giovedì 31 luglio 2014

La statua del Satiro danzante, rinvenuta nella primavera del 1998 durante una battuta di pesca nel canale di Sicilia, è un rarissimo esempio di statuaria bronzea greca. Straordinariamente conservati gli occhi, in calcare alabastrino in origine integrato con pasta vitrea colorata. La statua è alta poco più di 2 metri e pesa 96 Kg. Secondo l'iconografia del satiro in estasi, già nota dal IV sec., la statua doveva tenere con la mano destra il tirso, attributo di Dioniso mentre il braccio sinistro reggeva una pelle di pantera e la mano sinistra una coppa di vino.

Museo del Satiro Danzante - Mazara del Vallo (TP)
La statua del Satiro danzante, rinvenuta nella primavera del 1998 durante una battuta di pesca nel canale di Sicilia, è un rarissimo esempio di statuaria bronzea greca.
Straordinariamente conservati gli occhi, in calcare alabastrino in origine integrato con pasta vitrea colorata. La statua è alta poco più di 2 metri e pesa 96 Kg.
Secondo l'iconografia del satiro in estasi, già nota dal IV sec., la statua doveva tenere con la mano destra il tirso, attributo di Dioniso mentre il braccio sinistro reggeva una pelle di pantera e la mano sinistra una coppa di vino.





mercoledì 30 luglio 2014

Era, temendo il tradimento di Zeus, pose Io sotto la sorveglianza del gigante Argo che, grazie ai suoi infiniti occhi, riusciva a non dormire mai, chiudendone, per riposare, solo due per volta. Zeus allora incaricò Ermes di liberarla. Quest'ultimo, camuffatosi da pastore, si avvicinò ad Argo suonando una melodia. Il gigante, affascinato dal suono, invitò Ermes a sedersi con sé. Il dio, accompagnandosi col suono, iniziò a narrare la storia di Pan e Siringa, fino a che non riuscì a far chiudere tutti i cento occhi. Ermes uccise il gigante addormentato tagliandogli la testa con la spada, liberando Io. Era prese gli occhi dalla testa di Argo e li pose sulle piume del pavone, l'animale a lei sacro. Ermes, Io ed Argo





Zeus e Io, mitologia greca
Zeus conduceva un’attività erotica extraconiugale tale da far infuriare Hera, sua moglie, provocando scompiglio e vendette sull’Olimpo.
Zeus non faceva alcuna differenza tra divine e mortali e se qualcuna suscitava i suoi interessi, pur di conquistarla, non esitava a servirsi dei più abili stratagemmi e delle più strane metamorfosi. 
Per sedurre la sacerdotessa Io, ad esempio, si mutò in una nuvola soffice ed eterea.
Io era la sacerdotessa d’un tempio vicino a Micene, sacro a Hera
La sacerdotessa Io era giovane e assai bella e quando Zeus la vide la prima volta subito se ne innamorò.
Hera, che ben conosceva il marito, ben presto si insospettì delle sue improvvise e ingiustificate assenze; volle vederci chiaro e scese sulla Terra. Zeus, vedendo arrivare Hera scura in viso, mutò la sacerdotessa Io in una giovenca, ma Hera non si lasciò ingannare e, fingendo ammirazione per l’animale, glielo chiese in dono. Zeus non rifiutò, ma solo per non farla insospettire ulteriormente.
Hera inviò subito la giovenca in un pascolo molto lontano. Il pascolo era custodito da Argo, soprannominato Tutt’occhi, perché aveva ben cento occhi sparsi in giro per tutto il corpo e anche quando dormiva cinquanta dei suoi cento occhi vegliavano a turno.
Zeus, volendo liberare la sacerdotessa Io dalla sua prigionia, ordinò ad Hermes di liberare la giovenca. Hermes assunse l’aspetto di un pastorello e, sedutosi vicino ad Argo, cominciò a suonare con il flauto una noiosissima nenia che, a poco a poco, riuscì ad addormentare tutti i cento occhi del custode. Dopo che Argo fu ben addormentato, Hermes con un colpo di spada gli troncò la testa. Io era liberata. Hera, però, dall’Olimpo aveva visto tutto e mandò alla sfortunata giovenca un tafano, perché la pungesse senza darle un attimo di tregua. La giovenca fuggì disperatamente, ma il tafano le volava dietro senza darle un solo attimo di pace. La sacerdotessa Io, ancora sotto le sembianze di giovenca, oltrepassò il Bosforo, che in greco significa appunto «Passaggio della Giovenca» e giunse in Fenicia, eppoi in Egitto. Qui finalmente Zeus riuscì a fermare Io e, liberatala dal tafano, le restituì l’aspetto di donna. Tuttavia due corte corna le rimasero sul capo, simili alle corna della Luna quando è al primo e all’ultimo quarto. Da Io nacque Epàfo, che fu poi re d’Egitto e costruì la capitale Menfi.



mi chiedevo da adolescente perché mai Zeus dovesse preferire alla potente e perfetta dea Hera la mortale e dunque imperfetta (quantunque bella) Io. La perfezione non è dunque ciò' che ti rende desiderabile al di sopra di tutto ? Elaborai più tardi una risposta: l' imperfezione - che è umana - era ciò che mancava ad Hera e che rendeva la mortale IO desiderabile agli occhi del Dio. L'imperfezione umana , questa incolmabile diversità , fa innamorare gli Dei , perché ci rende speciali. E di tale specialità dovrebbero andare fieri tutti i "diversi" del mondo.


martedì 29 luglio 2014

Jan-Philipp Sendker. l'arte di ascoltare i battiti del cuore. Perché vediamo solo quello che conosciamo. Siamo convinti che gli altri siano capaci di fare solamente ciò che sappiamo fare anche noi, nel bene e nel male. Per questo riconosciamo come amore solo quello che corrisponde all’immagine che ne abbiamo. Vogliamo essere amati come amiamo noi. Ogni altro modo ci è estraneo, lo guardiamo con dubbio e sfiducia, ne fraintendiamo i segni, non capiamo la sua lingua. Accusiamo. Affermiamo che l’altro non ci ama. E invece forse ci ama in un modo tutto suo, che noi non conosciamo



Perché vediamo solo quello che conosciamo. Siamo convinti che gli altri siano capaci di fare solamente ciò che sappiamo fare anche noi, nel bene e nel male. Per questo riconosciamo come amore solo quello che corrisponde all’immagine che ne abbiamo. Vogliamo essere amati come amiamo noi. Ogni altro modo ci è estraneo, lo guardiamo con dubbio e sfiducia, ne fraintendiamo i segni, non capiamo la sua lingua. Accusiamo. Affermiamo che l’altro non ci ama. E invece forse ci ama in un modo tutto suo, che noi non conosciamo
Jan-Philipp Sendker, l'arte di ascoltare i battiti del cuore



Doriano Fasoli. Sono trascorsi quarant'anni dalla pubblicazione de "L'anti-Edipo", un testo che con il suo stile energico e le sue tesi radicali irruppe sulla scena degli anni Settanta con straordinaria diffusione ed effetti epocali. Se fino ad allora la psicoanalisi veniva innalzata sulle barricate insieme ai testi marxisti, Deleuze e Guattari interrompevano drasticamente questo connubio. Contemporaneamente il più affollato appuntamento di studenti e intellettuali di Parigi continuava a essere il Seminario dello psicoanalista Jacques Lacan. Con lui però le tesi di rottura del libro intrattenevano un riferimento più ambiguo. Nel dibattito contemporaneo Deleuze e Lacan restano due riferimenti imprescindibili. Cosa dunque è in gioco nel loro rapporto? Quale assetto assumono oggi i termini cruciali di legge, desiderio e capitalismo?


"Sono trascorsi quarant'anni dalla pubblicazione de "L'anti-Edipo", un testo che con il suo stile energico e le sue tesi radicali irruppe sulla scena degli anni Settanta con straordinaria diffusione ed effetti epocali. Se fino ad allora la psicoanalisi veniva innalzata sulle barricate insieme ai testi marxisti, Deleuze e Guattari interrompevano drasticamente questo connubio. Contemporaneamente il più affollato appuntamento di studenti e intellettuali di Parigi continuava a essere il Seminario dello psicoanalista Jacques Lacan. Con lui però le tesi di rottura del libro intrattenevano un riferimento più ambiguo. Nel dibattito contemporaneo Deleuze e Lacan restano due riferimenti imprescindibili. Cosa dunque è in gioco nel loro rapporto? Quale assetto assumono oggi i termini cruciali di legge, desiderio e capitalismo?"

lunedì 28 luglio 2014

Pompei - Pane di farro …è stato cotto e fossilizzato dall’eruzione del Vesuvio. l farro dicocco (Triticum dicoccum), noto anche come emmer, farro medio o comunemente anche solo farro, è un cereale, parente stretto del grano. È una delle tre specie del genere triticum comunemente chiamate farro Le prime menzioni di questo cereale si ritrovano nella Bibbia. Era conosciuto e coltivato nell'antico Egitto. Ezechiele lo usava come uno degli ingredienti per il suo pane (Ezechiele 4:9). La farina di farro costituiva la base della dieta delle popolazioni latine. Il pane di farro veniva consumato congiuntamente dagli sposi nel rito della cumfarreatio, la forma più solenne di matrimonio dell'antica Roma. Dopo la coltivazione di altre varietà di cereali, in particolare frumento, mais e riso, la coltura del farro è andata diminuendo nel tempo fin quasi a sparire. Oggi, riscoperto grazie alle sue ottime proprietà dietetiche, viene coltivato in Italia soprattutto in Toscana, nella Garfagnana, ai piedi delle Alpi Apuane, in provincia di Lucca. Il farro della Garfagnana ha ottenuto la certificazione di qualità IGP.

