasciale».

In Le palme selvagge la tecnica che usa è automatica? Se è così, perché?
«Ho usato quella tecnica semplicemente come un espediente automatico per dare forma alla storia che volevo raccontare, la storia di due diversi tipi di amore. Un uomo che rinuncia a tutto per amore di una donna e un altro che rinuncia a tutto per fuggire dall’amore».

Che cosa sa del libro che verrà fuori prima di iniziare a scriverlo?
«Molto poco. Semplicemente comincio a scrivere. Il personaggio si sviluppa insieme al libro e il libro si sviluppa scrivendolo». [...]

william faulkner 1WILLIAM FAULKNER 1
Ha scritto Santuario per attirare l’attenzione su di sé oppure è stata un’impresa seria?
(mortificato): «Il motivo principale era che avevo bisogno di soldi. Avevo già scritto due o tre libri che non avevano venduto. Scrissi ‘Santuario’ per vendere. Quando glielo inviai l’editore mi disse: “Oh Signore! Non possiamo pubblicarlo. Ci metteranno tutti e due in prigione!”.

Non era ancora arrivato il periodo del sangue e delle budella. Appena cominciarono a vendere dei libri così, decisero di pubblicare ‘Santuario’. Mi ripresi le bozze e dissi: “No”. Ero indebitato e obbligato per contratto con il mio editore e alla fine, con la sua continua insistenza, mi decisi a pubblicarlo. Lo riscrissi completamente. Bozze interamente rifatte. Per questo motivo non amavo quel libro e non lo amo ancora oggi».

Come trova il tempo per entrare in un’atmosfera e in uno stato d’animo che conciliano la scrittura?
WILLIAM FAULKNERWILLIAM FAULKNER
«Bisogna sempre trovare il tempo per scrivere. Chiunque dica che non ha tempo vive in una finzione. Da questo deriva l’ispirazione. Non aspettare. Quando hai un’ispirazione buttala giù in fretta. Prima la butti giù più forte sarà l’immagine. Non aspettare che passi per cercare di ricatturarne la sensazione e il colore».

Quanto tempo ci mette a scrivere un libro?
«Uno scribacchino te lo può dire. Il tempo varia. Ho scritto Mentre morivo in sei settimane, L’urlo e il furore in sei mesi, Assalonne, Assalonne! in tre anni».

Si dice che lei scriva due libri alla volta. È consigliabile?
«È ok, ma non se si ha una scadenza. Scrivete finché avete qualcosa da dire».

Qual è il miglior allenamento per scrivere? Corsi, esperienza, o cosa?
«Leggere, leggere, leggere. Leggere tutto – robaccia, classici, buoni e cattivi, e vedere come fanno. Come un falegname che lavora come apprendista e studia il maestro. Leggete! Assorbirete. Poi scrivete. Se è buono lo vedrete. Se non lo è, buttate tutto dalla finestra».
TOM WOLFE ELECTRIC KOOL AID ACID TESTTOM WOLFE ELECTRIC KOOL AID ACID TEST

Va bene copiare uno stile?
thomas wolfeTHOMAS WOLFE
«No. Se avete qualcosa da dire, usate il vostro stile. Sarà la storia a scegliere il suo stile narrativo. Quello che vi piace si manifesterà attraverso lo stile». [...]

Stiamo degenerando? (dal punto di vista letterario)
«No. Leggere è qualcosa di necessario, un po’ come il Paradiso o un colletto pulito, ma non è importante. Vogliamo la cultura, ma non vogliamo impegnarci troppo per averla».

Suona come una critica al nostro modo di vivere.
«La critica serve. Tutti vogliono aiutare le persone, convertirle al Paradiso. Scrivete per aiutare la persone. L’esistenza di questa classe di scrittura creativa va bene per impegnare il tempo e imparare a scrivere in un periodo della vostra vita in cui il tempo è la cosa più preziosa che possedete».

