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sabato 28 febbraio 2015

Edmondo De Amicis. Il destino di molti uomini dipese dall'esserci stata o non esserci stata una biblioteca nella loro casa paterna.


Il destino di molti uomini dipese dall'esserci stata o non esserci stata una biblioteca nella loro casa paterna.
Edmondo De Amicis


Perché l'originalità non esiste. Tutte le idee vivono dell’eredità di altre idee. E niente è mai completamente nuovo. Edward Young. Gli originali sono, e devono essere, i grandi favoriti, sono i grandi benefattori. Estendono il dominio della Repubblica delle Lettere e aggiungono una provincia ai suoi domini: gli imitatori ci sanno soltanto una sorta di duplicati di quello che avevamo, possibilmente migliorando, prima

Perché l'originalità non esiste
Tutte le idee vivono dell’eredità di altre idee. 
E niente è mai completamente nuovo
Jacopo Colò - 21/02/2015


La creatività è sempre combinatoria e l’originalità assoluta è un mito.
L’idea di originalità per come la conosciamo oggi è nata molto di recente nella storia della nostra cultura. 

  • Nel 1759, il poeta britannico Edward Young scrive nel suo Conjectures Concerning Original Composition che «gli originali sono, e devono essere, i grandi favoriti, sono i grandi benefattori. Estendono il dominio della Repubblica delle Lettere e aggiungono una provincia ai suoi domini: gli imitatori ci sanno soltanto una sorta di duplicati di quello che avevamo, possibilmente migliorando, prima». Young parla nello specifico di letteratura e poesia ma l’idea è chiara. I romantici criticavano il pensiero dominante delle culture precedenti alla loro, qualcosa che oggi ci suona strano se associato all’idea di cultura: che imitare fosse meglio che inventare.


  • Quando Shakespeare — uno dei più grandi autori della storia letteratura — scriveva e metteva in scena le sue opere in Inghilterra, quello che i suoi spettatori cercavano non era l’invenzione e l’originalità, ma la vicinanza a un canone, a un genere


  • Quando Mozart — celebrato come uno dei più grandi compositori e musicisti di tutti i tempi — suonava alla corte di Vienna, la sua produzione musicale era soprattutto un conformasi alle regole e alla tradizione dei suoi tempi

I romantici trasformano questo modo di pensare, dando valore all’individuo prima che alla cultura, al genio piuttosto che alla tradizione ed elevano l’idea nuova sopra di tutto. E riuscirono nel loro intento. Oggi, quando parliamo di idee, di cultura e di creatività, tendiamo a elogiare l’originale e disprezziamo il vecchio, il già visto, il già sentito. Il problema, però, è che le idee e la creatività non funzionano esattamente così.

Perché la creatività è sempre combinatoria. 
  • Il matematico Henri Poincaré, nel suo Scienza e metodo ha dato una delle definizione più efficaci di creatività, parlando della «capacità di unire elementi preesistenti in combinazioni nuove, che siano utili». L’idea è che ogni idea sia un remix che mescola aspetti di idee diverse — magari anche da campi diversi o da epoche diverse — in una nuova forma. Ogni idea si porta dietro un’eredità di idee precedenti e niente nasce dal nulla. Non le nostre bellissime idee, non quelle dei romantici. La questione è capire quanto siamo disposti ad ammetterlo.


La storica dell’arte Penelope Alfrey dice che: 
«il mito dell’originalità nell’arte e nel design ha un considerevole valore commerciale come strumento per vendere, ma la realtà è che copiare sostiene l’economia del commercio. Senza copiare, produrremmo, faremmo e consumeremmo di meno. E ci sarebbero meno opere d’arte in giro». 

Anche senza espandere l’analisi all’intero mondo delle invenzioni (che sarebbe un po’ come dire all’interno mondo delle cose create dall’uomo) basta fermarsi alla cultura recente per dimostrare quanto quello che dicono Poincaré e Alfrey sia vero. E per farlo non serve nemmeno arrivare ad autori come Tarantino, che di rimescolare, citare e trasformare hanno fatto non solo un marchio di fabbrica ma anche un vanto.

Guerre Stellari e Metropolis
A guardarlo da vicino, Guerre Stellari non è così originale. 
Lucas ha copiato un po’ da tutti, da Kurosawa ad Asimov.

Guerre Stellari, ad esempio.
L’opera spaziale di George Lucas non è solo un film, è un franchise da quasi quarant’anni domina la cultura popolare. Pensare a Guerre Stellari vuol dire pensare a un universo fantastico creato da zero, zeppo di creature mai viste e di pianeti lontani. Ma a guardarlo da vicino, Guerre Stellari non è così originale. Dentro alla saga di fantascienza di George Lucas c’è di tutto: Isaac Asimov, Flash Gordon, i film di Akira Kurosawa, gli western e film di guerra sulla seconda guerra mondiale. Ci sono intere scene di The Dam Busters del 1955 e di Squadron 633 del 1964 che in Guerre Stellari non sono semplicemente citate ma interamente copiate, rifatte quasi fotogramma per fotogramma. E poi ancora: il droide dorato R2D2 è praticamente il corrispettivo maschile del robot di Metropolis di Fritz Lang, il costume di Darth Vader è ispirato a un personaggio della serie di film The Fighting Devil Dogs e i cavalieri jedi altro non sono che samurai con delle spade laser (e persino il nome è una storpiatura di Jidai Geki, il genere di film e opere giapponesi in cui si racconta l’epoca dei samurai).

Serve altro? Pensiamo a The Matrix, uno dei film di fantascienza più apprezzati degli ultimi anni. Anche se non è riconosciuto per l’originalità della sua trama — che è un mescolone di cyberpunk, di filosofia e di Alice nel Paese delle meraviglie — lo è per le innovazioni nella regia e negli effetti visivi (premiati anche con un premio Oscar nel 1999). Ma anche qui, c’è ben poco di originale. Le coreografie dei combattimenti sono prese pari pari dai film di arti marziali di Hong Kong e le sparatorie sembrano uscite da un film di John Woo. Persino il bullet time, la tecnica registica che i fratelli Wachowski usano quando la macchina da presa si muove a rallentatore attorno a Neo mentre i proiettili degli agenti gli sfrecciano intorno, e che i due registi sono riconosciuti come inventori, non è nuova. Uno dei primi esempi di uso di questa tecnica è in un’anime (un cartone animato) giapponese che si chiama Speed Racer. Cosa hanno girato i fratelli Wachowski dopo la trilogia di Matrix? Ah, sì, un film che si chiama Speed Racer e che è basato esattamente su quel cartone. Andando a spulciare tra le note di produzione del film, scopriamo che i due erano appassionati della serie fin da bambini e che quel bullet time non è esattamente saltato fuori dal nulla.

Nel suo TED Talk Everything is a Remix, il regista Kirby Ferguson mostra quanto uno dei cantautori più amati dell’ultimo secolo, Bob Dylan, abbia costruito decine di canzoni che oggi riconosciamo come classici pescando a piene mani dalla tradizione folk statunitense, a volte copiando i testi, a volte le melodie. Masters of War di Dylan ha la stessa struttura della canzone tradizionale Nottamun Town, Don't Think Twice, It's All Right (che inizia con It ain’t no use to sit and wonder why, babe) ha quasi lo stesso testo di Who’s gonna buy you ribbons (che inizia con It ain't no use to sit and sigh now, darlin). E via così per molti di altri brani.