"La mattina del 24 agosto del 79 d.C., si sentì un boato nella regione vesuviana. Dal vulcano una nube di gas e pomici si proiettò in alto, simile ad un pino, ed oscurò il cielo. Una pioggia di lapilli e frammenti litici ricoprì Pompei: durò fino al giorno dopo facendo crollare i tetti e mietendo le prime vittime. I Pompeiani tentarono di ripararsi nelle case o sperarono nella fuga, camminando sul letto di pomici che si andava formando, alto ormai più di 2 m. Ma alle 7.30 del 25 agosto, una scarica violentissima di gas tossico e cenere ardente devastò la città: essa si infiltrò dovunque, sorprendendo chiunque cercasse di sfuggire e rendendo vana ogni difesa. Una pioggia di cenere finissima, depositata per uno spessore di circa 6 m, aderì alle forme dei corpi e alle pieghe delle vesti e avvolse ogni cosa. E quando, dopo due giorni, la furia degli elementi si placò, l'intera area aveva un aspetto diverso: una coltre bianca avvolgeva tutto; il fiume Sarno stentava a ritrovare il suo corso, invaso dai detriti vulcanici; e la costa, sommersa dal materiale eruttato dal Vesuvio, aveva guadagnato spazio al mare! L'area della città fu interdetta al passaggio, per salvaguardare le proprietà degli scampati, ma scavatori clandestini cercarono comunque di saccheggiarla: per lungo tempo la presenza umana fu rara e marginale, e solo con l'imperatore Adriano, intorno al 120 d.C., fu ripristinato almeno l'assetto viario nella zona. Ma da una lettera a Tacito, lo storico latino, ascoltiamo la descrizione della catastrofe di Plinio il Giovane, che narra la morte dello zio, Plinio il Vecchio, mentre questi cercava di portare soccorso alle città devastate".


"Ecco il Vesuvio, un tempo verde per le ombre dei pampini,
qui traboccavano i tini ricolmi di uva pregiata:
queste le balze che Bacco amò più dei colli di Nysa,
su questo monte i satiri intrecciarono danze,
questa fu la sede di Venere, a lei più cara di Sparta,
in questo luogo era rinomato il nome di Ercole.
Tutto giace sommerso da fiamme e luttuose faville:
gli dei vorrebbero che ciò non gli fosse stato permesso".
Marziale (Epigrammi, IV, 44)


L'eruzione del Vesuvio che nel 79 d.C., sotto il regno di Tito, annientò Pompei, Stabia ed Ercolano, fu un evento epocale. Marziale, poeta di età flavia, vi dedicò uno dei suoi epigrammi tutto giocato sul contrasto tra la vitalità del passato e il panorama di morte e desolazione del presente.


"Quisquis amat valeat. Pereat qui nescit amare,
bis tanto pereat quisquis amare vetat"
Stia bene chiunque ami, muoia chi non è capace di amare,
due volte muoia chi vieta d'amare.
Graffito ritrovato a Pompei

«Quisquis ama valia, peria qui nosci amare; 
bis tanti peria quisquis amare vota».
Salute a chi ama, morte a chi non sa amare; 
e ancor più, morte due volte a chi vieta di amare.
Iscrizione pompeiana

Nothing can last forever:
the sun shone after well runs into,
decreases the moon recently was full,
the violence of the winds often becomes light breeze.
(Written on the walls of Pompeii Roman)

Nada puede durar para siempre:
brillaba el sol después de bien topa,
disminuye la luna hace poco estaba lleno,
la violencia de los vientos a menudo se vuelve ligera brisa. (Escrito en las paredes de Pompeya romana)


NIHIL DURARE POTEST TEMPORE PERPETUO
CUM BENE SOL NITUIT REDDITUR OCEANO
DECRESCIT PHOEBE QUAE MODO PLENA FUIT
VEN[TO]RUM FERITAS SAEPE FIT AURA L[E]VIS

Nulla può durare in eterno:
il sole dopo aver ben brillato si getta nell’Oceano,
decresce la luna che poco fa era piena,
la violenza dei venti spesso diventa brezza leggera.
(Scritta sui muri della Pompei Romana)


LE PAROLE DEGLI INNAMORATI SUI MURI DI ROMA...2000 ANNI FA…

Le parole di un innamorato disperato, su un muro della Domus Tiberiana sul Palatino:
"Non ho più forze, non chiudo occhio, notte e giorno l'amore divampa"
Vis nulla est animi, non somnus claudit ocellos, noctes atque dies aestuat omnis amor.

Le scritte di un giovane, a Pompei, sul suo amore non corrisposto:
"Se puoi e non vuoi, perché rimandi le gioie /
e incoraggi le speranze e sempre mi dici di tornare domani? /
Costringimi dunque a morire, poiché mi costringi a vivere senza di te, /
certo sarà il dono di un'azione pietosa cessar di soffrire. /
La speranza certo restituisce all'amante ciò che gli ha strappato".

Le frasi felici di un innamorato, sui muri di Pompei:
"Gli amanti come le api assaporano una vita dolce come il miele"
Amantes ut apes vitam mellitam exigunt).
E qualcuno sotto ha aggiunto: "Magari!" (Vellem).

Le parole, sempre a Pompei, sul fuoco d'amore:
"Chi ama non deve bagnarsi in acque calde,
perché nessun ustionato d'amore può amare le fiamme"
Quisquis amat, calidis non debet fontibus uti,
nam nemo flammas ustus amare potest.

Ancora, le parole di un benevolo invidioso, sui muri di un vicolo di Pompei:
"Rimproverare gli amanti è come legare l'aria,
è impedire che sempre corrano le acque di fonte".

Non possono mancare le parole di "delusione":
“Venga chiunque ama.
A Venere voglio spezzare le costole a bastonate, e fiaccarle i lombi, alla dea. /
Se lei può trapassarmi il tenero petto, /
perché io non potrei spaccarle la testa con un bastone?".

E, per finire, le parole che su un muro romano,
riassunto della bellezza dell’amore:
"Chi ama prosperi, /
muoia chi non sa amare; /
due volte tanto, poi, muoia /
chi impedisce di amare"
Quisquis amat valeat /
pereat qui nescit amare /
bis tanto pereat /
quisquis amare vetat.



Il pane di Ercolano

Il Pane di Ercolano
https://fbcdn-sphotos-f-a.akamaihd.net/hphotos-ak-xfp1/v/t1.0-9/10670144_977543898928587_2190953893843972859_n.jpg?oh=645feb573470ae87632ce875def4e222&oe=5528B197&__gda__=1432335134_76b35cd6bd304b6e8fdfa8e43da977b3




Pane di farro …è stato cotto e fossilizzato dall’eruzione del Vesuvio.
l farro dicocco (Triticum dicoccum), noto anche come emmer, farro medio o comunemente anche solo farro, è un cereale, parente stretto del grano. È una delle tre specie del genere triticum comunemente chiamate farro
Le prime menzioni di questo cereale si ritrovano nella Bibbia. 
Era conosciuto e coltivato nell'antico Egitto.
Ezechiele lo usava come uno degli ingredienti per il suo pane (Ezechiele 4:9). 
La farina di farro costituiva la base della dieta delle popolazioni latine.
Il pane di farro veniva consumato congiuntamente dagli sposi nel rito della cumfarreatio, la forma più solenne di matrimonio dell'antica Roma.
Dopo la coltivazione di altre varietà di cereali, in particolare frumento, mais e riso, la coltura del farro è andata diminuendo nel tempo fin quasi a sparire.
Oggi, riscoperto grazie alle sue ottime proprietà dietetiche, viene coltivato in Italia soprattutto in Toscana, nella Garfagnana, ai piedi delle Alpi Apuane, in provincia di Lucca. 
Il farro della Garfagnana ha ottenuto la certificazione di qualità IGP.

Pompei ed Ercolano.









http://youtu.be/CR0zpnPGDWE




Ulisse e le sirene.
Affresco da Pompei o comunque da area vesuviana.
Londra, British Museum.


Da notare le sirene simili alle arpie.



Le sirene non sono simli alle arpie. Sono le arpie a essere simili alle sirene.
La sirena è una figura in parte donna, in parte uccello, ben più antica delle arpie
Siamo noi italiani che sbagliamo chiamando "sirene" le mermaid (cioè le dame del mare), che sono appunto donne fino al bacino e giù coda di pesce.



Comunque, a parte chi siano più antiche, le arpie avevano il viso da donna ed il corpo di uccello (con ali, senza braccia), queste rappresentate sono sirene.




Segnali stradali a Pompei...........
Può sembrare strano ma anche questo arcinoto personaggio itifallico, un po' Mercurio, un po' Priapo, rappresentava l'indicazione di un negozio.
Figura portafortuna che fonde gli attribuiti di due divinità dell'abbondanza: Priapo, dio della fecondità, e Mercurio, dio del commercio, riconoscibile dal caduceo e dal sacchetto con il denaro.
Museo Archeologico Nazionale di Napoli
(gabinetto segreto)






Riti in onore di Iside.
Pompei centro di diverse culture.
Il razzismo è una stupida invenzione moderna.





https://scontent-a-mxp.xx.fbcdn.net/hphotos-xfa1/t31.0-8/s960x960/10548838_728871687169712_8348559204396559748_o.jpg

Paesaggio: un pescatore ed un sacerdote intento ad un sacrificio di fronte al sarcofago di Arpocrate.
Affresco dal tempio di Iside, Pompei.
Museo Archeologico Nazionale, Napoli.



Una perfezione del segno e una ricchezza stilistica degna dei migliori vedutisti del '700.



La Metafisica nasce da qui?



sembra un de Chirico!