Qual è l’età migliore per scrivere?
«Dai trentacinque ai quarantacinque è il periodo migliore per scrivere romanzi, il fuoco non si è spento, l’autore conosce più cose. È una scrittura lenta e il fuoco dura di più. Dai diciassette ai ventisei anni è l’età migliore per scrivere poesia. Scrivere poesie è come andare sulle stelle – tutto il fuoco è condensato in una stella. La poesia più notevole la scrivono i giovani uomini».

E cosa ci dice di Shakespeare?
«Ci sono delle eccezioni. Scrisse tanto in gioventù e negli ultimi anni».

Perché ha smesso di scrivere poesie?
thomas wolfeTHOMAS WOLFE
«Quando scoprii che le mie poesie non erano granché ho cambiato strumento. All’età di ventuno anni pensavo che le mie poesie fossero belle. Continuai a scriverne quando avevo ventidue anni, ma a ventitré smisi. Credo che il mio strumento sia la narrazione. La mia prosa è in realtà poesia». [...]

Quali romanzi (di quale nazione) sono stati i più grandi romanzi del XIX secolo?
«Probabilmente quelli russi - ricordo più nomi russi che altri».

Quale peso bisogna dare alle critiche che appaiono sulla stampa?
«Le critiche sono strumenti del mestiere. Lo fanno per soldi. È meglio non fare troppa attenzione alle critiche sui giornali. Alcune valgono la pena di essere lette, ma sono poche».
ERNEST HEMINGWAYERNEST HEMINGWAY

Quali sono secondo lei i cinque più grandi scrittori contemporanei?
«1. Thomas Wolfe; 2. Dos Passos; 3. Hemingway; 4. Cather; 5. Steinbeck.
(A questa domanda uno degli insegnanti presenti in classe si girò e aggiunse, dopo che Faulkner ebbe finito la lista: «Mi dispiace che stiamo mettendo alla prova la modestia di Mr Faulkner».

LEVINE HEMINGWAYLEVINE HEMINGWAY
A quel punto Faulkner ripeté la lista in questo modo: «1. Thomas Wolfe – ha avuto un gran coraggio, scriveva come se gli restasse poco da vivere. – 2. William Faulkner. 3. Dos Passos. 4. Hemingway – non ha coraggio, non ha mai rischiato. Non ha mai usato una parola che il suo lettore dovesse andare a cercare sul vocabolario. 5. Steinbeck – una volta avevo grandi speranze per lui, adesso non so»).









http://www.dagospia.com/rubrica-2/media_e_tv/letteratura-vista-faulkner-lontana-intervista-grande-scrittore-79083.htm






L’opera, lo stile
I romanzi di Faulkner ed i suoi numerosi racconti - che scrive per guadagnarsi  qualche soldo ma che sono all’altezza delle sue opere  principali - si distinguono per la loro profondità e per il loro stile invescato ed ermetico. La complessità di alcune frasi è tale che l’autore stesso riconosceva di non capirle. Ma ne L’urlo e il furore, ad esempio, il celebre “monologo di Benjy”, apparentemente sprovvisto di senso, mira a restituire il mondo così come è percepito da un idiota, e così come Faulkner lo concepisce. La nozione faulkneriana del divenire dell’umanità giustifica in sé il ricorso a questo stile. Accade lo stesso per la percezione della temporalità (lungamente studiata da Jean-Paul Sartre), che si esprime con lo sconvolgimento della successione cronologia tradizionale a favore della sua destrutturazione, di un tempo assente.

Il romanziere costruisce racconti a voci alternate, dove la verità traspare poco a poco, attraverso molte contraddizioni: in realtà, lo stile di Faulkner suppone una ritenzione, un occultamento della verità, che il lettore deve scoprire partecipando egli stesso all’azione narrata. Si può vedere qui una concezione particolare e molto relativa della realtà. D’altra parte, è lecito credere che l’utilizzo di tale tecnica stilistica corrisponda alla necessità di esprimere l’indicibile che non è senza relazione con i problemi psicologici che attanagliavano lo scrittore.  