Gli infiniti rinnovi di copyright sulle cose del ‘900

Jacopo Colò
Bob Dylan non è da solo. Moltissimi cantanti folk trasformano vecchie melodie e vecchie parole in nuove canzoni. Così come fa l’hip-hop. Così come fa il blues. Così come fa il pop.
Quello che fa Dylan non è una cosa strana, moltissimi cantanti folk fanno lo stesso lavoro, trasformando vecchie melodie e vecchie parole in nuove canzoni. Così come fa l’hip-hop. Così come fa il blues. Così come fa il pop. Così come fa, ora dovrebbe essere chiaro, chiunque produca qualcosa di nuovo, dal cinema all'arte, dai videogiochi al fumetto. L’originalità che ci hanno raccontato i romantici è un mito perché non esiste operazione creativa che non produca qualcosa di nuovo, almeno nella combinazione degli elementi. L’originalità è un mito perché è falsa: quando una cosa ci sembra radicalmente nuova è perché noi, e a volte persino l’autore stesso, non ci ricordiamo più e non riconosciamo con quali pezzi è fatta. La questione è solo cambiare punto di vista e ammetterlo, rendendo tutti più liberi di creare più cose nuove, mescolandone di vecchie.

http://www.linkiesta.it/mito-originalita-assoluta-creativita-combinatoria


http://youtu.be/28Ayy6XwFBg
Guerre Stellari e Metropolis



Cuore di creta. come si ottiene la terracotta dall’argilla e quali sono gli aspetti positivi per un artista che lavora questo materiale. L’argilla è la materia più comune per lo scultore ed è anche tra le più antiche. Si trova diffusamente in natura, ed essendo una materia fittile è facile da plasmare. Occorre tuttavia fare molta attenzione, perché bisogna calcolare che il manufatto si ritira e si riduce di dimensioni quando si asciuga, a causa dell’evaporazione dell’acqua, e così pure quando si cuoce per ottenere la terracotta, che è un tipo di ceramica. Vi si possono inoltre applicare i colori ed eventualmente degli smalti per ottenere una finitura affascinante, simile ad un dipinto. Naturalmente l’argilla cotta diventa più robusta, e la sua resistenza può persino essere millenaria.

Cuore di creta.
Molto spesso, ammirando una scultura, si resta affascinati non solo da ciò che rappresenta ma anche dal lavoro dell’artista che essa sottende e che sembra ai più un misterioso miracolo. Il raggiungimento di un risultato finale in scultura implica in effetti una serie di passaggi intermedi piuttosto complessi con l’ausilio di materiali diversi da quello definitivo. Conoscere la tecnica e la sua storia consente allora di penetrare un poco i segreti dell’arte plastica e con ciò di assaporare meglio l’abilità e il genio dell’artefice. “Stile” ha già affrontato questo tema approfondendo la tecnica del gesso; ora è la volta della terracotta. Rivolgiamo alcune domande sull’argomento a Bruce Boucher, docente di Storia dell’arte all’University College di Londra, nonché esperto di scultura italiana e curatore di varie mostre sull’argomento.

Professor Boucher, ci illustri per cominciare qualche caratteristica tecnica: ovvero, come si ottiene la terracotta dall’argilla e quali sono gli aspetti positivi per un artista che lavora questo materiale.
L’argilla è la materia più comune per lo scultore ed è anche tra le più antiche. Si trova diffusamente in natura, ed essendo una materia fittile è facile da plasmare. Occorre tuttavia fare molta attenzione, perché bisogna calcolare che il manufatto si ritira e si riduce di dimensioni quando si asciuga, a causa dell’evaporazione dell’acqua, e così pure quando si cuoce per ottenere la terracotta, che è un tipo di ceramica. Vi si possono inoltre applicare i colori ed eventualmente degli smalti per ottenere una finitura affascinante, simile ad un dipinto. Naturalmente l’argilla cotta diventa più robusta, e la sua resistenza può persino essere millenaria.

Dal punto di vista storico, l’impiego della terracotta per la scultura risale all’antichità, ma in Italia si assiste ad un uso massiccio del materiale dal XIV secolo circa. A cosa si deve questa intensificazione nell’utilizzo? Ci può fare qualche esempio di scultura dell’epoca sopravvissuta fino ad oggi?
A cavallo tra il Trecento e il Quattrocento, l’importazione in Italia di maiolica (il cui nome deriva da una distorsione del nome dell’isola di Majorca) sembra avere stimolato l’industria locale, soprattutto nelle zone dove vi era una certa carenza di pietra come materia prima. Si trattava soprattutto delle Marche, della Lombardia e del Piemonte, dove le maestranze svilupparono un interesse in altre forme d’arte plastica, tra cui appunto la ceramica. Al Museo Diocesano di Ancona, ad esempio, si trova una statua di San Marcellino. Quando essa fu scoperta, negli anni Trenta del secolo scorso, si pensò che fosse un lavoro del Quattrocento, ma studi recenti hanno accertato che risale ai primi anni del Trecento. Dai manoscritti, sappiamo anche dell’esistenza di tombe della stessa epoca, che non sono sopravvissute ma che testimoniano l’ampia produzione di opere in ceramica in quella zona. Non bisogna dimenticare poi che a Firenze, nei primi anni del Quattrocento, vi era il grande esempio della bottega di Lorenzo Ghiberti, che fu un vero e proprio laboratorio, sia del marmo che della terracotta, per tanti scultori rinomati come Donatello, Michelozzo e via dicendo. La lavorazione della creta era oltretutto fondamentale nella produzione delle formelle per i grandi portali del Battistero fiorentino. Secondo molti studiosi del Novecento, tra cui Wilhelm Bode, terrecotte come la “Creazione di Eva”, del Museo dell’Opera del Duomo di Firenze, erano esattamente una sorta di prova, nel processo di esecuzione delle formelle e delle statue bronzee del circolo ghibertiano.
La divisione rinascimentale tra arti maggiori e arti minori relegò la terracotta nella sfera dei materiali meno nobili e, come sottolineava il Vasari, appropriata soprattutto per i bozzetti e i modelli preparatori all’esecuzione in bronzo o in marmo. Quali erano, allora, i vari passaggi adottati da Donatello o dal Giambologna prima di realizzare l’opera finale?
Sicuramente Vasari ha contribuito a sottovalutare le opere in creta o in qualsiasi altro materiale che non fosse il marmo, secondo una scala di valori che vedeva in testa il mito della scultura “in levare” di Michelangelo; e questa visione ha poi influenzato per secoli la lettura della scultura quattrocentesca. In realtà in quel secolo non vi era affatto disprezzo per la creta, e neppure per lo stucco. Oggi sappiamo che Donatello lavorava con materie diverse, spesso addirittura utilizzate insieme (un fatto questo che Vasari ignorava) come nella “Madonna Piot” (1460) del Louvre: e sappiamo che queste nuove tecniche erano ben accolte dai conoscitori. Per esempio, Lamberti lodava le tecniche di Brunelleschi e Donatello come “arti e scienze mai viste” nella sua premessa al “Della pittura” del 1436. Ovviamente tutti i grandi scultori impiegavano la creta come prima traduzione dell’idea, che poi sviluppavano in versioni sempre più grandi. Le terrecotte del Quattrocento rimaste sono raramente studi: sono quasi tutte o modelli finiti dell’opera, pronti per essere traslati in marmo o bronzo, oppure opere devozionali (rilievi o busti di Gesù Bambino, di San Giovannino, e cosi via). Dal Cinquecento in avanti invece si cominciarono a conservare anche i bozzetti e i modelli in creta a grandezza naturale, quali studi anatomici dal vero, secondo l’uso accademico.