Robespierre. Noi non combattiamo per quelli che vivono oggi, ma per coloro che verranno




Il popolo fa la rivoluzione solo per fame. 
A capo di questi disperati si son sempre messe persone che avevano studiato e all'epoca era un privilegio di poche classi sociali lo studio. L'uguaglianza era richiesta dai colti , la libertà dai ricchi e la fraternità dagli ecclesiastici. Il popolo voleva solo mangiare e soddisfare la vendetta di veder morire i ricchi nobili sempre invidiati



Sono d'accordo che non si può identificare in modo univoco l'Illuminismo con la Rivoluzione francese (anche se influenze di sicuro ci furono). Così come non si può ridurre la Rivoluzione francese al solo periodo del Terrore e alle esecuzioni che ha causato. Troppo spesso ho incontrato persone che attaccavano l'illuminismo ritenendolo unico responsabile delle morti della Rivoluzione Francese, per questo faccio un plauso all'articolo.
Detto questo, mi sembra che anche questo articolo dia un'idea errata: quella che i filosofi illuministi furono tutti atei. In realtà la maggioranza di loro era deista: credevano nell'esistenza di una divinità individuabile attraverso la ragione (quindi non una divinità rivelata, com'è quella dei monoteismi). Lo stesso Voltaire era deista.


COME ROBESPIERRE HA SCONFITTO GLI ILLUMINISTI.
Spesso si intende pensare alla rivoluzione francese come ad un sommovimento popolare,
o dall'altra parte, borghese guidato dagli illuministi.
In realtà nelle fila del terzo stato che diede il là alla rivoluzione di banchieri, ricchi imprenditori, artigiani, contadini vi erano pochi membri.
Come scrive Jonathan Israel nella sua opera "La rivoluzione francese": <<in materia di provenienza sociale, la leadership rivoluzionaria non rappresentava nessuna categoria sociale ben definita>>.

In prevalenza il Terzo Stato era composto da scrittori, preti, nobili ribelli e giornalisti che si erano dati alla letteratura. Ben pochi invece i philosophes illuministi che presero parte agli stati generali, solamente 10 su 1200 deputati.

Monarchici, cattolici e rivoluzionari disillusi attribuirono una stretta correlazione tra la rivoluzione e lo sviluppo del terrore giacobino, instauratosi in Francia nel 1793, definito come prodotto finale della rivoluzione stessa.

Un preconcetto che andrebbe rivisto, dato che in realtà l'ideologia illuminista non era un blocco ideologico unico.

In realtà quei filosofi erano visti con sospetto dall'assemblea, soprattutto per le idee provenienti da autori riformisti come Locke e Spinoza, al contrario delle idee giacobine, più "puritane" di Jean Jacques Rosseau, intrise di anti-intellettualismo ed autoritarismo.

Robespierre era infatti si rivoluzionario, ma considerava quei filosofi una setta pericolosa, così come non tollerava il loro ateismo. Motivo per quale alcuni di questi furono inviati alla ghigliottina.
Il dittatore francese era si anti-clericale, ma non ateo. Al pari di Danton considerava infatti il cristianesimo come necessario per la pace e l'unità della società (dall'idea rousseauiana di contratto sociale).
Come scrive Paolo Mieli: <<questa tendenza a fondere assieme Robespierre e l'illuminismo democratico è una forma di persistenza delle teorie complottistiche che si manifestarono sin dal 1700. Il fatto che il pensiero radicale avesse causato e dato forma alla rivoluzione sembrò a moltissimi essere un'inconfutabile prova che l'Illuminismo fosse l'originaria matrice della tirannide robespierrista>>
Stefano B.
Bibliografia
Paolo Mieli, in guerra con il passato, le falsificazioni della storia



Il 28 luglio 1794 veniva giustiziato Maximilien-François-Marie-Isidore de Robespierre detto "l'Incorruttibile". Tra i maggiori protagonisti della Rivoluzione Francese iniziata nel 1789, fu deputato alla Costituente e poi alla Convenzione, ma toccò il suo apice nel periodo del Terrore diventando la personalità più influente della Montagna e del Comitato di salute pubblica. Robespierre, che non era mai stato né un estremista né un violento, divenne contrario a ogni affievolimento del processo rivoluzionario e a ogni tentativo moderato. Fu per questo soprannominato "l'Incorruttibile". Alla fine, forse consapevole dei complotti che si stavano preparando contro il suo governo, concesse il suo assenso e sostenne una legge più radicale e repressiva nei confronti dei "nemici della Rivoluzione", la cosiddetta legge del 22 pratile anno II, il punto massimo della legislazione d'emergenza rivoluzionaria, che eliminava gli appelli dai tribunali.
Robespierre e il suo gruppo dirigente erano consapevoli della gravità di queste leggi, ma le ritennero il male minore, di fronte alla prospettiva della fine della Repubblica, come affermò Saint-Just: "Tutto ciò che sta succedendo è orribile, ma necessario". Secondo René Levasseur, "lungi dal chiedere la fine del Governo rivoluzionario, come qualcuno ha detto, egli raccomandò di mantenerlo, pur insistendo che venisse epurato dei furfanti e dei traditori che si erano infiltrati nelle sue file. Quanto al terrore, egli voleva che se ne alleggerisse il peso nei confronti del popolo, ma che diventasse più giusto e più severo verso gli aristocratici e i nemici della civica virtù".
Il 4 febbraio 1794, Robespierre riuscì ad ottenere l'abolizione della schiavitù nelle colonie francesi, con un voto della Convenzione, obiettivo che si prefiggeva con alterne vicende dal 1789, ma che non era mai riuscito a realizzare. Fu poi messo in minoranza dalla Convenzione e successivamente ghigliottinato insieme al Saint-Just nel luglio del 1794. Con la sua morte finì il periodo del Terrore, s'iniziò il governo dei Termidoriani e il potere passò alla borghesia moderata. Iniziò il periodo della controrivoluzione che pose fine alle istanze democratico-sociali più sentite dalla popolazione. La principale opera letteraria di Robespierre è Il terrore e la virtù (1793), nel quale egli sosteneva con grinta le motivazioni che lo avevano spinto ad attuare il Terrore e la necessità di prolungarlo. Robespierre divenne però soprattutto famoso per i suoi discorsi e la sua oratoria, di cui forniamo qualche spunto, ben consapevoli che se la rivoluzione francese, ed in particolar modo il suo periodo giacobino guidato da Robespierre, è stato fondamentale per spazzare l'Ancien Régime e far avanzare la Storia verso l'epoca contemporanea. Senza di lui probabilmente il mondo sarebbe molto, molto più arretrato:

"Voler dare la libertà ad altre nazioni prima di averla conquistata noi stessi, significa garantire insieme la servitù nostra e quella del mondo intero."

"O Rousseau, io ti vidi nei tuoi ultimi giorni [...] ho contemplato il tuo viso augusto [...] da quel momento ho compreso pienamente le pene di una nobile vita che si sacrifica al culto della verità, e queste non mi hanno spaventato. La coscienza di aver voluto il bene dei propri simili è il premio dell'uomo virtuoso [...] come te, io conquisterò quei beni, a prezzo di una vita laboriosa, a prezzo anche di una morte prematura."
Dedica a Jean-Jacques Rousseau, in un foglio scritto di pugno nel 1791

"I ricchi, gli uomini potenti hanno ragionato diversamente. Con uno strano abuso delle parole, essi hanno ristretto l'idea generale di proprietà a certi oggetti; hanno preteso che i soli proprietari fossero degni del nome di cittadino; hanno dato il nome di interesse generale al loro interesse particolare e, per assicurare il successo di questa pretesa, si sono impadroniti di tutto il potere sociale."

"Nel sistema instaurato con la rivoluzione francese tutto ciò che è immorale è impolitico, tutto ciò che è atto a corrompere è controrivoluzionario. Le debolezze, i vizi, i pregiudizi sono la strada della monarchia."

"Sì, la pena di morte in generale è un delitto e ciò per l'unica ragione che essa non può essere giustificata in base ai princìpi indistruttibili della natura, salvo il caso in cui sia necessaria alla sicurezza degli individui o dei corpo sociale. (...) Ma quando si tratta di un re detronizzato nel cuore di una rivoluzione tutt'altro che consolidata dalle leggi, di un re il cui solo nome attira la piaga della guerra sulla nazione agitata, né la prigione, né l'esilio, possono rendere la sua esistenza indifferente alla felicità pubblica, e questa crudele eccezione alle leggi ordinarie che la giustizia ammette può essere imputata soltanto alla natura dei suoi delitti. Io pronuncio con rincrescimento questa fatale verità. Io vi propongo di decidere seduta stante la sorte di Luigi. Per lui, io chiedo che la Convenzione lo dichiari da questo momento traditore della nazione francese e criminale verso l'umanità."
discorso del 3 dicembre 1792

"Vi dicevo che il popolo deve fare affidamento sulla propria forza. Ma quando è oppresso, quando può contare soltanto più su sé stesso, sarebbe un vile chi gli dicesse di non sollevarsi. Proprio quando tutte le leggi sono violate, quando il dispotismo tocca l'apice, quando la buona fede ed il pudore vengono calpestati, il popolo deve insorgere."
parole pronunciate il 26 maggio 1793


"Io sono fatto per combattere il crimine, non per governarlo. Non è ancora giunto il tempo in cui gli uomini onesti possono servire impunemente la patria. I difensori della libertà saranno sempre dei proscritti finché la masnada dei furfanti dominerà."
"Popolo, ricordati che se nella Repubblica la giustizia non regna con impero assoluto, la libertà non è che un vano nome!"