La mitologia faulkneriana
Se l’opera  di Faulkner ha  conosciuto un successo universale  fu  forse dovuto ai  suoi démoni e alla sua sensibilità che  gli hanno permesso di trovare in sé stesso i grandi miti fondativi dell’umanità, valevoli per tutti i tempi e tutti i paesi. Il suo è pertanto un realismo a sfondo mitologico. Così André Malraux, riprendendo la critica americana, poté scrivere: “Santuario, è l’irruzione della tragedia greca nel romanzo poliziesco.”

Fra questi miti primordiali si rinviene  quello degli antenati fondatori, compreso in particolare modo il bisnonno dell’autore, sotto le palesi spoglie  del colonello Sartoris, nume tutelare della sua tribù. E il mito dell’incesto, presente in tutte le culture, appare anche nell’opera di Faulkner, come anche i miti legati alla fertilità: il tema della donna incinta (fecondità della donna, fecondità della terra) ritorna nella maggior parte dei suoi romanzi. Parallelamente, il mito ossessivo della morte e della rinascita si trova nel richiamo della distruzione di un Sud “invitto” dopo la guerra di Secessione. INFINE, e soprattutto, il grande mito faulkneriano  è quello della lotta eterna tra il bene ed il male, tra “noi” e “loro” (il Sud ed il Nord).  
http://lafrusta.homestead.com/pro_faulkner.html


william faulkner

Alberto Hurtado. E’ più facile insegnare che educare, perché per insegnare basta sapere, mentre per educare è necessario essere.


EDUCERE, TRARRE FUORI IL MEGLIO DALLE PERSONE.
“E’ più facile insegnare che educare, perché per insegnare basta sapere, mentre per educare è necessario essere.”
Alberto Hurtado


Educere “tirar fuori” diverso da abducere “inculcare”, addestrare partiamo da qui riflettendo sulle varie parole che spesso vengono sostituite con educare :insegnare, istruire, preparare, ammaestrare, addestrare, formare….

Le parole hanno un valore, un peso, un senso proprio per questo non si può prescindere dal comprenderne il significato per giungere al perché della confusione che si genera.

Il termine educazione è un termine complesso, che riprende l’accusativo educationem del sostantivo latino educatio. Quest’ultimo deriva dal verbo educare, che a sua volta proviene da educere, composto di e-e del semplice ducere.

Educere dal valore originario di trarre fuori, far uscire, aveva acquistato, nel tempo, anche quello ampliato di tirar su, far crescere, allevare, con particolare riferimento agli esseri umani nella loro infanzia,con in più un riferimento al far crescere in senso etico-morale. Ancora, un’ulteriore origine può essere ricondotta ad una forma estensiva del verbo edere ossia alimentare.

Ancora oggi il significato principale della parola mantiene gli elementi presi dalla tradizione: 
con educazione si indica cioè un processo di formazione dell’individuo in cui vengono passati da una generazione più anziana ad una più giovane non solo saperi tecnici, ma più in generale regole di comportamento e principi morali che mirano a far crescere bene i giovani, costituendo i presupposti per il loro buon inserimento nella società. Ciò tralascia il concetto più ampio di educazione permanente, continua nel corso della vita, come se l’adulto non avesse più opportunità di crescita personale ma fosse solo colui che “deve passare” .

Con educazione ci riferiamo dunque non solo alla crescita intellettuale di un individuo, ma anche alla sua capacità di adeguarsi a determinate regole e modelli sanzionati socialmente. Per questo definiamo beneducato chi sa comportarsi a modo; mentre è maleducato o addirittura ineducato chi non conosce le buone maniere e agisce di conseguenza e questo è bon ton, rispetto, il come comportarsi.
Tuttavia, anche il riferimento all’istruzione è presente nell’uso attuale: così si parla di educazione letteraria o linguistica, civica, musicale o artistica,tecnica o fisica. A tal proposito credo sia più corretto, per quanto detto sinora, utilizzare il termine formazione letteraria piuttosto che musicale, piuttosto che d’insegnamento.