I bozzetti e i modelli avevano un loro mercato?
Sì, certo, dal tempo di Michelangelo e Giambologna in poi i bozzetti diventano oggetto di collezionismo. In particolare, i committenti del Giambologna raccoglievano i suoi modellini in cera e creta, e sappiamo da fonti contemporanee che un personaggio come Bernardo Vecchietti aveva intere camere dedicate ad essi. Questo fatto è molto importante perché indica un cambiamento nel gusto, dovuto all’apprezzamento degli “studi preparatori”. Il collezionismo di bozzetti in terracotta era di fatto parallelo a quello dei disegni su carta. Una tendenza che, d’altra parte, aveva precedenti nell’antichità se, come narra Plinio nella “Storia naturale”, i bozzetti di importanti scultori greci erano più apprezzati delle opere finite di altri artisti mediocri.
La terracotta continuò comunque ad avere impieghi diversi: nella realizzazione di copie, ma anche come materiale definitivo per decorazioni murarie degli edifici, oppure – invetriata o smaltata o magari semplicemente colorata – per simulare altri materiali (il legno o il bronzo) o per essere più “verosimile”, come nei magnifici quadri viventi del Sacro Monte di Varallo. Può farci qualche altro esempio in proposito?
Le prime formelle ed i primi bassorilievi in terracotta spesso venivano smaltati come i vasi. Il fatto è che gli scultori si rivolgevano ai vasai per la cottura dei loro manufatti, così come alle fonderie per la fusione dei bronzi. Era una competenza tecnica specifica, ma la divisione tra le arti era allora piuttosto fluida. Interessante è ugualmente il collegamento tra scultura e architettura. Basta pensare a Giuliano, Benedetto e Giovanni da Maiano, famiglia che aveva una bottega di scultura e architettura: qui come altrove la collaborazione era all’ordine del giorno. E così pure i Sangallo rivelavano analoga capacità di passare dalla scultura all’architettura. Quanto al Sacro Monte di Varallo, vi era una grande tradizione di artisti in grado di lavorare una gamma di materiali differenti, come Gaudenzio Ferrari nel Cinquecento e poi i fratelli Tanzio ed Enrico da Varallo nel Seicento. Una tradizione risalente ancora prima, ai tempi di Niccolò dell’Arca e Guido Mazzoni in Emilia Romagna. In epoca barocca, la complessità delle opere richiedeva molti bozzetti e modelli preparatori. Sono rimasti vari esempi di questo genere, eseguiti da Bernini e da Algardi per opere famose: bozzetti che consentono oltretutto di osservare più da vicino le diverse modalità di lavoro e lo stile dei due grandi artisti. Quali sono le differenze e le analogie più interessanti?
Nella mostra “Earth and Fire”, attualmente in corso a Londra, abbiamo riunito per la prima volta sette angeli del Bernini, provenienti da musei di Roma, Parigi, San Pietroburgo, e dall’America. Osservandoli, si capisce immediatamente che a Bernini non interessava l’opera finita: anzi, ogni modellino o bozzetto era una specie di studio in cui l’artista si concentrava su un aspetto saliente del progetto (il panneggio, il contrappunto, ecc.). Le altre parti di creta erano lasciate incompiute e crude. Bernini non si curava affatto della cottura di questi oggetti (le indagini più recenti hanno svelato che la cottura di molti suoi bozzetti è postuma, voluta per renderli più duraturi). L’atteggiamento dell’Algardi era invece molto diverso. Egli lavorava la creta in modo più meticoloso e puntuale, e non lasciava mai abbozzi simili a quelli berniniani. Un aspetto tipico della sua personalità artistica, coerente con la produzione generale.
Nel Settecento, invece, si deve soprattutto a Canova il rinnovamento dell’idea di bozzetto e di opera finita. Ma si tratta altresì di un cambiamento che riguarda l’intera concezione della “bottega”. A cosa si deve questa evoluzione, e quali furono le novità rispetto all’epoca precedente?
Nel Settecento si assiste ad una crescita del valore della terracotta in sé. Molti scultori realizzarono opere finite, spesso simulando un bozzetto, per renderle più attraenti. Il lavoro del Clodion (che trascorse molti anni a Roma) è indicativo di questa tendenza. Altri scultori, come Filippo della Valle, vendettero repliche delle proprie statue in terracotta quali souvenir ai viaggiatori del Grand Tour. Sempre secondo il “culto dello schizzo”, studiosi come Winckelmann esprimevano una preferenza per il primo pensiero anziché per l’opera finita. Winckelmann sosteneva infatti che la lavorazione in creta era come la prima spremitura dell’uva, e quindi la più fresca espressione della mente dell’artista. Con Canova, invece, iniziò la pratica dei modellini in stucco piuttosto che in terracotta (soprattutto dopo il 1800), e la sperimentazione del calco in gesso come metodo per conservare i bozzetti, rendendo duraturo il gesto originale, di cui si potevano fare oltretutto diverse repliche; ma, allo stesso tempo, il modello originale in creta veniva distrutto nel processo di formatura. Per ciò sono rimasti assai pochi bozzetti in terracotta (tra cui, per esempio, quelli della “Maddalena penitente”, del 1793). E proprio questo è stato il momento che segna il tramonto della grande tradizione della terracotta nella scultura italiana.
(Stile Arte,01.03.2002)
http://www.stilearte.it/cuore-di-creta/
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terracotta nicolò dell'arca


Ito Ogawa. Ci sono cose che non possono assolutamente tornare ma che al tempo stesso, pur non potendo tornare, restano eternamente presenti.

Ci sono cose che non possono assolutamente tornare
ma che al tempo stesso,
pur non potendo tornare,
restano eternamente presenti.
Ito Ogawa




Terapista della Neuropsicomotricità dell'Età Evolutiva. Quali sono le principali tappe dello sviluppo psicomotorio del bambino? Per quanto riguarda lo sviluppo psicomotorio si focalizza l'attenzione su quattro aree: la lateralizzazione, lo schema corporeo, l'orientamento spaziale e quello temporale.

Intervista alla terapista
di Floriana Boffo

Quali sono le principali tappe dello sviluppo psicomotorio del bambino?

Per quanto riguarda lo sviluppo psicomotorio si focalizza l'attenzione su quattro aree: la lateralizzazione, lo schema corporeo, l'orientamento spaziale e quello temporale


Lateralizzazione.
La prima consiste nella consapevolezza, da parte del bambino, che il corpo è costituito da due parti simmetriche e che si utilizza in modo dominante un solo lato

Schema corporeo.
Lo schema corporeo è invece la cognizione e la percezione delle varie parti del corpo, a cosa servono, come si chiamano, come si possono rappresentare

Orientamento spaziale.
L'orientamento spaziale è la consapevolezza che gli oggetti, gli elementi dell'ambiente, se stessi e il proprio corpo sono correlati tra loro secondo rapporti topologici (sotto-sopra, dentro-fuori, davanti-dietro…). 

Orientamento temporale.
L'orientamento temporale è invece la comprensione delle relazioni temporali e causali che esistono tra gli eventi

Descriviamo ora le abilità dei bambini sotto questi aspetti tra i tre e i sei anni. 
  • I bambini tra i tre e i quattro anni iniziano a scendere e a salire le scale autonomamente senza appoggio, a lanciare la palla tentando di direzionare il tiro, a costruire una torre o un treno con i cubi. Cominciano ad afferrare e a utilizzare gli oggetti sempre con la stessa mano (sinistra o destra), così come con il piede e l'occhio. Il disegno della figura umana consiste nell'omino cefalopode ossia un omino formato dalla testa, completa di occhi naso e bocca, da cui partono gli arti. A livello di organizzazione spazio-temporale sanno identificare sugli oggetti alcuni concetti: aperto-chiuso, sotto-sopra, vicino-lontano, lungo-corto, davanti-dietro-di fianco e comprendono a grandi linee il significato di prima e dopo. 