"La guerra è sempre il principale desiderio di un governo potente, che vuole divenire ancor più potente. Non ho bisogno di dirvi che è proprio durante la guerra che il governo copre con un velo impenetrabile i suoi latrocini e i suoi errori. Vi parlerò invece di ciò che tocca più direttamente i nostri interessi. È proprio durante la guerra che il potere esecutivo dispiega la sua terribile energia ed esercita una specie di dittatura, la quale atterrisce la libertà. È durante la guerra che il popolo dimentica le deliberazioni che riguardano i suoi diritti civili e politici."
18 dicembre 1791

"Noi non combattiamo per quelli che vivono oggi, ma per coloro che verranno."
Maximilien Robespierre detto "l'Incorruttibile"

[fonte: http://it.wikipedia.org/wiki/Maximilien_de_Robespierre]



il socialismo trae la sua origine storica dalla sinistra dela rivoluzione francese non dimentichiamolo mai



ROBESPIERRE, RIVOLUZIONARIO PRIMA DELLA RIVOLUZIONE.
di Giancarlo Ferraris - 1 marzo 2016

Turbato dalla morte della madre e dall’abbandono del padre, Maximilien fu un ottimo studente, appassionato di cultura classica e infervorato dalle dottrine egualitarie dei philosophes del XVIII secolo. Avvocato di fama e dall’eloquenza elegante, era noto come il difensore “dei deboli e degli oppressi”, a cui spesso evitava di chiedere il pagamento dell’onorario. Tenace combattente delle disuguaglianze sociali dell’ancien régime, austero, disinteressato, intransigente e fermo nei suoi principi: con la rivoluzione sarebbe diventato l’Incorruttibile.


La famiglia.
Nella notte del 6 maggio 1758 ad Arras, cittadina della regione dell’Artois, nella Francia del Nord, venne alla luce un bambino che i genitori, François Derobespierre, da un paio di anni avvocato di professione, e Jacqueline Marguerite Carraut, figlia di un ricco birraio, entrambi originari di Arras, chiamarono Maximilien-François-Marie-Isidore. Erano due sposi novelli, dal momento che avevano contratto matrimonio solo il 2 gennaio dello stesso 1758 con una cerimonia piuttosto rapida, poiché Jacqueline era incinta da cinque mesi e soprattutto senza la presenza di nessun membro della famiglia di François (mentre erano presenti i parenti di Jacqueline), la quale, evidentemente, aveva ritenuto che non fosse un buon matrimonio o comunque, di certo, non conforme ai costumi borghesi del tempo e ciò soprattutto in una città come Arras, così fortemente devota alla Chiesa cattolica.

La famiglia Derobespierre (ancora oggi sono numerosi nella Francia del Nord i patronimici popolari che iniziano con il De) o de Robespierre o Robespierre, i suoi componenti usavano tutte e tre le grafie, apparteneva a quella fascia della classe borghese – diremmo oggi piccola borghesia – della Francia di metà Settecento dedita alle professioni legali e dalla quale uscirono molti protagonisti della Rivoluzione. Si trattava di una fascia consapevole della sua superiorità intellettuale, che mal sopportava le suddivisioni sociali e che nella società francese dell’epoca occupava una posizione particolare: sostanzialmente ostile nei confronti della nobiltà, la quale deteneva la ricchezza fondiaria e le cariche politiche e militari, ma anche avversa alla grande e alla media borghesia, le quali gestivano le attività imprenditoriali e soprattutto monopolizzavano, specie in ambito locale, le cariche nella pubblica amministrazione.

Dal Seicento i membri maschili della famiglia Derobespierre avevano progressivamente abbandonato l’agricoltura, il commercio delle stoffe e dei vini e l’attività di albergatori per dedicarsi alle professioni legali, che costituivano un servizio sempre maggiormente richiesto dalla monarchia, dalla nobiltà e dal clero.

L’iniziatore di questo nuovo corso della famiglia Derobespierre fu Robert (1591-1663), il quale si stabilì nella cittadina di Carvin, vicino a Lilla, dove svolgeva la professione di notaio regio. Uno dei suoi discendenti, Maximilien, verso il 1720 si spostò ad Arras, dove riuscì a farsi accettare dalla buona società cittadina nella quale c’erano molti massoni, diventò avvocato, entrò nel Consiglio Superiore dell’Artois e sposò una giovane della borghesia del luogo con cui ebbe François (1732-1777), padre del futuro Incorruttibile, il quale proseguì la tradizione familiare delle professioni legali e diventò anch’egli avvocato, dopo aver abbracciato maldestramente e per poco tempo il noviziato ecclesiastico.

La scelta dei Derobespierre di dedicarsi agli studi di legge e alle professioni legali fu “favorita” dal fatto che il regime monarchico e l’apparato burocratico della Francia dell’ancien régime moltiplicavano, quando non ne generavano ex novo, una quantità impressionante di leggi e relative procedure provenienti dalle giurisdizioni mutuate da un passato feudale ancora grevemente e gravemente presente.

La Francia in cui nacque lo stesso Maximilien era, infatti, uno dei regni più potenti e al tempo stesso più vetusti e più fragili d’Europa: monarchia di diritto divino, nel 1758 il re era Luigi XV di Borbone, oltre venti milioni di abitanti, un esercito e una marina forti, ma anche un’economia arretrata prevalentemente agricola, con poche industrie e manifatture, una situazione finanziaria generale grave e una società suddivisa in tre classi, nobiltà e clero da un lato che vivevano delle rendite prodotte dalle loro vastissime proprietà fondiarie, Terzo Stato (borghesia, contadini, operai) dall’altro lato che svolgeva attività produttive, ma era sottoposto a una pesante pressione fiscale.

La Francia era anche la patria dell’illuminismo, ma, paradossalmente, essa era il paese europeo dove l’attività riformatrice ispirata alle dottrine dei philosophes si faceva sentire di meno e dove la borghesia, in forte ascesa, lottava strenuamente contro i privilegi monarchici, nobiliari ed ecclesiastici.

François e Jacqueline, oltre a Maximilien, ebbero altri figli:
Charlotte (1760-1834), Henriette (1761-1780) e Augustin (17631794); un altro figlio, nato nel 1764, visse un solo giorno. Nello stesso anno, in conseguenza del parto, Jacqueline morì. Rimasto vedovo e sconvolto dalla morte della moglie, François, poco tempo dopo, lasciò Arras abbandonando la professione forense e i figli, che affidò a parenti e iniziò contemporaneamente a viaggiare.
Ritornò ad Arras nel 1765, quando si fece prestare alcune centinaia di livres da una delle sue sorelle e poi ancora nel 1768, quando contrasse un debito con la madre vedova rinunciando ai diritti suoi e dei figli sulle proprietà di famiglia. Due sue lettere, datate rispettivamente 1770 e 1771, ci informano che viveva in Germania, a Mannheim. Nel 1772 fu, ancora una volta, ad Arras, dove fece quindici apparizioni per cause legali presso il Tribunale cittadino. Morì nel 1777 a Monaco di Baviera, dove aveva aperto una piccola scuola di lingua francese.

L’orfano.
Abbiamo detto che dopo la morte della moglie il padre di Maximilien affidò i suoi quattro figli a parenti: Charlotte ed Henriette alle zie paterne, le quali le mandarono poi presso un’istituzione caritatevole che si occupava di fanciulle povere, Maximilien e Augustin alle zie e ai nonni materni, i quali li mandarono nel Collegio di Arras, un istituto gratuito gestito dai padri oratoriani. I due fratelli, prima di andare a scuola, trascorrevano parte delle loro giornate nella fabbrica di birra che apparteneva ai Carraut. Maximilien, fra l’altro, contrasse il vaiolo che gli lasciò il volto leggermente butterato. Il futuro Incorruttibile era un bambino segnato dall’amore per la madre, morta quando egli aveva solo sei anni, e dall’amore-odio per il padre, che aveva abbandonato la famiglia conducendo la sua esistenza fuori dagli schemi del tempo. Quest’ultimo duplice sentimento, non totalmente disgiunto dal primo, indusse Maximilien a costruirsi un modello comportamentale preciso e rigoroso per affrontare la vita, per farsi accettare dagli altri facendo dimenticare nel contempo il ricordo del padre, per convincersi e per convincere di essere esemplare e senza colpa alcuna. C’era quasi una sorta di sintonia tra il carattere e il modello di vita di Maximilien da un lato e i paesaggi naturali dell’Artois e quelli creati dall’uomo ad Arras dall’altro lato: i primi fatti di cieli plumbei, di corsi d’acqua quieti e di pianure quasi desolate percorse da lunghe strade diritte e costeggiate da alberi sottili; i secondi di viali geometrici, di dimore signorili e popolari alte e silenziose, di massicce sedi militari, di palazzi austeri e di chiese severe, simboli del potere politico e giudiziario e dell’autorità ecclesiastica che dominavano una cittadina pia dedita alle professioni legali, alle attività artigianali e all’agricoltura.

Sull’infanzia di Maximilien abbiamo due serie di testimonianze “particolari”:
quelle della sorella Charlotte e quelle dell’abate Léon-Bonaventure Proyart, vicedirettore del Collegio Luigi il Grande di Parigi che Maximilien, come vedremo, frequentò per undici anni.
Sono testimonianze diametralmente opposte, nelle quali si palesa il sospetto che le contraddizioni siano state volute dai rispettivi autori. Per la sorella Charlotte Maximilien «era allegro di natura, sapeva come scherzare e a volte rideva fino alle lacrime; era di carattere buono e gentile, cosa che lo faceva amare da tutti; Era amato da tutti… Tutti volevano averlo come amico; Ci [il fratello e le sorelle] amava teneramente e ci riempiva di attenzioni e carezze; Si preoccupava meno di invitare [un contendente] a far valere le proprie ragioni in tribunale che di riconciliarlo con la parte avversa; La benevolenza di mio fratello verso le donne gli assicurò il loro affetto».
Charlotte riferisce anche di un episodio potremmo dire emblematico:
Maximilien disponeva di una voliera con piccioni e passeri domestici e un giorno ne donò uno al fratello e alle sorelle; l’animale venne però dimenticato all’aperto e morì durante la notte. Appresa la notizia Maximilien pianse copiosamente, ricoprendo di rimproveri i responsabili della disattenzione.

Per l’abate Proyart, invece, Maximilien «Non rideva mai e sorrideva molto raramente.
Era incapace di sentimenti di amicizia e non aveva un solo amico; Con il fratello e le sorelle era duro come un tiranno; Si sarebbe infuriato se avesse evitato una causa promuovendo una riconciliazione; Il suo carattere e il genere di vita che condusse lo tennero totalmente separato dalle donne».