Educare riguarda il modo, come si può formare, insegnare, tirando fuori dalla persona il meglio. Giocare con le parole appare sciocco ma se ci soffermiamo un attimo sulla parola EDUCAZIONE… la scomponiamo e EDUC-AZIONE, cioè il come mettere in atto (azione), promuovere ciò che è già presente sotto forma di potenzialità, abilità, disponibilità e qui entra in gioco, la pedagogia, il pedagogista.

Proprio in questo senso le scienze pedagogiche sono state definite scienze dell’educazione: e il legame tra pedagogia ed educazione è evidente quando ci si riferisce al concetto di educazione permanente come a un itinerario di formazione e di autoformazione che ciascun individuo realizza nel corso di tutta la vita quale rivisitazione continua delle proprie conoscenze e di adeguamento alle mutate condizioni ed esigenze della società. Ciascun essere umano ha potenzialmente l’intelligenza che lo conduce alla conoscenza graduale del mondo circostante e all’impiego di certi mezzi per impadronirsene e affermare se stesso. Ha già delle energie affettive da esprimere e delle naturali attitudini. Dipenderà in gran dall’educazione, dagli stimoli ambientali che quelle energie potenziali trovino il modo più compiuto e più equilibrato di realizzarsi.

Dunque, come trasmettere non solo le competenze tecniche, ma soprattutto le regole di vita, della legalità: il vero educatore è perciò colui che sa non solo parlare, ma soprattutto comunicare anche con la parte meno razionale, cognitiva ma più emotiva e personale di ognuno per comprendere come stimolare ciò che ogni persona ha in sé ed ottenere insieme il meglio in ogni ambito, scolastico, relazionale, sociale, lavorativo rispettando l’individualità tra la pluralità.
Non si può educare senza comunicare
Comunicare significa fondamentalmente “mettere in comune” con altri, informazioni, idee, emozioni etc. Questo scambio tra persone avviene soprattutto attraverso il linguaggio parlato o scritto, ma anche attraverso gesti e immagini. Possiamo affermare che qualsiasi nostro comportamento è comunicazione, tramite questa si determina anche il tipo di relazione tra gli attori del percorso educativo. La relazione, tramite la comunicazione veicola l’educare, il come trasmettere.

Il concetto d’educazione è più ampio di quello di istruzione (che si riferisce alla sola formazione delle competenze scolastiche, cognitive). L’impegno educativo imporrebbe alla scuola di superare l’idea che si debba solo istruire in ordine ad una dinamica insegnamento-apprendimento sempre più centrata sul rendimento, sull’efficientismo. L’obbligo starebbe nell’educare l’allievo a sentirsi “emotivamente”, a percepirsi come individuo perché possa esprimersi in maniera personale, in modo originale e creativo, con padronanza e consapevolezza…convogliare la propria emotività nella costruzione dell’”identità”…(Dizionario di pedagogia clinica).

Ora come direbbe qualcuno, “la domanda nasce spontanea”… a chi demandare il compito di educare?Esistono delle istituzioni educative specifiche e universalmente riconosciute come tali:

- la famiglia: sotto protezione e con l’appoggio dei genitori, il processo educativo ha la possibilità di svolgersi naturalmente e di portare i suoi frutti a tempo debito; quando la famiglia viene a mancare, l’intero sviluppo del bambino è compromesso: persino la crescita fisica, la deambulazione e lo sviluppo del linguaggio vengono ritardati;

- la scuola: oggi viene vista non soltanto come organo di trasmissione del sapere ma come organo di educazione nel senso più ampio del termine. È attraverso la scuola che il bambino si forma alla socialità;-la chiesa: le è affidata la formazione morale e religiosa, a completamento di quella iniziata nella famiglia. Un tempo ebbe anche il compito dell’istruzione quando mancavano le scuole municipali o statali. Oggi continua l’opera educativa anche attraverso istituzioni ricreative che offrono la possibilità di gioco o di attività agonistica e occasioni per l’educazione nel significato più proprio.