  • I bambini dai quattro ai cinque anni sono maggiormente padroni del proprio corpo, sanno stare in equilibrio su un piede solo per qualche secondo, eseguire compiti più raffinati di motricità fine come utilizzare le forbici. La dominanza si definisce sempre di più e il bambino ne prende consapevolezza. La rappresentazione grafica della figura umana è più completa, iniziano ad essere inseriti il tronco e qualche dettaglio; le parti del corpo vengono denominate, anche quelle più piccole (ad esempio le articolazioni: ginocchio, gomito etc). A livello spaziale vengono discriminate, denominate e riprodotte alcune forme geometriche e se ne sa descrivere la posizione ("il quadrato è dentro al cerchio"). Si raffina l'orientamento spaziale, ora si riesce a individuare ciò che è successo prima e dopo e si utilizzano termini più specifici come ieri, domani, l'altro giorno. 


  • Tra i cinque e i sei anni evolve enormemente tutto ciò che è legato al grafismo, sia a livello simbolico sia a livello esecutivo-motorio. I bambini in questa fase perfezionano la prensione dello strumento grafico, sono maggiormente coordinati nei movimenti, iniziano ad allacciarsi le scarpe, abbottonare e sbottonare, aprire e chiudere la zip. Riescono a riconoscere su di sè la destra e la sinistra ma si confondono se devono farlo su una persona posta di fronte a loro. Inseriscono tutte le parti del corpo nel disegno della figura umana, arricchendola di particolari e differenziandola per sesso ed età del personaggio. Sono in grado di dire dove abitano e la propria età; riordinano una storia in sequenza comprendendo i nessi logico-temporali e causali.


Intervista alla terapista: Il mio lavoro di Terapista dell'Età Evolutiva ha come oggetto il bambino. 
Questo è però inserito in una "rete" in cui i protagonisti sono in genere la famiglia e la scuola; è proprio dalle persone appartenenti a queste due categorie che mi piovono addosso una miriade di domande. Ho pensato quindi che potrebbe essere interessante condividere i dubbi di genitori e insegnanti e le risposte che diamo noi professionisti facenti parte dell'equipe.


Floriana Boffo: Mi chiamo Floriana Boffo, sono una Terapista della Neuropsicomotricità dell'Età Evolutiva. Ho conseguito la laurea a Roma presso l'Università La Sapienza con votazione di 110/110 e lode nel 2007 e da allora ho lavorato e lavoro tuttora in centri di riabilitazione convenzionati e privati dove valuto e tratto bambini con Disturbi dello Sviluppo. Ho conseguito un Master di primo livello in "Disturbi dell'Apprendimento Scolastico" e partecipato alla stesura delle linee guida sul trattamento dell'autismo presso l'istituto Superiore di sanità. Mi aggiorno costantemente tramite corsi e convegni sugli argomenti di maggiore interesse per la mia professione. Nel 2012 con alcuni colleghi ho aperto uno studio privato a Roma "Riabilitazione Monteverde". 
Sito web: www.riabilitazionemonteverde.com mail: floriana.boffo@gmail.com



New York - La Grande Mela. La città di New York è anche conosciuta con un altro simbolo: essa è definita “la Grande Mela”. Nel 1909, Edward S. Martin nel suo libro “The Wayfarer in New York” definì lo stato di New York come un melo con le radici piantate nella valle del Mississipi e il frutto, la mela, a New York. Negli Anni ’20, il termine fu ripreso dal cronista sportivo John Fitzgerald, riferendo come per gli scommettitori di corse di cavalli, New York fosse "la mela" (cioè il frutto) più ricca per i guadagni.



LA GRANDE MELA
New York è una città degli Stati Uniti, una delle più grandi e più famose del mondo intero. 
Affaccia sull’Oceano Atlantico, ed è stata la porta verso il nuovo mondo e una nuova vita nei lunghi anni del fenomeno dell’immigrazione. Ad accogliere milioni di disperati, che da lontano partivano affrontando il viaggio della speranza, la Statua della Libertà, simbolo del “sogno americano”. La città di New York è anche conosciuta con un altro simbolo: essa è definita “la Grande Mela”. Nel 1909, Edward S. Martin nel suo libro “The Wayfarer in New York” definì lo stato di New York come un melo con le radici piantate nella valle del Mississipi e il frutto, la mela, a New York. Negli Anni ’20, il termine fu ripreso dal cronista sportivo John Fitzgerald, riferendo come per gli scommettitori di corse di cavalli, New York fosse "la mela" (cioè il frutto) più ricca per i guadagni. Intanto, l’idea dell’identificazione col frutto prendeva sempre più piede, considerando che i musicisti jazz, durante il proibizionismo, suonavano nei locali di Harlem e Manhattan e ricevevano come ricompensa una grande mela rossa. Da qui l’affermarsi di questo soprannome. Fino a quando, nel 1997, il sindaco della città, Rudolph Giuliani, denominò "Big Apple Corner" l'angolo tra la 54° West Street e Broadway, dove il giornalista John J. Fitzgerald aveva abitato, per rendergli omaggio.




Se il "frutto" della civiltà occidentale per antinomasia è New York, uno dei posti meno rappresentativi della natura, ove cemento, grattacieli e consumi di energia sono vertiginosi da molti molti anni ormai, se tale "frutto" simbolico nasce da una similitudine con un albero, e se tale "frutto" sia proprio una mela, ossia simbolo del peccato originale nei testi sacri della religione cristiana, quella prevalente a New York, è facile associare quella città al declino culturale, ambientale e morale che stiamo vivendo. A New York il dominio del potere, del controllo delle risorse e delle decisioni su come impiegarle sono senza dubbio sotto gli occhi di tutti: imparare a vedere le cose come stanno è necessario per progredire...



Quando penso a questa città, dove sono nato e cresciuto, questa Manhattan di cui canta Whitman, una rabbia cieca, incandescente, mi sfiora le budella. New York. Le prigioni bianche, i marciapiedi brulicanti di vermi, le file del pane, gli spacci d'oppio costruiti come palazzi, gli sporchi ebrei che ci stanno dentro, i lebbrosi, sicari, e sopra tutto, l'ennui, la monotonia dei volti, strade, gambe, case, grattacieli, pasti, manifesti, mestieri, delitti, amori... Una città intera eretta sopra una vuota fossa di nullitàSenza significato. Assolutamente senza significato. E la Quarantaduesima Strada! La vetta del mondo, la chiamano. E il fondo allora dov'è? Se vai con la mano tesa, ti mettono cenere nel berrettoRicchi o poveri, camminano con la testa buttata all'indietro e quasi si rompono l'osso del collo per levare lo sguardo sulle loro bellissime prigioni bianche. Vanno avanti come oche cieche e i riflettori spandono sui loro volti vuoti chiazze di estasi.
Henry Miller, Tropico del Cancro