Esistono poi altre due testimonianze sull’infanzia di Maximilien, più tarde rispetto a quelle della sorella Charlotte e dell’abate Proyart, anch’esse contraddittorie: secondo una Maximilien era quel che si dice un bravo ragazzo; secondo l’altra era, invece, un ragazzo sgradevole e ipocrita.

Di certo Maximilien era un bambino rimasto profondamente turbato, come dicevamo, dalla morte della madre e dall’abbandono del padre: questi fatti gli fecero altresì maturare sia un marcato concetto del tradimento, che una fervida fantasia a sua volta generatrice di un mondo popolato da eroi, trasformandolo contemporaneamente da bambino vivace e spensierato in bambino serio e diligente, che si dedicava alla lettura, alla costruzione di modellini di chiese e alla collezione di immagini. Tutto ciò in un ambiente “familiare” e in un contesto cittadino popolare, borghese, militare e religioso con cui Maximilien venne a contatto quotidianamente, comprendendone le condizioni di vita, il modo di pensare e di fare, le esigenze.

Il borsista.
Nel 1765 Maximilien entrò nel Collegio di Arras diretto dai padri oratoriani, i religiosi che gestivano l’educazione in Francia dopo l’espulsione dei gesuiti avvenuta solo pochi anni prima. Il Collegio, dove accanto al latino, alla storia, alla geografia e alla matematica si studiava anche il francese, aveva un Consiglio Direttivo di cui faceva parte il vescovo di Arras. Le zie e i nonni materni fecero in modo che il loro nipote imparasse a leggere, scrivere e contare prima dell’iscrizione al Collegio. Nel 1769, all’età di undici anni, Maximilien, dimostratosi uno scolaro intelligente e studioso, venne scelto per prendere parte a un concorso letterario pubblico consistente nel dimostrare la propria capacità a commentare testi in latino. Sempre nello stesso anno, grazie anche all’interessamento di un religioso, riuscì a ottenere una delle quattro borse di studio che annualmente l’abbazia di Saint-Vaast metteva a disposizione per l’ammissione al prestigioso Collegio Luigi il Grande di Parigi retto anch’esso dai padri oratoriani.

Il Luigi il Grande, sorto come collegio gesuitico di Parigi, era una scuola d’élite connessa alla Sorbona e posta sotto l’alto patronato della monarchia di Francia allo scopo di fornire un’educazione secondaria a studenti meritevoli e dotati di borse di studio. Il programma scolastico, a sfondo prettamente umanistico, contemplava l’insegnamento di francese, greco, latino, logica e filosofia sia negli aspetti formali che in quelli morali: dai classici greci e latini i padri oratoriani, infatti, estrapolavano e proponevano ai loro allievi virtù quali l’amor patrio, la libertà, la parsimonia, il sacrificio e il coraggio; dalla filosofia la giustizia, la temperanza, la prudenza, la fortezza, il senso della disciplina e dell’onore. In sostanza il fine ultimo dei padri oratoriani era non solo e non tanto quello di istruire, ma di educare nel senso più ampio del termine anche attraverso l’adozione di una rigorosa disciplina interna al Collegio stesso. La classe a cui apparteneva Maximilien era composta soprattutto da coetanei della sua stessa estrazione sociale, figli di professionisti oppure di mercanti e di proprietari di manifatture. Tra i compagni di classe di Maximilien ne ricordiamo due, che egli ritrovò negli anni cruciali della Rivoluzione: Camille Desmoulins, che con Georges Jacques Danton perì, per mano sua (e non solo sua), sulla ghigliottina durante il regime del Terrore dopo aver fatto, invano, appello proprio agli anni trascorsi insieme al Luigi il Grande e Stanislas Fréron, che fu, invece, uno dei suoi nemici nei giorni drammatici del Termidoro. Quest’ultimo, già al tempo del Luigi il Grande, descriveva Maximilien «per nulla simpatico, consumato dall’orgoglio intellettuale, tetro, irascibile e invidioso del successo altrui».

Sicuramente Maximilien fu un ottimo alunno, sempre tra i primi per intelligenza, profitto e disciplina, tanto da far dire all’abate Proyart che «egli riponeva ogni suo interesse nello studio, trascurava tutto per lo studio, lo studio era il suo dio». Il ragazzo di Arras era letteralmente affascinato dai classici greci e latini attraverso i quali imparava anche la storia antica: in particolare la lettura delle Vite parallele di Plutarco e delle opere di Cicerone, Virgilio, Livio e Tacito gli permise di affinare le sue capacità oratorie facendolo diventare insieme un fervido ammiratore delle virtù degli antichi e della storia di Roma repubblicana, così lontane dai regimi assolutistici e dai costumi del Settecento.

L’abate Hérivaux, docente di retorica, rimase colpito dall’eleganza, dalla potenza espressiva e dal forte contenuto etico sia delle sue composizioni scritte che delle sue esposizioni orali tanto da soprannominarlo il Romano. L’eloquenza di Maximilien altro non era se non il risultato della combinazione, della fusione tra dono naturale e arte conquistata. Nel 1775 il giovane di Arras venne scelto per leggere il discorso in versi di benvenuto al re Luigi XVI e alla regina Maria Antonietta presso il Collegio dopo la cerimonia dell’incoronazione a Reims. Sembra che i due sovrani, bloccati in carrozza dalla pioggia, abbandonarono sotto l’acqua scrosciante il ragazzo non appena quest’ultimo ebbe terminato il discorso, dopo avergli, comunque, espresso il loro compiacimento. Negli anni immediatamente successivi Maximilien ottenne tre secondi premi e sei menzioni nell’ambito dei diversi concorsi letterari organizzati dal Collegio Luigi il Grande.

Nella formazione intellettuale del futuro Incorruttibile più dei classici contarono però i philosophes del suo tempo: egli fu profondamente colpito dalle tesi di Gabriel de Mably e soprattutto dal pensiero di Jean-Jacques Rousseau le cui opere, la Nuova Eloisa, l’Emilio forse anche il Contratto sociale, circolavano con una “certa libertà” dentro il Luigi il Grande. Da Mably, un pensatore minore del XVIII secolo, Maximilien mutuò essenzialmente la nozione che la proprietà privata è incompatibile con l’uguaglianza sociale; da Rousseau alcuni importantissimi concetti: la natura ha creato l’uomo buono e felice mentre l’avvento della società lo ha corrotto; le disuguaglianze sociali sono alla radice di tutti i mali; il contratto sociale è l’unico strumento che permette di proteggere l’individuo e i suoi beni, di assicurare l’uguaglianza e il benessere sociale e di garantire all’individuo medesimo la libertà.

Probabilmente Maximilien incontrò o semplicemente vide Rousseau nel 1778, l’anno della morte del pensatore ginevrino. Molto tempo dopo, nel 1791, scrisse la Dedica di Maximilien Robespierre ai Mani di Jean-Jacques Rousseau:
«O Rousseau, io ti vidi nei tuoi ultimi giorni [...] ho contemplato il tuo viso augusto [...] da quel momento ho compreso pienamente le pene di una nobile vita che si sacrifica al culto della verità e queste non mi hanno spaventato. La coscienza di aver voluto il bene dei propri simili è il premio dell’uomo virtuoso [...] come te, io conquisterò quei beni, a prezzo di una vita laboriosa, a prezzo anche di una morte prematura».


L’avvocato.
Maximilien maturò l’idea di diventare avvocato, proseguendo così la tradizione familiare, durante gli anni della scuola secondaria al Collegio Luigi il Grande. Ancor prima di iniziare gli studi di giurisprudenza alla Sorbona di Parigi egli prese contatto con alcuni illustri giuristi del momento per presentare se stesso come se fosse già avvocato. Nello stesso tempo iniziò a visitare e a conoscere a fondo la capitale di Francia, dove molte delle cause che si discutevano nei tribunali ruotavano attorno al rifiuto del vecchio mondo aristocratico al quale si opponevano i nuovi valori borghesi ispirati ai concetti di progresso, razionalità e utilità sociale, valori incarnati e portati avanti da una schiera di giovani avvocati alcuni dei quali diventarono famosi durante la Rivoluzione.

Maximilien iniziò il suo corso universitario in giurisprudenza nell’ottobre 1779, frequentando nello stesso tempo uno studio legale parigino come praticante: una frequentazione importante, dal momento che egli ebbe modo di conoscere e di approfondire, accanto al diritto civile e al diritto canonico insegnati alla Sorbona, anche il diritto amministrativo e il diritto penale oltre ad assistere a discussioni molto intense sulla natura del potere politico e di quello ecclesiastico. Maximilien terminò il suo corso universitario nel maggio 1781 e nel luglio dello stesso anno il Collegio Luigi il Grande gli conferì, oltre alla massima lode, un premio di seicento livres per la sua buona condotta e per il suo successo negli studi conseguiti nei dodici anni di permanenza nell’istituto. In agosto venne iscritto come avvocato nel registro del Parlamento di Parigi.

Nell’autunno del 1781 Maximilien ritornò ad Arras, forte della sua preparazione culturale e della sua formazione professionale acquisite in una scuola prestigiosa e in una grande città. Due furono le sue prime preoccupazioni: trasferire la borsa di studio di cui aveva beneficiato al Collegio Luigi il Grande al più giovane fratello Augustin, il quale, effettivamente, ebbe così la possibilità di studiare nello stesso istituto; provvedere al sostentamento suo e della sorella Charlotte, dal momento che i parenti più stretti erano scomparsi mentre altri si erano sposati, dedicandosi alla professione forense, cosa non semplice poiché, privo di conoscenze personali, dovette affidarsi esclusivamente alla propria capacità di farsi clienti.