Come far comprendere, tirar fuori… la legalità, il rispetto, l’amore… come insegnare al meglio i saperi disciplinari questo è compito del pedagogista della sua ricerca continua, in evoluzione con i cambiamenti della società e dei tempi. Il pedagogista che dovrebbe lavorare in condivisione e sinergia con l’educatore, gli enti, la scuola, la famiglia per favorire i processi, le relazioni in funzione del fare educativo anche in collaborazione con altre professionalità che si occupano della persona.

Fondamentale quindi confronto, interazione e condivisione tra le principali istituzioni educative alle quali mettere a disposizione chi potrebbe, pedagogista, intervenire nei momenti di disagio, di confusione a sostegno del benessere prima dei minori, individui in sviluppo, dell’adulto, insegnante, genitore con l’obiettivo di educere, scegliere l’azione più efficace in funzione della prevenzione di eventuali problematiche che avranno la famiglia, la società come teatro degli agiti disfunzionali.
Ancora e non mi stancherò educazione a favore della prevenzione.

“L’istruzione finisce nelle classi scolastiche, ma l’educazione finisce solo con la vita.”
FREDERICK WILLIAM ROBERTSON


Dott.ssa Marzia Pantanella, Criminologo(criminologia e psicopatologia forense),Pedagogista clinico, Esperto nei processi mediativi, iscritta AIMef,. Consulente tecnico di parte in ambito civile e penale.
Studio: Via Curiel 3, 41015, Nonantola, Modena; Trento e Trieste Formigine (MO): 02636390607
Tel. 3930350412; mail: pantanella.77@libero.it



http://www.pilloledizucchero.it/educere-trarre-fuori-il-meglio-dalle-persone/



domenica 25 ottobre 2015

Mathias Malzieu, La meccanica del cuore. Sarà pur rimasto qualche sogno infantile nascosto sotto il cuscino, cercherei di non schiacciarlo con la testa carica di preoccupazioni da adulto. Proverei ad addormentarmi pensando di non svegliarmi mai.



Sarà pur rimasto qualche sogno infantile nascosto sotto il cuscino, cercherei di non schiacciarlo con la testa carica di preoccupazioni da adulto. Proverei ad addormentarmi pensando di non svegliarmi mai.
Mathias Malzieu, La meccanica del cuore



Ti amo di sbieco perché ho un cuore malandato fin dalla nascita. I medici mi hanno formalmente vietato di innamorarmi perché il mio orologio-cuore è troppo fragile per resistere. Ciò nonostante ho messo la mia vita nelle tue mani, perché oltre al sogno, tu mi hai regalato una dose d'amore tanto forte che mi sono sentito capace di affrontare qualunque cosa per te.
Mathias Malzieu, "La meccanica del cuore"







Francesco Sforza. Francesco era di umili origini: queste dovevano dolergli, e a ragione, se persino il papa Pio II Piccolomini, riferendosi a lui, poteva dire: “Ai nostri giorni anche i servi diventan padroni”





Era il 25 ottobre 1441..
Francesco Sforza, grazie al matrimonio con Bianca Maria, figlia naturale di Filippo Maria, garantiva la continuità del potere, fondando una nuova dinastia con sangue visconteo nelle vene.
Francesco era di umili origini: queste dovevano dolergli, e a ragione, se persino il papa Pio II Piccolomini, riferendosi a lui, poteva dire: “Ai nostri giorni anche i servi diventan padroni” o Filippo Maria, il futuro suocero, poteva rinfacciargli di essere di quegli uomini o capitani dei quali “non sappiamo ancora che sia stato suo padre”....
Lui quarant'anni lei sedici...alquanto bruttina ma ...con grande..dote...