“Immagino che le strade d’America si uniscono tutte a formare una enorme latrina, una latrina dello spirito in cui tutto è assorbito e ridotto a merda imperitura. Sopra a questa latrina lo spirito del lavoro intesse una magia: palazzi e fabbriche spuntano fianco a fianco, polverifici e stabilimenti chimici e acciaierie e sanatori e prigioni e manicomi. Tutto il continente è un incubo che produce la più gran miseria per la più grande massa.”
Henry Miller, "Tropico del Capricorno"


L'uomo bianco è come un serpente che si mangia la coda per vivere.
E la coda diventa sempre più corta.
Le nostre usanze sono diverse dalle vostre.
Noi non viviamo bene nelle vostre città, che sembrano un'infinità
di nere verruche sulla faccia della terra.
La vista delle città dell'uomo bianco fa male agli occhi dell'uomo rosso
come la luce del sole che colpisce gli occhi di chi emerge da una grotta buia.
Nelle città dell'uomo bianco ci si sforza sempre di superare in velocità una valanga.
Il rumore sembra perforare le orecchie.
Ma che senso ha di vivere se non si riesce a sentire
il verso solitario del tordo o il gracidare delle rane di notte intorno ad uno stagno?
Ma io sono un uomo rosso e non capisco.
Io preferisco il vento che dardeggia sulla superficie di uno stagno
e il profumo del vento stesso, purificato da uno scroscio di pioggia a mezzogiorno.
L'aria è preziosa per l'uomo rosso, perchè tutte le cose condividono lo stesso respiro;
gli animali, gli alberi, e l'uomo, partecipano tutto dello stesso respiro.
L'uomo bianco non si preoccupa dell'aria fetida che respira.
Come un uomo che ormai soffre da molti giorni, è insensibile al tanfo.
Tutte le cose sono collegate.
Tutto ciò che accade alla terra accade ai figli e alle figlie della terra.
L'uomo non ha intrecciato il tessuto della vita;
ne è solamente un filo.
Tutto ciò che egli fa al tessuto, lo fa a se stesso.
IL DIO DELL'UOMO BIANCO GLI DIEDE IL POTERE SUGLI ANIMALI,
SUI BOSCHI E SULL'UOMO ROSSO, per qualche scopo preciso,
ma questo destino è un mistero per l'uomo rosso.
Noi forse potremmo arrivare a capire se sapessimo che cosa sogna l'uomo bianco,
quali sono le speranze di cui parla ai propri figli nelle lunghe notti d'inverno,
quali sono le visioni che marcano a fuoco i suoi occhi e che questi desidereranno
all'indomani.
I sogni dell'uomo bianco sono ignoti, noi ce ne andremo sulla nostra strada.
Capo seattle degli Suquamish 1853.



venerdì 27 febbraio 2015

Cherubino. Pochi sanno che i "cherubim" cioè i cherubini altro non sono che i "tori volanti" della religione caldea (babilonese). La radice ebraica KRB (leggi: kaph-resh-beth) è correlata con l'accadico "Karibu" cioè il nome dei geni o tori alati della religione caldea. Questi esseri entrarono nel mondo religioso ebraico in seguito alla cattività babilonese e alla "visione di Ezechiele"...quindi successivamente alla stesura della Talmud babilonese (sorvoliamo sulla complessa datazione dei vari testi della Tanakh, l'Antico testamento). Sia i Karibu (il "lamassu" babilonese) che i Cherubini avevano peraltro la funzione di "guardiani"



Pochi sanno che i "cherubim" cioè i cherubini altro non sono che i "tori volanti" della religione caldea (babilonese). La radice ebraica KRB (leggi: kaph-resh-beth) è correlata con l'accadico "Karibu" cioè il nome dei geni o tori alati della religione caldea. Questi esseri entrarono nel mondo religioso ebraico in seguito alla cattività babilonese e alla "visione di Ezechiele"...quindi successivamente alla stesura della Talmud babilonese (sorvoliamo sulla complessa datazione dei vari testi della Tanakh, l'Antico testamento).
Sia i Karibu (il "lamassu" babilonese) che i Cherubini avevano peraltro la funzione di "guardiani".

Da lì i "cherubini" si sono diffusi nelle religioni derivate dall'ebraismo, compreso l'Islam. Nell'arabo classico coranico queste entità sono dette "karūbiyūn".



Debbie Ford. La proiezione è un fenomeno affascinante che a scuola difficilmente ci viene insegnato. E’ un trasferimento involontario del nostro comportamento inconscio sugli altri, in modo da farci credere che queste qualità in realtà appartengano ad altre persone.

Luisa Ferrari Scopelliti 
La proiezione è sempre in atto anche per gli aspetti positivi come per esempio quando ci innamoriamo.


LA PROIEZIONE: Ciò che vediamo negli altri quanto ci appartiene?
8 giugno 2014

Il fenomeno psichico della “PROIEZIONE” è uno dei fenomeni più discussi e rivoluzionari della mente umana scoperti  dalla psicologia.
Come molti altri fenomeni psicologici anche questo ha un fortissimo correlato neurofisiologico, legato anche ai nuclei di personalità più o meno autonomi chiamati in psichiatria e psicologia “Complessi a tonalità affettiva” (cliccare per leggere il post sui Complessi).
Qui di seguito vari estratti molto esaustivi di noti autori che descrivono il fenomeno della proiezione in maniera brillante con relativi esempi.

SULLA PROIEZIONE
«Se provate a indicare qualcuno tenendo la mano dritta davanti a voi, vi accorgete che un dito è puntato verso l’altra persona ma tre sono rivolte verso di voi: questo può servire a ricordarvi che quando denigriamo gli altri in realtà stiamo solo negando un aspetto di noi stessi.»
(Illumina il tuo lato Oscuro – Debbie Ford. Macro Edizioni 2012, p.46)

La Proiezione (Debbie Ford)
La proiezione è un fenomeno affascinante che a scuola difficilmente ci viene insegnato. 
E’ un trasferimento involontario del nostro comportamento inconscio sugli altri, in modo da farci credere che queste qualità in realtà appartengano ad altre persone. Quando siamo ansiosi riguardo alle nostre emozioni o ai lati inaccettabili della nostra personalità, per un meccanismo di difesa attribuiamo queste qualità agli oggetti esterni e agli altri. Se per esempio abbiamo scarsa tolleranza nei confronti degli altri, probabilmente è perché tendiamo ad attribuire loro il nostro stesso senso di inferiorità. Ovviamente c’è sempre un “gancio” che ci invita a compiere la proiezione; una particolare qualità imperfetta degli altri attiva alcuni aspetti del nostro io che rivendicano la nostra attenzione. Così qualunque cosa dell’io non riconosciamo come nostra viene proiettata sugli altri. Tutti noi vediamo solo ciò che siamo