Arras all’inizio degli anni Ottanta del Settecento era un centro dedito all’agricoltura, all’artigianato e, cosa nuova, a un vasto e fiorente commercio, ma era anche una cittadina feudale che ospitava i poli locali del potere giudiziario e burocratico, i quali creavano una forte connessione tra la realtà urbana e quella rurale garantendo, da un lato, l’amministrazione della giustizia, lo svolgimento delle attività economiche e l’ordine pubblico e ottenendo, dall’altro lato, tributi di varia natura quali decime, affitti e altro. Accanto alla piccola nobiltà, al clero e alla borghesia, comunque variamente benestanti anche se rigidamente separati gli uni dagli altri, povertà, prostituzione, vagabondaggio e delinquenza erano parte piuttosto notevole del tessuto sociale cittadino.

In questo mondo dove gli esperti della legge, come i membri della famiglia Robespierre, svolgevano un ruolo centrale Maximilien iniziò il suo percorso professionale, che assunse però subito connotazioni inedite e diverse rispetto ai modelli dettati dalla tradizione e dal regime di privilegio dell’epoca particolarmente forti e maggiormente chiusi in una città di provincia come Arras. Il giovane avvocato aveva una concezione molto alta della sua professione, che intendeva non tanto come un mezzo con cui fare carriera e salire i gradini della gerarchia sociale, quanto piuttosto come uno strumento con il quale realizzare ideali di umanità e di giustizia, come una missione, come un sacerdozio al punto che affermava: «Esiste forse una professione più sublime di quella che vi porta a difendere i deboli e gli oppressi?».

Maximilien era pienamente consapevole delle sue capacità e del fatto che aveva assimilato profondamente sia l’eloquenza dei classici – la capacità di entusiasmare, di persuadere e di trascinare gli uditori – che lo spirito dei lumi in virtù del quale il mondo a cui egli stesso apparteneva aveva l’impellente necessità di essere rinnovato: un rinnovamento che doveva iniziare da una dimensione locale, come lo era Arras, ma che presupponeva, come punto di partenza, proprio l’inserimento in quello stesso mondo che andava cambiato. L’avvocato Maximilien ebbe, paradossalmente, la fortuna di essere aiutato in tutto questo da alcune eminenti personalità di Arras che lo introdussero proprio nei cosiddetti “ambienti giusti” della cittadina. Nel novembre 1781 venne, infatti, ammesso nel Consiglio Superiore dell’Artois grazie anche alla presentazione delle sue credenziali da parte dell’avvocato Guillaume Liborel, noto principe del foro di Arras. Nel gennaio 1782 iniziò l’attività forense e nel maggio vinse la sua prima causa, patrocinando dei nipoti che erano stati diseredati dai familiari a favore di altri per aver scelto di rimanere cattolici anziché seguire la conversione dello zio al calvinismo. Nel marzo 1782 il vescovo di Arras lo nominò magistrato presso la Corte Episcopale, che esercitava la sua giurisdizione su Arras e su molte parrocchie limitrofe; in questo ruolo fu tenuto a pronunciare una condanna a morte per omicidio, cosa che lo turbò profondamente al punto che si dimise dall’incarico ritornando a esercitare l’avvocatura. Grazie alle sue capacità e al suo impegno Maximilien riuscì a crearsi una certa clientela iniziando a mietere successi nelle aule del Tribunale di Arras: nel 1782 comparve in tredici cause vincendone sette; nel 1783 in ventotto vincendone ventuno; nel 1784 in tredici vincendone ben dodici. La sua fama crebbe notevolmente. A testimonianza di ciò c’è la lettera di un avvocato scritta da Arras a un suo giovane amico studente di legge a Parigi nella quale si legge:
«Non c’è nulla di nuovo in città, se non che un tale chiamato Robespierre […] ha fatto il suo debutto qui in un caso famoso che ha difeso in tre udienze per spaventare chiunque pensi di seguirlo nella stessa carriera […]. Dicono (io non l’ho mai sentito) che per oratoria, proprietà di linguaggio e chiarezza di stile superi di gran lunga i Liborel, i Desmazières, i Brassant, i Blanquart e anche il celebre Dauchez».

Nella professione forense, al di là delle necessità prettamente utilitaristiche a cui non poteva, comunque, sottrarsi, Maximilien adottò sempre un’eloquenza elegante e al tempo stesso castigata, posta al servizio dei suoi ideali di umanità e di giustizia, ma capace anche di trasformarsi in uno strumento di forte critica del regime politico, giuridico, sociale ed economico vigente in Francia in quegli anni.

Il 1783 fu decisivo per la carriera forense di Maximilien. Grazie all’amicizia con Antoine-Joseph Buissart, un altro avvocato di Arras nonché scienziato dilettante e appassionato lettore dell’Enciclopedia, ottenne, infatti, la difesa di Charles-Dominique de Vissery de Bois-Valè, anch’egli avvocato e coinvolto in una causa per aver installato sul tetto della propria abitazione un bizzarro e gigantesco parafulmine. I suoi vicini, temendo che il marchingegno potesse deviare i fulmini verso le loro case, erano riusciti a ottenere dal Tribunale un’ordinanza per farlo smantellare, ma Vissery non si dette per vinto: fece appello al Consiglio Superiore dell’Artois e affidò la sua difesa in tribunale a Buissart che compilò un poderoso rapporto grazie al quale Maximilien, gestendo la causa con abilità e convinzione, riuscì a far ritirare l’ordinanza. Le sue argomentazioni furono tutte di natura filosofica, tanto che la causa diventò una vera e propria crociata di sapore prettamente illuministico contro l’oscurantismo e l’ignoranza.
Così l’avvocato Maximilien Robespierre si espresse davanti al Consiglio Superiore di Arras:
«Signori, voi dovete difendere la Scienza. Il fatto che l’intera Europa guardi alla questione qui dibattuta garantirà che la vostra decisione abbia la più ampia notorietà… Parigi, Londra, Berlino, Stoccolma, Torino, San Pietroburgo verranno a conoscenza al tempo stesso di Arras di questo segno della saggezza e dell’entusiasmo vostri per il progresso scientifico».

Il giornale nazionale Mercure de France dette ragione a Maximilien e nel giugno dello stesso 1783 pubblicò un articolo terminante con queste parole:
«In questo procedimento, che è diventato la causa delle Scienze e delle Arti, monsieur Maximilien de Robespierre, un giovane avvocato di raro talento, ha dimostrato un’eloquenza e una saggezza che hanno lasciato un’ottima impressione della sua preparazione».
Il successo ottenuto indusse Maximilien a rivolgersi direttamente a Benjamin Franklin, poiché si rendeva conto che, in fondo, nella causa Vissery de Bois-Valè aveva difeso la più nota delle invenzioni del geniale americano:
«Il desiderio di contribuire a sradicare i pregiudizi che impediscono il progresso nella nostra regione mi ha ispirato di far stampare il discorso che in tale causa ho pronunciato davanti alla Corte. Oso sperare, Signore, che Lei vorrà gentilmente riceverne una copia… [Sarò] ancor più felice se potessi aggiungere a tale cortesia l’onore di guadagnarmi l’approvazione di un uomo la cui virtù minore è quella di essere il più famoso uomo di scienza dell’universo».

Sempre nel 1783 Maximilien comparve in un’altra causa destinata anch’essa a diventare altrettanto nota: la difesa del mastro calzolaio François-Joseph Deteuf contro l’abbazia benedettina di Anchin, quest’ultima difesa da Guillaume Liborel, lo stesso avvocato che aveva facilitato l’ammissione di Maximilien nel Consiglio Superiore dell’Artois. L’antefatto era molto semplice: un monaco, successivamente trovato colpevole di peculato, accusò di furto l’artigiano Deteuf la cui sorella Clémentine, guardarobiera presso l’abbazia, aveva rifiutato le sue avances. Deteuf querelò l’abbazia per danni materiali e Maximilien ne assunse la difesa, adottando l’insolita procedura di pubblicare il promemoria prima del verdetto nella speranza che l’opinione pubblica facesse pressione sui giudici.

In questa causa Maximilien asserì che i benedettini di Anchin erano responsabili delle loro azioni di fronte al popolo e chiese una condanna per calunnia in nome di tutti coloro i quali si fregiavano del titolo di cittadino. La causa si trascinò per diverso tempo e fu risolta alla fine con un compromesso extragiudiziale con il quale Maximilien si impegnava a ritirare alcune delle sue accuse mentre l’abbazia offriva un cospicuo compenso materiale a Deteuf. Dopo questo episodio i rapporti tra il giovane avvocato e l’élite ecclesiastica e forense di Arras iniziarono a incrinarsi.

Nel 1786 Maximilien si occupò del caso Page, una donna accusata di usura.
Non gli sembrò, almeno all’inizio, un caso interessante e forse proprio per questo motivo allargò la sua arringa di difesa introducendovi un tema di denuncia del sistema giudiziario francese dell’epoca. Si dilungò moltissimo sui rischi a cui andavano incontro gli imputati coinvolti nei processi asserendo, tra l’altro:
«Una persona debole e timida […] può impallidire, balbettare e contraddirsi […] e continuare a essere innocente. […] Alla vista del gran numero di patiboli grondanti sangue innocente sento dentro di me una voce potente che grida di eliminare per sempre la fatale abitudine di mettere in prigione solo sulla base delle supposizioni».

Proseguì poi attaccando lo «spaventoso labirinto della procedura giudiziaria» e l’ignoranza dei giudici dei tribunali signorili, auspicando quella che chiamò «felice rivoluzione» del sistema giudiziario che un governo responsabile era tenuto a effettuare. Nell’arringa non mancarono anche accenni di denuncia del sistema assolutistico vigente in Francia in quel tempo:
«L’autorità divina che ordina ai re di essere giusti, vieta ai popoli di farsi schiavi».

Madame Page fu alla fine assolta, ma i giudici ordinarono che Maximilien togliesse dalla memoria del dibattimento processuale tutte le osservazioni che ponevano in discussione l’autorità della legge e che criticavano l’operato dei giudici. In sostanza la causa Page più che una difesa legale fu un discorso di natura politica e giudiziaria.