Mi piace pensare a questo fenomeno in termini di energia elettrica. 
Immaginate di avere un centinaio di prese elettriche differenti sul petto, e ognuna di esse rappresenti una qualità. Le qualità che riconosciamo e abbracciamo hanno un coperchio di protezione, perciò sono sicure: non sono percorse dalla corrente. Invece le qualità che ci creano problemi, quelle che non abbiamo ancora riconosciuto e fatto nostre, hanno carica elettrica. Così, quando si presentano individui che mettono in atto una di queste qualità, è come se essi inserissero la spina direttamente nella nostra presa. Se per esempio siamo a disagio con la nostra rabbia o la neghiamo, attireremo persone colleriche nella nostra vita, sopprimeremo il nostro personale senso di rabbia e sentenzieremo che gli altri sono collerici. Dal momento che mentiamo a noi stessi riguardo ai nostri sentimenti più intimil’unico modo per ritrovarli è vederli negli altri: essi ci rimandano l’immagine riflessa delle nostre emozioni nascoste, e questo ci permette di riconoscerle e riappropriarcene. Istintivamente ci ritraiamo dalle nostre proiezioni negative: è più facile esaminare ciò da cui siamo attratti piuttosto che guardare ciò che ci ripugna
Se mi offendo della tua arroganza è perché non sto accettando la mia stessa arroganza
Si può trattare di un sentimento che senza accorgermene sto manifestando nella vita presente, oppure di arroganza che nego di poter manifestare nel futuro. Se la tua arroganza mi offende, devo rivolgere uno sguardo attento a tutte le aree della mia vita e devo pormi qualche domanda. 
Quando sono stato arrogante in passato? 
Mi sto comportando in modo arrogante nel presente? 
Potrei essere arrogante in futuro? 
Sarebbe certo arrogante da parte mia rispondere negativamente a tutte queste domande senza davvero esaminare me stesso o senza chiedere agli altri se abbiano mai visto in me atteggiamenti arroganti. L’atto di giudicare qualcun altro è arrogante, perciò ovviamente noi tutti siamo capaci di arroganza. Se abbraccio la mia stessa arroganza, quella altrui non mi potrà turbare: potrò notarla, ma non avrà alcun effetto su di me. (…)

E’ solo quando mentiamo a noi stessi o odiamo qualche aspetto del nostro io che riceviamo una scossa emozionale dal comportamento di qualcun altro. (…)
Se non fosse per il fenomeno della proiezione, (l’ombra) potrebbe rimanere nascosta per tutta la vita perché alcuni di noi hanno seppellito questi tratti quando avevano tre o quattro anni.
(…) Ciò che proiettiamo, se non lo possedessimo anche noi, non potremmo riconoscerlo nemmeno negli altri. (…) Un vecchio detto dice: “Si riconosce solo ciò che si conosce”. 
Negli altri vediamo solo quello che ci piace o non ci piace di noi stessi. (…)
Non possiamo vedere noi stessi: dobbiamo avere uno specchio per farlo. 
Voi siete il mio specchio e io sono il vostro.
 Debbie Ford (da "Illumina il tuo lato Oscuro" – Macro Edizioni 2012, p.56-70)



«La proiezione è molto facile da identificare sul piano dell’ego: se qualcosa o qualcuno nel nostro ambiente ci informa, probabilmente non stiamo proiettando; se invece ci turba, ci sono buone possibilità che siamo vittime delle nostre stesse proiezioni.»
(Ken Wilber – Meeting The Shadow)


«Sappiamo che la proiezione ha luogo quando qualcuno è emotivamente colpito dal comportamento di un’altra persona, positivo o negativo che sia.»
(Illumina il tuo lato Oscuro – Debbie Ford. Macro Edizioni 2012, p.66)


“Siamo tutti maestri nell’uso della proiezione, un meccanismo di autodifesa che ci toglie dall’imbarazzo di doverci guardare
dentro.”
Deepak  Chopra)


“Tutto ciò che ci irrita negli altri, può portarci a capire noi stessi”
(Carl Gustav Jung)



” (…) il portatore di proiezione non è infatti, e l’esperienza ce lo insegna, un oggetto preso a piacere, ma è sempre un oggetto che offre per così dire un aggancio adatto a ciò che è destinato a sostenere.”
(Carl Gustav Jung, 1946)


«Di solito la nostra indignazione per il comportamento degli altri riguarda un aspetto irrisolto del nostro io.»
(Illumina il tuo lato Oscuro – Debbie Ford. Macro Edizioni 2012, p.61)


“Jung definì la proiezione come un trasferimento inconscio, cioè inconsapevole e non intenzionale, di elementi psichici soggettivi su un oggetto esterno. L’individuo vede in questo oggetto qualcosa che non c’è, o c’è solo in piccola parte. Talvolta nell’oggetto non è presente nulla di ciò che viene proiettato (…). Non sono soltanto le qualità negative di una persona a essere proiettate all’esterno in questo modo, ma in uguale misura anche quelle positive. La proiezione di queste ultime genera una valutazione e ammirazione eccessive, illusorie e inadeguate dell’oggetto. L’introspezione nelle proprie proiezioni d’Ombra implica in primo luogo una umiltà morale e una intensa sofferenza. Invece l’introspezione nelle forme di proiezione dell’Animus e dell’Anima richiede, più che umiltà, soprattutto riflessione, nel senso di saggezza e umanità. Infatti quelle figure intendono sedurci e allontanarci dalla realtà, assorbendoci e conquistandoci. Chi non si impegna in questo non ha vissuto. Chi vi si perde non ha compreso nulla.”
(Marie Louise Von Franz – Rispecchiamenti dell’anima. Proiezione e raccoglimento interno nella psicologia di C. G. Jung)



«Per quel che ci è dato sapere, i contenuti inconsci “costellati” (vale a dire attivati) sono sempre proiettati, il che significa che o vengono scoperti in oggetti esterni o per lo meno vengono asseriti come esistenti fuori della propria psiche. Un conflitto rimosso e il suo tono affettivo devono riapparire da qualche parte. La proiezione causata dalla rimozione non è fatta coscientemente dall’individuo, ma sempre automaticamente, e non è riconosciuta come tale a meno che non intervengano condizioni del tutto particolari le quali costringano al ritiro di essa.
Il “vantaggio” della proiezione consiste nel fatto che ci si libera definitivamente (almeno in apparenza) di un conflitto penoso: ne divengono responsabili un’altra persona o circostanze esterne.»
(C.G.Jung – Simboli della Trasformazione, Edizioni Bollati Boringhieri, p.70)


«Il mio amico Bill Spinoza (…) sostiene:
“Ciò con cui non riuscite ad essere non vi lascerà essere”.
Dovete imparare a consentire di esistere a tutto ciò che siete: se volete essere liberi, dovete essere capaci di “essere”.»
(Illumina il tuo lato Oscuro – Debbie Ford. Macro Edizioni 2012, p.22)


https://carljungitalia.wordpress.com/2014/06/08/la-proiezione-cio-che-vediamo-negli-altri-quanto-ci-appartiene/




giovedì 26 febbraio 2015

La favola delle parti del discorso (Narratore) C’era una volta un principe molto potente che governava un paese molto speciale: il paese delle parti del discorso (nome, un triangolo nero). Il principe era accompagnato quasi sempre da un piccolo inserviente (articolo, triangolino equilatero celeste chiaro). Se il principe era di buon umore, portava con sè un altro inserviente, più grande del primo. Allora tutta la gente aveva il piacere di vedere che specie di principe fosse (aggettivo, triangolo equilatero blu). A volte il principe non aveva voglia di farsi vedere. Allora inviava un rappresentante che doveva camminare tutto solo, senza alcun servitore (pronome, triangolo isoscele viola).



La favola delle parti del discorso
(Narratore) 
C’era una volta un principe molto potente che governava un paese molto speciale: 
il paese delle parti del discorso (nome, un triangolo nero). 
Il principe era accompagnato quasi sempre da un piccolo inserviente (articolo, triangolino equilatero celeste chiaro). Se il principe era di buon umore, portava con sè un altro inserviente, più grande del primo. Allora tutta la gente aveva il piacere di vedere che specie di principe fosse (aggettivo, triangolo equilatero blu). A volte il principe non aveva voglia di farsi vedere. Allora inviava un rappresentante che doveva camminare tutto solo, senza alcun servitore (pronome, triangolo isoscele viola). 

(Il principe racconta). 
Quando arrivai nel nuovo paese, non riuscivo a trovare la strada. 
Improvvisamente vidi al lato della via alcune piccole falci verdi. 
Erano i segnali stradali che indicavano dove si poteva trovare qualcosa, oppure quale direzione prendere (preposizione, mezzaluna verde). 
Il sole rosso rotolava attraverso il cielo e faceva vivere tutti, ma solo in certi periodi (verbo, cerchio rosso). Il sole, poi, non era sempre solo nel cielo: talvolta arrivava la piccola luna, ad aumentare la sua luminosità. Allora, improvvisamente, si poteva vedere anche quale aspetto avesse il sole, dove stesse in quel momento, o quando sarebbe nuovamente andato via (avverbio, cerchio più piccolo arancione).

(Narratore). 
Ogni cosa era organizzata nel modo migliore nel paese del principe. 
Nessuno lì lavorava da solo: si riunivano per parlarsi. Tutte le città erano collegate da linee ferroviarie. In questo modo ci si poteva riunire velocemente: bastava sedersi in treno (congiunzione, una barretta rosa). In questo bel paese non sempre tutto era tranquillo. Talvolta la gente esclamava a voce molto alta sillabe o parole, quando era contenta o triste, come: ehi, oh, oppure ahimè (interiezione, punto esclamativo dorato). 

Ora abbiamo fatto la conoscenza di tutti i rappresentanti del paese del principe. 
E’ un paese interessante. Più a lungo ci si ferma, meglio lo si conosce. 
Spesso ci si stupisce perchè succede che una parte del discorso assuma la funzione di un’altra. 
Ma questi sono segreti che si possono scoprire solo via via, lentamente.





mercoledì 25 febbraio 2015

Vittoria Ottolenghi. Perchè considero la danza così importante? E' proprio per due motivi per cui generalmente la cultura italiana accademica è sospettosa della Danza. Il primo è che si fa con il corpo, e non si fa anche con le parole. Una cosa che si fa solo con il corpo è evidente ed inevitabile che in un certo tipo di cultura si senta la cosa come "trasgressiva". Cosa che naturalmente, non è. E poi perchè non è, perchè la danza è effimera, non conta, proprio per questo è più importante e preziosa, l'unica cosa puoi conservare sono dei brandelli della memoria.... ma che brandelli signori... State un momenti fermi signori a ripensare a Nureyev, alla Fracci....

Perchè considero la danza così importante? E' proprio per due motivi per cui generalmente la cultura italiana accademica è sospettosa della Danza. Il primo è che si fa con il corpo, e non si fa anche con le parole. Una cosa che si fa solo con il corpo è evidente ed inevitabile che in un certo tipo di cultura si senta la cosa come "trasgressiva". Cosa che naturalmente, non è. E poi perchè non è, perchè la danza è effimera, non conta, proprio per questo è più importante e preziosa, l'unica cosa puoi conservare sono dei brandelli della memoria.... ma che brandelli signori... State un momenti fermi signori a ripensare a Nureyev, alla Fracci....
Vittoria Ottolenghi

Edward Wilson. “Il significato dell’esistenza umana”. C’è stato un tempo, un tempo anche piuttosto lungo, in cui abbiamo creduto di essere i protagonisti assoluti della storia naturale. Le cose, però, non stavano così, e alla fine siamo stati noi stessi a mandare in pezzi il piedistallo che ci eravamo tanto accuratamente costruiti. Non è stato indolore, ma con gli anni abbiamo scoperto che la Terra non è il centro del cosmo, che la nostra specie è solo una tra milioni, in continuo mutamento, e che la nostra presenza sul pianeta è il frutto di una combinazione accidentale di caso e necessità.

IL SENSO DELLA VITA SECONDO WILSON

C’è stato un tempo, un tempo anche piuttosto lungo, in cui abbiamo creduto di essere i protagonisti assoluti della storia naturale. Le cose, però, non stavano così, e alla fine siamo stati noi stessi a mandare in pezzi il piedistallo che ci eravamo tanto accuratamente costruiti. Non è stato indolore, ma con gli anni abbiamo scoperto che la Terra non è il centro del cosmo, che la nostra specie è solo una tra milioni, in continuo mutamento, e che la nostra presenza sul pianeta è il frutto di una combinazione accidentale di caso e necessità.

Abbiamo finito per accettare il fatto di non essere poi così importanti, non in questo mondo qui, figuriamoci nell’intero universo. Ma cosa ne possiamo fare, oggi, di questa nostra consapevolezza?

L’ultimo libro di Edward O. Wilson (Codice Edizioni, 2014) affronta temi generali e profondissimi, e ha un titolo solenne: “Il significato dell’esistenza umana”. Eppure è un volume snello, meno di 200 pagine, scritto con mano leggera. Secondo molti sarà il suo ultimo libro. Per questioni biografiche: l’entomologo, professore di Harvard in pensione, padre nobile di socioboiologia e biodiversità compirà 86 anni a giugno. [...]
Concentrato in poche pagine c’è tutto il Wilson che uno si aspetta di trovare: le parti in cui sottolinea l’urgenza di un ambientalismo moderno (che poggi su basi scientifiche e non puramente emotive), i capitoli che vanno alla ricerca delle radici biologiche delle azioni umane, qualche paragrafo di punzecchiatura razionalista contro le organizzazioni religiose e i creazionisti. E naturalmente ampio spazio all’organizzazione sociale delle formiche, del cui comportamento Wilson è forse il più grande esperto di sempre e di cui in 60 anni di ricerca ha identificato 450 nuove specie. [...] 
Le formiche, per esempio. Ok le formiche, guidate solo dal loro istinto eppure organizzate in strutture sociali complesse e funzionali. Sono così interesanti, è vero, ma la cosa che davvero tutti si chiedono, e che chiedono continuamente anche a Wilson a quanto pare, è: cosa fare quando ce le troviamo in cucina? La risposta: “non bisogna pensare alle formiche come ad animali nocivi o a una seccatura, ma come a un superorganismo ospite a casa vostra” - provate a tenerlo a mente prima della prossima disinfestazione, se ci riuscite.
Alla ricerca di una visione olistica della vita nel cosmo Wilson prova anche, a metà libro, a stilare l’identikit di un ipotetico essere alieno. Dati alla mano, una creatura proveniente da un altro pianeta ma che sia scientificamente accurata e aggiornata con le ultime ricerche, secondo lo scienziato dovrebbe essere più o meno così: un animale di taglia relativamente grande, con una grande testa ben delimitata e in posizione centrale, che vive su terre emerse, che presenta appendici locomotorie libere, una notevolissima intelligenza sociale e che biologicamente si affida a vista e udito. Sì, sembra quasi di conoscerlo.

Incastonati nel libro ci sono poi diversi incisi personali della vita professionale di Wilson. Nelle pagine che dedica alla ricerca dello spirito competitivo della natura umana, per esempio, racconta candidamente di un suo antico peccato di invidia: quando l’astronomo e grande divulgatore Carl Sagan vinse il premio Pulitzter, Wilson liquidò la faccenda come un avvenimento di scarsa importanza nella carriera di uno scienziato. Era il 1978. Appena un anno dopo fu lo stesso Wilson a vincere il Pulitzer (per Le Formiche, edito in Italia per Adelphi). Quel riconoscimento divenne di colpo, allora, ai suoi occhi e nelle sue parole, un premio letterario imprescindibile, fondamentale.