Nel 1789 fu la volta del caso Dupont il quale, incarcerato per molti anni in seguito all’emissione di una lettre de cachet, chiedeva di ritornare in possesso di una sua eredità legittima. Nel corso del dibattimento della causa Maximilien si scagliò, chiedendone la soppressione, contro il sistema delle lettres de cachet, in base al quale una persona, senza processo e senza alcuna difesa legale, poteva essere condannata al carcere o al confino o alla deportazione o all’espulsione dal luogo dove abitava:
«Come può ammettere l’autorità regia che dei privati, armati di lettres de cachet in bianco, che possono riempire a loro buon grado con i nomi di presunti criminali, tengano nei propri portafogli il destino di molti uomini, rievocando così il ricordo storico di quei famosi autori delle liste di proscrizione la cui mano tracciava, su tavolette insanguinate, la vita o la morte di una moltitudine di romani?».

Nella memoria della causa il giovane avvocato Maximilien scrisse:
«Il mezzo per prevenire i crimini consiste nel riformare i costumi; il mezzo per riformare i costumi consiste nel riformare le leggi».
Il rivoluzionario, come abbiano visto, era già fortemente in nuce, ma Maximilien sarebbe rimasto un avvocato di provincia se la situazione politica, giuridica, sociale ed economica della Francia non fosse fragorosamente esplosa nel fatidico 1789, anno di inizio, come è ben noto, della Rivoluzione.

L’accademico.
La Regia Accademia di Arras, costituita da esponenti della nobiltà e del clero, negli anni Ottanta del XVIII secolo era il centro culturale dell’Artois. Maximilien vi entrò a far parte nel novembre 1783, grazie sia alla notorietà che gli aveva procurato la causa del parafulmine, sia in virtù della sua amicizia con Buissart. Alcuni mesi dopo, nell’aprile 1784, egli tenne il suo discorso inaugurale parlando di un tema giuridico che, a sua volta, era stato proposto in un concorso dalla Société Royale de Sciences et Arts: le pene infamanti o la corruzione del sangue, concetto legale del tempo che estendeva alla famiglia di chi si rendeva colpevole di un reato parte della sua colpa. Il titolo della dissertazione, che costituiva il discorso, era L’origine dell’opinione che estendeva a tutti i componenti di una famiglia parte dell’ignominia associata alla pena infamante subita da un colpevole. Maximilien, rifacendosi allo Spirito delle leggi di Montesquieu, al filosofo inglese Francis Bacon e in parte al giurista italiano Cesare Beccaria, suddivideva le nazioni in due categorie, vale a dire le monarchie basate sull’accettazione del cosiddetto codice d’onore dell’epoca e le repubbliche fondate invece sulla virtù o senso civico, contestava apertamente il fatto che le pene infamanti riguardassero sempre e soltanto membri della borghesia e del popolo mai appartenenti alla nobiltà, proponeva, infine, di cancellare le pene infamanti in base proprio alla natura e ai principi che distinguevano i regimi monarchici da quelli repubblicani, dove «la virtù produceva la felicità, così come il sole produceva la luce», ma dove, comunque, il rispetto della legge e il bene comune restavano fondamentali:
«Negli Stati dispotici la legge non è altro che la volontà del principe… […] il principio fondante delle repubbliche è la virtù, come l’autore dello Spirito delle leggi ha dimostrato, cioè a dire la virtù politica, che non è nient’altro che l’amore della legge e del paese. Le loro costituzioni richiedono che ogni interesse particolare, ogni legame personale cedano sempre il passo al bene generale… [Un cittadino] non deve risparmiare nemmeno la persona da lui più amata, se colpevole, quando il bene della repubblica ne richieda la punizione. […] Noi ripetiamo costantemente la giusta massima che dice che è meglio risparmiare un centinaio di colpevoli piuttosto che sacrificare un solo innocente».

Poco tempo dopo Maximilien inviò questo suo testo a un concorso bandito dalla Société Royale de Metz, aggiudicandosi un premio speciale di quattrocento livres che utilizzò per farlo pubblicare a Parigi. Il duplice successo di Arras e di Metz aveva però creato un certo malumore nella nobiltà e nel clero della sua città natale, dal momento che Maximilien aveva messo in dubbio la legittimità dell’ordine sociale e i principi del codice su cui si fondava la società aristocratica del suo tempo. E questo malumore, fra l’altro, si aggiungeva ai già non proprio buoni rapporti che Maximilien, come avvocato, aveva con il mondo ecclesiastico e quello forense di Arras.

Nel 1785 Maximilien presentò un saggio al premio che annualmente conferiva l’Accademia di Amiens, premio che per ben tre volte era stato offerto per un elogio di Jean-Baptiste Gresset, un poeta locale, senza che però fosse mai conferito. In palio c’erano milleduecento livres. Nel saggio Maximilien poneva in evidenza la virtù, la moralità, la religiosità di Gresset e il fatto che avesse preferito l’oscura vita in provincia ai fasti della capitale. Egli, inoltre, elogiò i vescovi di Amiens, ai quali attribuì il merito di «aver mostrato a un secolo corrotto la visione delle virtù che splendevano in tempi felici»; tra di essi vi era anche l’alto prelato che era stato coinvolto nel caso dello Chevalier de la Barre, torturato e decapitato per sacrilegio e poi bruciato insieme al Dizionario filosofico di Voltaire.

Nel 1786 Maximilien divenne direttore della Regia Accademia di Arras, carica che durava un anno. Nel suo discorso inaugurale affrontò il tema degli svantaggi legali dei bambini nati fuori del matrimonio con il preciso obiettivo di assicurare «la protezione e la felicità di una parte significativa dell’umanità». Si trattò di un discorso importante per due motivi: da un lato Maximilien confermò la necessità di affrontare le disuguaglianze sociali e dichiarò che la povertà corrompeva la morale e devastava l’animo del popolo rendendolo più disponibile al crimine perché ne soffocava i naturali istinti dell’onore e della dignità umana; dall’altro lato rivelò la sua concezione del matrimonio e della famiglia come pilastri della società:
«Il matrimonio è una fertile fonte di virtù: vincola il cuore a migliaia di oggetti degni, abitua alle passioni gentili, ai sentimenti onesti. È una norma derivata dalla natura stessa: quando si diventa padri, in genere, si diventa uomini più onesti. Ciò è specialmente vero per la classe di uomini di cui sto parlando. La moglie, i figli sono legami potenti che vincolano un servo ai doveri della proprietà in cui lavora; sono garanti preziosi della fedeltà e della sottomissione. Io non so perché si dovrebbe preferire a servi di questo tipo esseri isolati in cui l’indipendenza del celibato sembra incoraggiare la ribellione e la licenza».

Maximilien terminava auspicando che i governi cambiassero con il passare del tempo e si adattassero al corso delle idee e dei costumi pubblici e affermando che i bambini concepiti fuori dal matrimonio dovessero godere non solo del nome e dello status sociale del padre, tenuto per legge a provvedere al loro mantenimento senza così incorrere in sanzioni penali, ma anche dei diritti di proprietà a loro trasmessi per via ereditaria.

Nel 1787 Maximilien conobbe il capitano Lazare Carnot, diventato da poco membro della Regia Accademia di Arras. I due si sarebbero incontrati di nuovo nel 1793 in circostanze completamente diverse, entrambi membri del Comitato di Salute Pubblica.

Nell’aprile dello stesso 1787 Maximilien, in qualità di direttore della Regia Accademia di Arras, presiedette la seduta pubblica annuale in occasione della quale vennero ammessi quattro nuovi membri, tra cui due letterate: Marie La Masson Le Golft di Le Havre e Louise de Kéralio di Parigi. L’evento offrì a Maximilien il pretesto per dichiarare che anche le donne avevano il diritto di essere ammesse nelle società letterarie in virtù della complementarietà della loro natura con quella degli uomini:
«La natura ha dato a ciascun sesso i talenti che gli sono più congeniali. L’intelligenza dell’uomo ha più forza ed elevazione; quella della donna è d’approvazione… […] anche il loro sesso ha dei doveri, perché il cielo non è stato prodigo di doni e bellezza con le donne affinché non fossero che una vana decorazione dell’universo… […] ma affinché contribuissero alla gloria e alla felicità della società».
Nel corso di questa seduta pubblica Maximilien non mancò poi di fare un accenno all’«umanità degradata che sembrava annichilita sotto il giogo infame della tirannia feudale».

Sempre nel 1787 Maximilien entrò a far parte del circolo letterario dei Rosati, che era stato fondato ad Arras nove anni prima per iniziativa di un gruppo di studenti, i quali si erano riuniti casualmente in un giardino «per amicizia, grazie al comune gusto per la poesia, le rose e il vino». I Rosati non si occupavano di politica e di altre questioni pubbliche, ma erano semplicemente un gruppo di uomini che avevano sentimenti e interessi comuni, che amavano i giochi letterari, la poesia e soprattutto lo stare insieme, consapevoli, comunque, di essere illuminati e di giocare un ruolo importante nella vita di Arras. A ogni nuovo membro veniva consegnato un diploma rosa, profumato di rosa e recante un timbro a forma di rosa con scritti sopra dei versi a cui egli doveva rispondere improvvisando altri versi, rito al quale Maximilien, ovviamente, si sottopose:
«Vedo la spina con la rosa / nei bouquets che mi offrite / e celebrandomi / i vostri versi scoraggiano la mia prosa. / Tutto quel che mi si è detto di lusinghiero / Signori, ha il diritto di confondermi; / la rosa è il vostro complimento / la spina è l’obbligo della risposta […]».