Non rimarrà deluso neanche chi sfoglierà il libro alla ricerca delle ormai usuali frecciatine a Richard Dawkins, etologo britannico, diventato negli anni arcinemico di Wilson. Le divergenze scientifiche tra i due si sono ingrandite a tal misura da assumere i toni del melodramma:  Dawkins qualche anno fa ha recensito il libro di Wilson “La conquista sociale della Terra” in un articolo dal titolo “Il tramonto di Edward Wilson”, dove invitava i lettori a gettare via con gran forza il volume (citando a sua volta una famosa frase attribuita a Dorothy Parker). In tutta risposta, in “Il significato dell’esistenza umana”, Wilson introduce Dawkins con la stessa particolare e perfida qualifica che gli ha affidato ormai da qualche tempo: un incisivo giornalista scientifico che divulga e spiega le idee di altri al grande pubblico. [...] 
La premessa da cui parte è chiara: la scienza e l’evoluzione sono le fondamenta per comprendere il senso dell'esistenza umana, per capire come noi, in quanto Homo sapiens, ci inseriamo nell’intelaiatura composta da tutti gli altri esseri viventi, sulla Terra e nel resto dell’universo

Il significato dell'esistenza umana è allora, in poche parole, tutto qua: se siamo davvero un incidente evolutivo come la scienza sembra mostrarci, e se rimaniamo comunque indissolubilmente legati al resto del regno animale, è anche vero che la storia ci ha portato ad essere oggi "la mente del pianeta”. Il pianeta è nostro, e abbiamo tra le mani la possibilità di salvarlo o di distruggerlo. Siamo soli nell’universo, ci dice Wilson, ma non dobbiamo avere paura: vuol dire che siamo liberi. Completamente liberi di plasmare il futuro. Come? Wilson ha una sua ricetta. 
Bisogna riunire i due grandi rami del sapere, la scienza e la cultura umanistica, in quello che egli stesso chiama un “nuovo Illuminismo”. Le due culture sono radicalmente diverse nei modi in cui descrivono la nostra specie. Eppure, secondo Wilson, sono una cultura sola. Perché una e comune è la fonte del pensiero creativo, e comuni devono essere allora anche i tentativi di comprensione della natura. 
Quella di Wilson è una chiamata alle armi perché scienza e discipline umanistiche uniscano le forze. Il biologo sembra però avere ben chiare le gerarchie e i ruoli da rispettare (e qui forse qualcuno inizierà a storcere il naso). L’autorità generale secondo Wilson è della scienza, è la scienza che costituisce l’impalcatura più solida dell’edificio del sapere umano. Gli ultimi secoli di scienza hanno visto enormi rivoluzioni. Ma il tasso di crescita delle conoscenze scientifiche rallenterà inevitabilmente nei prossimi anni, e toccherà allora alle scienze umanistiche mantenere alta la fiaccola del progresso. [...]

Matteo De Giuli, 24 febbraio 2015





http://www.treccani.it/magazine/piazza_enciclopedia_magazine/scienze/Il_senso_della_vita_secondo_Wilson.html


martedì 24 febbraio 2015

Compiuta Donzella è considerata, con molta probabilità, la prima poetessa italiana, la prima donna che compone poesia d’arte in volgare italiano.

 La prima poetessa italiana visse nella ‪‎Firenze‬ del XIII secolo e la sua esistenza storica viene confermata da una lettera inviatale dal poeta ‪Guittone‬ d'Arezzo.


Compiuta Donzella è considerata, con molta probabilità, la prima poetessa italiana, la prima donna che compone poesia d’arte in volgare italiano.

Di Compiuta Donzella si sa che visse quasi sicuramente a Firenze nel XIII secolo e la sua autenticità verrebbe confermata dal fatto che a lei è indirizzata una lettera di Guittone d’Arezzo, la quinta, in cui il poeta scrive: Soprapiacente donna, di tutto compiuto savere, di pregio coronata, degna mia Donna Compiuta, Guitton, vero devotissimo fedel vostro, de quanto el val e po’, umilmente se medesmo raccomanda a voi.


Il nome, o pseudonimo, Compiuta Donzella, risulta piuttosto diffuso nella Firenze dell’epoca; esso significa “giovane donna” (donzella) “piena di ogni virtù” (compiuta).

Compiuta Donzella riceve un’educazione e una cultura rare in tempi in cui l’analfabetismo era molto diffuso, specialmente tra le donne. Di lei ci sono stati tramandati soltanto tre sonetti, ispirati al tema dell’amore: A la stagion che ‘l mondo foglie e fiora (qui proposto); Lasciar vorria lo mondo e Dio servire; Ornato di gran pregio e di valenza.

Questi tre sonetti sono conservati nel Codice Vaticano 3793, uno dei più importanti per la conoscenza della produzione letteraria di quel tempo. I suoi versi sono ispirati alla Scuola siciliana e alla poesia provenzale. Per di più, i sonetti di Compiuta Donzella attestano la vivacità dell’ambiente sociale e culturale fiorentino, ormai aperto alle esperienze più varie e perciò anche a quelle di una donna rimatrice. Il solo fatto di aver raccolto i versi di Compiuta Donzella in un codice fra i più autorevoli, appunto quello Vaticano, costituisce una testimonianza ulteriore di tale sviluppo culturale.

A la stagion che ‘l mondo foglia e fiora

A la stagion che ‘l mondo foglia e fiora
acresce gioia a tut[t]i fin’ amanti:
vanno insieme a li giardini alora
che gli auscelletti fanno dolzi canti;

la franca gente tutta s’inamora,
e di servir ciascun trag[g]es’ inanti,
ed ogni damigella in gioia dimora;
e me, n’ abondan mar[r]imenti e pianti.

Ca lo mio padre m’ha messa ‘n er[r]ore,
e tenemi sovente in forte doglia:
donar mi vole a mia forza segnore,

ed io di ciò non ho disìo né voglia,
e ‘n gran tormento vivo a tutte l’ore;
però non mi ralegra fior né foglia.

Parafrasi Nella stagione in cui il mondo si ricopre di foglie e di fiori, cresce la gioia di tutti i veri (fin’) amanti: allora, vanno insieme nei giardini nell’ora in cui gli uccellini (auscelletti) fanno dolci canti.
Tutta la gente nobile d’animo (franca) si innamora, e ciascuno si offre al servizio [d’amore], e ogni damigella aspetta (dimora) con gioia; io, invece, sono sommersa (n’abondan) da dolorosi tormenti (marrimenti) e pianti.
Perché (Ca) mio padre mi ha messa in una situazione di sofferenza e di smarrimento (‘n errore); mi tiene sempre in una condizione di grande dolore (doglia): vuole darmi marito (segnore) contro il mio desiderio (a forza) e io non ho né voglia né desiderio di ciò e vivo in un grande tormento durante tutto il giorno (a tutte l’ore); perciò non mi rallegrano né i fiori né le foglie.

L’opera Il componimento è il lamento di una ragazza che, forzatamente promessa sposa dal padre, si sente incapace di condividere le gioie primaverili con cui la natura trionfa intorno a lei. Quasi parlando con se stessa, la giovane afferma che l’amore, se è tale, deve procurare gioia e felicità, non marrimenti, pianto e tristezza, come accade a lei nel momento in cui scrive.
Lo stile è elegante, intimo e delicato, così come la ragazza stessa.

Il metro è quello del sonetto: due quartine e due terzine di endecasillabi con rima ABAB ABAB CDE CDE.


http://www.studiarapido.it/compiuta-donzella-la-stagion-che-l-mondo-foglia-e-fiora/