Maximilien fu autore di diverse poesie, tra cui ne ricordiamo almeno due: quella di elogio della vita in campagna, un’esistenza semplice, onesta e non tormentata «né dal crimine né dal terrore»; quella d’amore, un madrigale dedicato a una donna conosciuta a Parigi, una certa Ophélie Mondien:
«Credetemi, giovane e bella Ofelia, / qualsiasi cosa dica il mondo e malgrado il vostro / specchio, / siate contenta di essere bella e di non saperne nulla, / conservate sempre la vostra modestia. / Del potere del vostro fascino / siate dimora sempre allarmata. / Sarete tanto più amata / se non temete di esserlo».

Probabilmente ai Rosati Maximilien ebbe modo di conoscere Joseph Fouché, allora insegnante di scienze nel Collegio di Arras, poi tra i principali artefici della sua caduta nelle giornate terribili del Termidoro. Con l’aggravarsi della situazione politica, giuridica, sociale ed economica della Francia la produzione accademica di Maximilien, sempre più assorbito dai suoi impegni di avvocato e soprattutto dall’inizio della sua nuova attività di politico, cessò quasi del tutto.

Lo stile di vita.
Tra la vita brillante e bohémien di Parigi e l’oscura rispettabilità di Arras, Maximilien, una volta diventato avvocato, optò, come abbiamo visto, per la seconda: ne concorsero diversi motivi: la necessità di aiutare la sorella Charlotte, con la quale divideva la stessa abitazione, e il fratello Augustin, studente al Luigi il Grande; la convinzione che il cambiamento, come abbiamo detto prima, dovesse partire ”dal basso”; il suo stesso carattere. Con impegno, serietà, pazienza e costanza egli si dedicò alla professione forense, che lo impegnò notevolmente fino all’astrazione, pur lasciandogli del tempo libero equamente diviso tra studi umanistici, attività accademica e una vita familiare pacifica fatta di riunioni domestiche con una ristretta cerchia di amici, passeggiate e visite di cortesia in un contesto locale tipicamente piccolo borghese, ma anche in anni in cui si andava acuendo la crisi istituzionale e sociale della Francia. La sua esistenza, densa di impegni e di interessi, era molto regolata: si alzava di buon’ora, mangiava e beveva con moderazione preferendo frutta e caffè, aveva molta cura della sua persona tanto che ogni mattina un parrucchiere provvedeva a raderlo e a incipriargli la parrucca a cui teneva particolarmente.

Nel 1786 la pittrice Adélaïde Labille-Guiard così rappresentò Maximilien ventiseienne, ormai noto sia come avvocato che come oratore:
«Sottile e distinto, la fronte spaziosa sotto la parrucca ben curata, occhi chiari e dolci sotto sopracciglia nettamente arcuate, una bocca sottile un naso lungo e rivolto all’insù, le gote rotonde, il mento un po’ pesante sotto lo jabot di pizzo, la mano destra posata su gilet ricamato».

Una testimonianza del tempo, riferendosi però a un altro ritratto di Maximilien, afferma che egli «aveva lo sguardo inquieto, ma dolcissimo del gatto domestico». Esistono poi numerosi ulteriori ritratti di Maximilien, tra cui quello seduto di Louis-Léopold Boilly, quello di profilo, un’incisione attribuita a Franz Gabriel Fiesinger e realizzata sulla base di uno schizzo di Jean-Urbain Guérin e quello frontale, che è il più noto, opera di un pittore anonimo e attualmente conservato nel Museo Carnavalet di Parigi. In essi però, come del resto nel quadro della Labille-Guiard, non vi è traccia alcuna sul suo volto del vaiolo che lo colpì, come abbiamo detto, quand’era bambino. In uno schizzo a matita di François Gérard sono invece presenti gli occhiali che egli portava per leggere e scrivere.

Maximilien diceva di essere “povero” che per lui significava provvedere ai propri bisogni con il proprio lavoro, senza rifiutare il benessere, ma senza neppure ricercare il lusso e l’ozio: questo suo concetto di “povertà”, fra l’altro consono alla sua austera moralità e soprattutto agli ideali di Rousseau di cui si nutriva, era sostanzialmente l’ideale della classe media e in particolare della piccola borghesia francese dell’epoca.

D’altra parte anche la nuova realtà che egli sognava non era quella degli enciclopedisti, né quella della grande borghesia rampante che andava prendendo il posto della vecchia nobiltà, ma proprio quella predicata da Rousseau, capace di ospitare tutta l’umanità. Ad Arras, quando esercitava l’avvocatura, Maximilien era per tutti l’avvocato dei poveri come concordano diverse testimonianze, tra cui quella di un suo contemporaneo, un certo Alissan de Chalet e quella di François Noël Babeuf, il futuro “socialista”. De Chalet scrisse dopo la morte di Maximilien, diventato con il Terrore un simbolo dell’odio:
«Bisogna essere giusti con tutti, anche con Robespierre; si deve riconoscere che egli non fu mai mosso dall’amore per il denaro. Al contrario, fu sempre una persona eccezionalmente disinteressata. Per molti anni fece consulenze gratuite e non provava alcun piacere nel ricevere l’onorario dei suoi clienti, anche quando vinceva le cause, nonostante non avesse ricchezze patrimoniali e fosse anzi così povero che doveva prendere a prestito i vestiti».

Anche Babeuf scrisse cose dello stesso tenore nella lettera destinata alla principale autorità laica di Arras: «Monsieur Robespierre è considerato una delle persone più notevoli del vostro foro. Penso che sia un uomo di assoluta onestà e raro disinteresse. […] L’avvocato Desmazières ha detto: Nessuno dei nostri colleghi può a maggior diritto essere chiamato il difensore delle vedove e degli orfani.
A monsieur Robespierre non interessa far soldi; egli è e rimarrà solo l’avvocato dei poveri».

Nonostante la mole di clienti Maximilien non fu mai titolare di un grande studio legale con relativo reddito e ciò per due motivi: in primo luogo perché fu, appunto, l’avvocato dei poveri; in secondo luogo perché, lo abbiamo visto più volte, nelle sue arringhe, come del resto negli scritti pertinenti la sua attività accademica, criticò sempre più apertamente il regime di privilegio che regolava la vita politica, giuridica, sociale ed economica francese dell’epoca.

Maximilien conservò il suo concetto di “povertà” anche nel momento in cui iniziò l’attività politica, incontrando così il favore e l’appoggio dei giacobini e dei sanculotti, i protagonisti più radicali della Rivoluzione francese, la cui vita era improntata a valori quali l’onestà, il dovere, il senso della misura, la repulsione sia per l’eccessiva ricchezza che per la miseria.

Maximilien ebbe, inoltre, un alto concetto intellettuale e morale dell’austerità della sua vita in virtù del quale né il privilegio di nascita, né quello di censo potevano essere il parametro dei diritti degli uomini e dei cittadini.

Sia negli anni di Arras che in quelli di Parigi Maximilien, contrario tanto al vestire trasandato quanto al lusso smodato, portò sempre pantaloni sotto il ginocchio, giacca, gilet, jabot e parrucca debitamente incipriata, senza mai indossare né i pantaloni dei sanculotti, né la giacca carmagnola e neppure il berretto frigio che egli considerava come simboli meramente esteriori e simbolici e ai quali contrapponeva la rettitudine del suo modo di vivere, la fermezza dei suoi principi, la correttezza delle sue azioni. Al tempo stesso non ammise mai un servitore alla propria tavola, atteggiamento quest’ultimo tipico della borghesia francese dell’epoca che non venne mai meno neppure negli anni più tragici della Rivoluzione.

Per concludere un accenno alla vita sentimentale di Maximilien, il quale non si sposò mai, né da giovane e nemmeno in età più avanzata, e non ebbe figli. Ad Arras coltivò alcune relazioni femminili quali madamoiselle Dehay, un’amica della sorella Charlotte, e una certa madamoiselle Henriette oltre alla già citata Ophélie Mondien conosciuta però nella capitale. Tenne anche una corrispondenza epistolare con una dama dell’alta società non meglio identificata e frequentò il salotto di madame Marchand, che divenne successivamente la direttrice del Journal du Pas-de-Calais. Ebbe una relazione anche con madamoiselle Anaïs Deshorties, figlia di primo letto del marito di una sua zia. Negli anni della Rivoluzione sembra che Maximilien fosse molto legato a Éléonore Duplay, una delle figlie del padrone della casa parigina dove egli abitava, relazione, tuttavia, che fu sempre fortemente smentita dalla sorella Charlotte.

Per saperne di più

Annales Historiques de la Révolution française, n. 152, Paris, 1959
H. Buffonoir, Les portraits de Robespierre, Paris, 1910
V. Daline, “Robespierre et Danton vus par Babeuf” in Annales Historiques de la Révolution française, n. 162, Paris, 1960
F. Furet -D. Richet, La Rivoluzione francese, trad. it., Bari, 1974
A. Gnugnoli, Robespierre e il Terrore rivoluzionario, Firenze, 2009
H. Guillemin, Robespierre politico e mistico, trad. it., Milano, 1989
N. Hampson, Robespierre l’incorruttibile?, trad. it., Milano, 1984
L. Jacob, Robespierre vu par ses contemporains, Paris, 1938
A. Mathiez, Robespierre, trad. it., Roma, 2006
M. Mazzucchelli, Robespierre, Milano, 1955
P. McPhee, Robespierre. Una vita rivoluzionaria, trad. it., Milano, 2015
Papiers inédits trouvés chez Robespierre, Saint-Just, Payan etc., Paris, 1828, vol. I
L.-B. Proyart, La vie et les crimes de Maximilien Robespierre, Augsburg, 1795
“Robespierre” in I grandi contestatori a cura di D. Dan, Milano, 1973
C. Robespierre, Mémoires de Charlotte Robespierre sur ses deux frères, Paris, sd.
A. Soboul, “Robespierre” in I Protagonisti della Storia Universale. La Rivoluzione francese e il periodo napoleonico, trad. it., Milano, 1968, vol. VIII
G. Walter, Robespierre, Paris, 1946

http://www.storiain.net/storia/il-giovane-robespierre-un-rivoluzionario-prima-della-rivoluzione/

Elenco blog personale